All’ombra
del sole morente, sul pontile deserto di una cittadina lambita dal
mare, stava
seduto un giovane. Assorto e contemplativo, fissava alternativamente la
tela
quasi completa di fronte a sé e il panorama che egli aveva
tentato di
riprodurre con la maggiore precisione possibile.
Il tramonto era particolarmente suggestivo, quella sera. Nubi
impalpabili di un
fulgido magenta degradavano nel più vibrante color ambra via
via che si
avvicinavano all’orizzonte, dove il sole illuminava con la
sua ultima luce le
onde leggere che increspavano il mare. Una brezza salina scompigliava i
capelli
corvini del pittore, ne accarezzava il corpo flessuoso e abilmente
sottolineato
dagli abiti di foggia estiva.
Il quadro
procedeva bene; prometteva di diventare un vero gioiello. Il pittore ne
era soddisfatto.
Era sempre stato il suo sogno, sin da bambino, guadagnarsi da vivere
creando
cose belle, che arrecassero piacere agli occhi e all’animo di
chi le avesse
ammirate. Ma quel breve momento di timida gioia non durò a
lungo.
Sopraggiunto alle sue spalle, in silenzio, con la vigliaccheria di chi
è mosso
da intenti perniciosi, un uomo aggredì e
immobilizzò il pittore. Per indurlo al
silenzio gli serrò la bocca con una mano, e fulmineo gli
puntò contro la gola
la lama di un coltello.
“Se mi
darai
il tuo cibo senza protestare, e soprattutto senza gridare aiuto, non ti
accadrà
nulla di male” gli disse all’orecchio lo
sconosciuto.
Eppure il
pittore non provò paura; anzi, gli parve vagamente di
conoscere quella voce.
Scacciò via quel fantasma di passato e sperò di
essersi sbagliato. Annuì,
promettendo di non reagire, e indicò il fagotto ai piedi del
suo sgabello. Il
malvivente lo aprì e si servì avidamente del
magro contenuto: un tozzo di pane
secco e un fiasco d’acqua, un pasto povero che rispecchiava
le finanze di chi
lo aveva preparato e avvolto con cura la mattina stessa.
Il pittore osò voltarsi per osservare colui che aveva
ritenuto necessario
minacciarlo fisicamente in cambio di una pagnotta stantia. Il ladro
teneva il
volto coperto, gli occhi nascosti dal lembo di un cappuccio, e
indossava i
vestiti stazzonati tipici di uno che non navigava nell’oro.
Divorava il cibo
con furia ferina.
“Era
la mia
cena” mormorò il pittore quietamente.
L’altro
alzò
di scatto lo sguardo, nervoso e pronto ad attaccare. Aveva occhi
profondi, neri
di paura. “Sono un assassino” lo
avvertì. “Se urli non avrò
pietà della tua
vita”.
“Non
griderò. Ma non mangio da ore e quel cibo era mio”.
“Saperlo
non
mi muove a compassione, ragazzino” replicò
l’uomo, in realtà giovane quanto il
pittore. Lo scrutò con attenzione. “Sei molto
bello. Ringrazia il fato che io
sia di fretta e fin troppo affamato, perché avrei potuto
rubarti ben altro” lo
ammonì, uno sprazzo di cupidigia nelle iridi.
“Non
lo
faresti comunque. Non c’è alcun onore nel prendere
con la forza ciò che si
vorrebbe vedersi offerto spontaneamente” sentenziò
serafico.
“Mi
credi
davvero capace di simili scrupoli?” rise, amaro.
“Il mio mestiere consiste nel
privare le persone del loro bene più prezioso. Un bacio o un
boccone di pane,
cosa vuoi che siano in confronto alla vita?”
“E ne
vai
fiero? Ne sei felice?” la domanda arrivò sferzante
come uno schiaffo.
I due
giovani si guardarono, in aperta sfida. Quelle parole. Un ricordo
affiorò
infingardo nella mente dell’assassino: vide una coppia di
bambini che giocavano
in un cortile alberato, i piccoli passi attutiti dall’erba
soffice, le corse
sfrenate, la gioia semplice dell’infanzia, il cielo
sbarazzino di maggio,
un’amicizia speciale.
“Da
grande
farò l’artista. Riempirò il mondo di
bellezza!” proclamava un ragazzino.
“Io
invece
voglio diventare ricco, il più ricco di tutti”
affermava il compagno.
“Ma
saresti
felice?” chiedeva l’amichetto. E lui non sapeva
come ribattere.
Ci volle
meno di un attimo, il tempo di un sogno. Nel volto armonioso e nella
carnagione
olivastra del pittore, l’assassino riconobbe il suo grande
rimpianto, una
memoria potente ma perduta e dolorosa. Il cuore iniziò a
battergli furioso in
petto. “Jongin” sussurrò. “Sei
proprio tu?”
L’altro
si
adombrò. “Non hai risposto alla mia domanda,
Sehun”.
L’assassino
distolse lo sguardo. “Non so se esiste una
risposta” ammise a bassa voce,
vergognoso.
Il pittore
sospirò. Poi iniziò a riporre pennelli e colori
nella sua bisaccia. “Allora
cercala. Quando l’avrai trovata, torna e
riferiscimela”.
“Potrei
non
trovarla mai”. Studiò il dipinto che
l’amico stava impacchettando, in procinto
di riportarlo a casa. “È stupendo. Ti
assomiglia”.
“Grazie”
accettò il complimento con dignità. “La
prossima volta, chiedi ‘per favore’.
Sarò lieto di condividere con te quel poco che ho”
gli rivolse un sorriso mesto
a mo’ di commiato e si allontanò.
L’assassino
rimase a lungo sul pontile, solo. A cosa stesse pensando, nessuno
avrebbe
saputo dirlo.
Chiama i ricordi
col
loro nome,
volta la carta e
finisce
in gloria.
(F. De
André)
Se Volta la carta (https://www.youtube.com/watch?v=I-CB-PlPqEc)
è la canzone che mi ha ispirato il titolo e la citazione
finale, è a Il pescatore (https://www.youtube.com/watch?v=Rhj8Ana41cg)
che devo la genesi di questa ficcyna. Grazie -come sempre- al talento
di De
André.
Una
cliccatina è sempre gradita: https://www.facebook.com/IlGeniodelMaleEFP/.