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Autore: carachiel    30/06/2018    5 recensioni
E' noto che fare patti con qualsivoglia creatura non umana porta solo che a grandi macelli.
Ma se proprio bisogna aprire il Vaso di Pandora delle recriminazioni, beh...
“Non è attestato quanta energia contenga in totale il corpo umano, ma dalle nostre indagini è venuto alla luce che sarebbero comunque livelli altissimi.”
“Quindi sarebbe possibile?”
“Sì. Il sacrificio volontario permetterebbe in passaggio tra le due energie, essendo esse di matrici opposte. Inoltre, ma credo che tu lo sappia, è necessaria una buona intesa fra donatore e ricevente.”
“…Sulla Terra lo chiamiamo trapianto.”
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Byron Arclight/Tron, Christopher Arclight/ Five, Michael Arclight/ Three, Thomas Arclight/ Four
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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- Questa storia fa parte della serie 'Impulso–verse'
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San Giovanni: Fui l’unico a sopravvivere

“Once was a man who consumed his place and time
He thought nothing could touch him
But here and now it's a different storyline”
Duran Duran, Falling down

 
Nessuno di loro credeva seriamente di riuscire a sopravvivere uno all’altro, o di arrivare così lontano. E nessuno si era stupito quando si era ritrovato ancor più lontano, oltreoceno.
Men che meno Byron.
Sapeva che sarebbe successo, non era inaspettato che rifiutassero sé stessi e lui fino ad abbandonarlo, ma l’aver appena imparato ad amarli, forse era ciò che li aveva spinti ad andarsene.
E una volta rimasto solo ad Heartland City, perso in una casa troppo grande per i suoi ricordi, capì che forse era il momento di andarsene.
 
Tre anni dopo
 
Era idilliaco, tornare per la prima volta come un completo estraneo. Non era più Byron Arclight, non era più il doppelgänger di Tron, neanche più il noto chimico. Non era più nessuno.
E a conti fatti, nonostante i ragionevoli dubbi iniziali, non si pentiva di essersi messo in viaggio per raggiungere quel santone tibetano che si diceva avesse la capacità di separare le anime tormentate.
 
E adesso che era distante da quell’essere era certo che, nonostante avesse potuto cercare qualunque rito per salvare quel poco che restava della sua razionalità, l’unico modo per fare pace con esso fosse di accettarlo.
Se non altro era riuscito a placare i propri sensi di colpa, anche se la notte continuava a non riuscire a dormire
 
Era arrivato ad immaginare il nulla, la devastante solitudine attorno, senza sapere cosa ne sarebbe stato del resto della sua vita, se ancora gliene restava.
E non gli restava nulla, neppure la sua ferrea razionalità, solo la consapevolezza di star per morire perché lì, non c’era niente.

Aveva solo paura di perdere il controllo. Dopo una vita passata a misurare quietamente ogni fattore, dove una lunghezza era una certezza.
 
E la scelta di organizzare la cena di Natale, di riaverli accanto, era solo un motivo in più per avere la certezza che non poteva fare nulla. Che era comunque quanto di meglio potesse fare.
Non sentiva i figli da anni, e forse era stata la cosa migliore, lui per loro poteva essere morto, ancora, ma il non sentirli non significava che non sapeva dove fossero.
Five se n’era andato negli Stati Uniti per un dottorato di ricerca sui fenomeni spaziali. Four era in Spagna per un torneo dopo aver accompagnato Three in Grecia, dove stava studiando la veridicità della guerra di Troia sulla base delle ricerche di Shliemann.
Sorrise tra sé all’idea, farsi coinvolgere in una guerra in Asia non sarebbe mai stata una buona idea.
 
­­____________________________
 
Three quella mattina era preoccupato. Molto preoccupato. E quella busta col sigillo di ceralacca rossa, con una A stampata in rilievo, ne era il fattore scatenante. In lontananza, il cielo grigio e plumbeo riecheggiava borbottando imperioso, come a ricordargli di aprire in fretta la lettera che, indeciso, si rigirava tra le mani.
E fu con un certo stoicismo che scorrendo tra le righe vergate in quella calligrafia rigida e inclinata, realizzò il tempo che era passato. Da quando viveva in Grecia, aveva staccato la spina. Four lo avrebbe preso in giro dicendo che lì non avevano niente, neanche i calendari.
Non fece in tempo ad alzarsi dalla colonna su cui era seduto che il telefono che teneva in tasca squillò
“Pront-“
“Pronto un corno! È arrivata anche a te la lettera, non è vero?” gli ululò una voce dall’altro capo.
“Four...”
“No, Babbo Natale! Sveglia, pulce! Che hai intenzione di fare?”
“Abbiamo alternative?”
“Non lo so, aspetta, ho Five sull’altra linea. Pronto?”
In capo a venti minuti, sei telefonate e quattro videochiamate e un gran mal di testa per Three, erano riusciti a stabilire che sarebbero partiti per metà Dicembre, una volta messi in pausa tutti gli impegni lavorativi.
E ancora non capiva perché si ostinavano a chiamarsi con gli pseudonimi, ma suppose fosse un’abitudine derivata dal non riuscire a dimenticare, financo ad accettare, quel che era stato.
Ma in realtà era solo una scusa per porre una distanza, per ricordare a loro stessi che non sarebbero mai riusciti a tornare quel che erano una volta.
 
Non appena si incontrarono davanti al gate Five ebbe la certezza totale di non riconoscerli. Se dal video ne aveva avuto il sospetto, ora pressochè certezza. Erano passati tre anni e non un’eternità, ma vedere Four arrivare vestito elegante, con i capelli raccolti in una coda e quell’aria tranquilla era… beh, sconcertante.
“Ah, sei tu.” proruppe, in un tono talmente casuale da far pensare che si aspettasse di vedere un fantomatico Godot. “Three non è ancora arrivato? Strano. Doveva essere il primo ad arrivare.”
“Temo ti dovrai accontentare.” rispose in un tono di impalpabile ironia, avendo colto la delusione nel tono dell’altro.
“Mi sei mancato.” mormorò Four stancamente, appoggiando la testa alla sua spalla.
“Forse l’unico gesto esplicitamente affettuoso a cui si lascia andare con me” si appuntò mentalmente l’albino, scrollando la testa accondiscendente.
 
Three arrivò dopo una manciata di minuti, affannato “S-scusate, l’aereo ha portato ritardo... Uff…” mormorò, spazzolandosi via dalle spalle la neve che nel frattempo aveva ricominciato a cadere.
“Bentornato pulce!” eslamò Four abbracciandolo fino a sollevarlo da terra e scompigliandogli i capelli
“Lascialo respirare…” intervenne Five guardandolo distrattamente
“Nii-san…” mormorò Three sciogliendosi dalla stretta di Four, guardandolo. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma sapeva che Five non era mai stato tipo da effusioni.
“E’ bello rivederti.” lo sollevò dall’impaccio il suddetto, con un colpetto sulla spalla, per poi sfiorargli i capelli “Ti stanno bene così castani. Li hai tagliati e tinti, vero?”
“Sì, non li sopportavo più rosa.” confessò
“E’ un peccato che i miei capelli siano refrattari alla tinta.” ponderò ad alta voce, ravviandosi la lunga chioma argentea “non mi dispiacerebbe averli tutti biondi”
“Sì, così poi ti scambiano per il fratello illegittimo di Kite, considerato che siete attaccati più delle cozze!” rise Four
“Ma ti pare…!” gli fece eco Three, mentre iniziavano ad avviarsi.
 
 
E una volta arrivati sulla porta di casa, con la sensazione imperante di non trovare una corrispondenza tra i rispettivi ricordi e i loro volti, fu solo un colpo, un quieto bussare a separarli da tutto quello che poteva venire.
“È aperto.”
La tappezzeria era ancora verde celadonio, con la boiserie di noce, scura.
E poi, loro padre. Di nuovo, nonostante quest’ultimo non fosse cambiato di un millimetro negli anni, il tempo che scorreva sui suoi tratti affilati come acqua sul granito, avevano la percezione di non riconoscerlo.
E non erano solo ubbie*.
 
Five per primo mosse un passo dentro, calpestando il confine immane tra loro. La stanza gli appariva troppo luminosa, dopo il grigiore consistente della neve.
Quando l’uomo si avvicinò, nonostante fossero pressappoco della stessa altezza, Five aveva ancora la percezione di essere sovrastato da quello sguardo.
“Hai gli occhi di tua madre.” sospirò
A quelle parole sollevò un angolo della bocca in un sorriso sghembo, se l’aspettava. Quando era andato a farsi togliere le bende, allo scadere dei novanta giorni, l’uomo aveva trovato ogni genere di scusa pur di non guardarlo negli occhi. Ed era solo uno dei motivi per cui loro padre non era mai stato vivo.
“Pà, se adesso sei un santone perché hai ancora i capelli? ironizzò Four
“Non sono un santone…” mormorò, sistemandosi le lunghe ciocche biondo cenere
“Manco un santo se è per questo.”
L’uomo commentò con un sorriso “Anche tu mi sei mancato, Thomas.”
E alle parole del fratello, pronunciate con tutta l’amarezza di chi è certo, Five si ritrovò concorde.
Ma stava pensando solo a sé stesso.
 
______________________________ 

Quattro anni prima…
Era in piedi, una smorfia piena di amarezza dipinta sul volto, con davanti Three a ricordargli che Tron non era loro padre.
“Vorrei vivere nella realtà come fate tu e Thomas, ma so quali sono le priorità. Sono comunque il primogenito della nostra famiglia, le responsabilità del nome presto saranno mie.”
La rabbia distorse i lineamenti del fratello che, con sorprendente rapidità, gli afferrò il colletto, costringendolo a guardarlo negli occhi, parlando con un sussurro appena udibile.
“Puoi davvero essere così egoista? Tu sai quello che ci ha fatto… gli abusi, il terrore che ci ha impresso, spingendoci verso l’autodistruzione… E vorresti rifiutare tutto questo solo perché hai paura di prendere il suo posto?”  la stretta si alleggerì un poco “Hai solo paura di prenderti cura di noi, vero? Per questo accetti che quel mostro sia anche solo la metà di quanto era nostro padre…”
“Ho solo paura di diventare come lui.” confessò, quasi a sé stesso.
______________________________
 
E, a distanza di anni, sapeva di non aver fallito. E l’idea di non aver ancora perso i suoi fratelli, stava a significare che aveva ragione.
Voleva ancora per loro quell’happy ending, non importava in che modo l’avrebbe raggiunto.
Poi si sedettero, cenando in silenzio.
Non era cambiato nulla, il tempo si era fermato ancora.
E ognuno si era messo a parlare senza ascoltare gli altri pur di non sentire i solenni ticchettii della grande pendola, che avrebbero sancito la fine di quel ridicolo convivio.
Anche il semplice parlare di lavoro o di qualsiasi altra trivialità era per Five un tormento, perché non riusciva ad accettare come mai fosse ancora lì. Soprattutto non gli tornava la reazione dei fratelli, che inspiegabilmente sembravano felici di stare in quella casa. Ma si arrese, sforzandosi di pensare ad altro, come al fatto che avrebbe dovuto scrivere a Kite, che era rientrato in città, sperando di ricevere notizie più regolari  di quelle che ne riceveva in America, sparse e abbastanza frammentate. Sapeva solo che stava bene, era impegnato in una ricerca sull’origine dei Numeri e la loro diffusione, con Hart che lo aiutava entusiasta, e tali notizie erano sufficienti a rasserenarlo sulla loro sorte.
 
Dopo cena spofondarono nell’ampio divano color champagne, in silenzio finché Four non ebbe l’idea di rivangare il passato, cosa che per nessuno di loro era piacevole o confortante, secondo Five.
Tossicchiò seccamente, per interrompere un monologo del fratello che stava descrivendo in modo dettagliato l’imbarazzante primo giorno di scuola di Three.
“Mi spiace interrompere un racconto così… interessante ma non potremmo spostare la discussione su altre questioni? Come la vendita di quella casa-“
“Oh andiamo nii-san, che c’è, ti piacerebbe di più parlare di tutto quello che ci hai fatto?” lo attaccò Three, che quella sera aveva bevuto un po’ troppo.
Five tacque, metabolizzando per una manciata di secondi quelle parole. “Non credo di capire…”
“Cosa c’è da capire?” si introdusse Four violentemente, per poi fare una pausa “Sai fratello, sono ormai mesi che ci penso, ma penso che in tutto quello che è successo anche tu abbia la tua bella fetta di colpe, e non puoi esimerti da esse! E’ vero, hai cercato di metterci sopra una toppa” aggiunse guardando di sbieco il padre che si era acceso nervosamente un sigaro “ma se avessi realizzato prima in che… Oh insomma!” esclamò esasperato
“Siamo in questa situazione per colpa tua.” soggiunse Three freddamente, l’alcol a sciogliere quella barriera di rispetto che in altre situazioni avrebbe risparmiato quelle parole. Specialmente con Five.
Loro padre non disse una parola, ma stringendo Three per la spalla fece capire tacitamente che era d’accordo.
Erano concordi, un muro di titanio saldo nel riconoscergli quelle stesse colpe che quattro anni prima non si era voluto assumere.
Suonava come un tradimento, alle sue orecchie.
“E’ vero” sussurrò una vocina beffarda accanto al suo orecchio sinistro “Hai fatto i tuoi assassinii, e non puoi neanche rimproverarti di averli voluti. Li hai cacciati tu. E ti seppelliranno.”
A quelle parole la sua testa precipitò come se gli fosse stato reciso un tendine, si strinse nelle spalle come a cercare un riparo da quelle verità. Per poi realizzare che se non fosse uscito al più presto da quella stanza, da quella casa, sarebbe crollato a terra, consumando il terreno, mentre tutti gli altri lo guardavano cadere.
“Scusatemi… non mi sento bene.” mormorò uscendo, il passo affrettato.
 
Non appena fu fuori inspirò, cercando di calmarsi, ma non migliorò affatto il ricordare, chissà perché, quando parlando con Kite alla ricerca di una cura per il suo stato, egli l’avesse incolpato di avergli insegnato a duellare e che, se lui non avesse avuto quella passione per i duelli, la modalità Fotonica non l’avrebbe distrutto lentamente. Ma a conti fatti, non era poi diverso da quel che aveva fatto coi suoi fratelli, vero?
Non si era mai permesso di realizzare tutte le colpe di cui si era macchiato, era uno dei motivi per cui si era costruito uno scudo di puro stoicismo.
Esisteva solo il dovere, ed era su ciò si era sempre basato.
Perché era rassicurante, come leggere Kant a tarda notte, tenere avanti la razionalità.
Ma ora che i suoi doveri nei confronti della famiglia erano decaduti, si ritrovava smarrito, senza una via d’uscita. Per un istante si pentì di essersi sacrificato per far tornare loro padre, perché almeno occuparsi dei fratelli l’avrebbe risparmiato dal realizzare tutto quello che poteva aver fatto.
La verità era che lui non provava nulla, a livello inconscio, per questo non avrebbe mai potuto condividere la loro prospettiva.
Neanche il suo pedante raziocinio poteva salvarlo, per quanto osservasse la prospettiva della sua situazione, ormai essa gli appariva definitivamente corrotta.
Neppure lui stesso poteva cambiare. Anche se a malapena ricordava la persona che era stato prima.
 
“Forse sono più vicino al burrone di quanto pensi… Sono appena qualche passo prima di diventare come lui. Già, quei pochi passi che gli avrebbero permesso di salvarsi, prima di quella dannata piattaforma...!”
 
Cadde sulle ginocchia, pur percependo ancora il morbido prato sotto di sé, la neve che andava sciogliendosi, non passava inosservata la luna che brillava sopra di lui, il vento che lo circondava. Eppure…
Eppure il bianco e il nero si confondevano all’improvviso sotto l’asse del lattiginoso satellite, ed in quel momento avrebbe voluto essere immortale al solo scopo di osservare il mondo, perché ora capiva che la realtà era una sola e ciò che differenziava la visione di essa era solo l’immaginario proprio dei singoli.
Ora sì che gli era chiaro che la sua dannazione era vivere proiettato nel passato, senza riuscire a separare la realtà dal sogno. Per una persona come lui, con una simile razionalità, era la fine.
Si era già largamente sacrificato per permettere ai suoi fratelli di essere felici, al prezzo della comune infelicità.
 
“E ora?”
Chiuse gli occhi, e chissà se non li avesse mai aperti, permettendosi di sorridere al destino giudice della sua vita, non potendo sperare in nulla di peggio, consapevole dell’oscurità che per anni aveva assorbito, vedendola appareire, ritrarsi da lui, salvo poi rizzarsi, indicando un punto… il suo cuore.
“E’ vero… il mio cuore è vuoto, perché non ho provato pietà.”
A stento riconosceva la sua voce, mentre pregava quel re di tremendo potere** di concedergli la grazia mentre si condannava, per aver tradito ed esserlo stato.
E neppure il conservare nel nome quel Cristo, lo poteva espiare. Ma a differenza sua, lui era condannato per quel che aveva fatto, e quei ricordi lo avevano già distrutto a sufficienza.
Il dramma era finito.
E l’idea che tutto dovesse continuare ad essere così asettico, lo salvava dal terrore che tutto quel che avrebbe potuto vedere, fosse un giorno cambiato. Ma tale prospettiva gli risultava parimenti insopportabile.
 
Stava crollando, pezzo dopo pezzo, ed era insopportabile saperlo e al contempo, subirlo.
Stava morendo, per quel dannato fuoco che stava consumando tutto ciò che di lui restava, tutto ciò che era già restato.
Ma sarebbe morto tremando, nonostante nessun’altra disgrazia potesse più toccarlo.
E gli altri lo avrebbero visto, oh se lo avrebbero visto, mentre stava cadendo.
Forse, si sarebbe risvegliato nel futuro.
 
 
 

*Ubbia: preconcetto o scrupolo che è causa di timori o sospetti ingiustificata.
** Riferimento al Rex tremendae maiestatis
 

Angolo Autrice: Probabilmente il capitolo dove sono più andata Out Of Character, ma concedetemelo, è stato tremendo dover descrivere un carattere come quello di Five, mentre va in pezzi. E stare qua a spiegarvi i vari riferimenti… Non ha importanza, spero solo che sia uscito qualcosa di leggibile.
Ringrazio chi ha letto silenziosamente e chi ha recensito, considerato che la storia “ufficialmente” finisce qui, il capitolo successivo sarà qualcosa di parzialmente separato, una sorta di finale alternativo con premesse leggermente diverse.
 
   
 
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