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Autore: laragazzadislessica    04/07/2018    0 recensioni
Se non tutta la discendenza licantropa di Klaus fosse morta?
Se uno di essi fosse sopravvissuto allo sterminio di Mikael e se fosse dotato di un potente potere?
Storia che si allaccia all'episodio 01*13, ma che prosegue in un'altra direzione.
Genere: Drammatico, Fantasy, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Elijah/Hayley, Klaus/Caroline, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Assassin
 
Whatever they say
These people are torn
Wild and bereft
Assassin is born 
Muse-Assassin
 
 
 
 
 
Non era la prima volta che uccideva o che faceva uccidere qualcuno e sempre provava una sensazione indescrivibile. Spaziava dalla assoluta consapevolezza di onnipotenza al completo menefreghismo, solo perché lui poteva. Come la sua condizione veniva descritta dagli antichi greci, sfidava le regole dei Dei, di ogni Dio che ci fosse su quella terra, e vinceva sempre*.  Lui l’imbattuto, il possente e l’eccezionale senza uguali ibrido. Quindi quando si trovava davanti uno di quegli illusi individui che avevano avuto l’assurda idea di voler affiancarsi a uno dei suoi fratelli, o meglio dire quando si trovava nell’attimo in cui la vita di chi aveva osato ad affiancarsi a uno dei suoi fratelli stava per abbandonarli, non né provava il minimo dispiacere anzi, solo un'immensa soddisfazione. Eliminare le loro espressioni sognanti dalle esperienze che mai nessun altro avrebbe potuto vivere, oppure spegnere i loro occhi brillanti dal presunto coraggio che credevano di avere per affrontare il pauroso mondo in cui si stavano per invischiare, fermare il loro cervello umano sulla realizzazione della loro morte e quindi sulla realizzazione della loro stupidità, era più saziante e appetitoso del sangue di una parigina vergine. Chissà perché ma il loro sangue era come dire, frizzante.
- Come poi restare qui, come se niente sia successo? – sua sorelle gli ringhiò contro tutta la disapprovazione che le aveva già visto in volto tra la folla prima di raggiungerlo. Aveva gli occhi arrossati dal pianto o dalla collera che in Rebekah spesso erano interscambiabili, vestita da un vestito avorio con le frange che danzavano nell’ aria al ritmo dei sui passi furiosi, con la lunga collana di vere perle che gli aveva regalato lui stesso che toccando i ricami del vestito musicava un fruscio allegro. Bella e bellissima nel fuoco dell’ira che la stava attizzando, rendendo la sua sagoma luminosa tra i comuni mortali che popolavano la strada. C’era una festa, una gran chiassosa e divertente festa organizzata da lui, quindi tutte le strade di New Orleans erano piene di vite che danzavano, bevevano e ridevano facendo pulsare quelle vie di pura vitalità. La sera prima aveva avuto uno dei suoi soliti incontri politici con dei trafficanti di alcool. Loro si ostinavano a vendere i loro liquori illegali a un prezzo troppo basso e che metteva in seria difficoltà tutto il suo mercato di contrabbando. Un incontro andato molto bene e ogni cosa alla fine si era messa a posto, però c'erano stati molti morti. L’intento dell’incontro era quello di trovare un accordo, ma le cose si erano aggirate in una maniera molto più positiva. Non vi era stato accordo, semplicemente perché non vi era più nessuno con la quale accordarsi. Li aveva uccisi tutti. Distillavano le loro bevande in un sottoscala di un palazzo al centro della città, quindi tutti quei morti avevano destato un pò di scalpore tra gli abitanti. Diciamo che più che dei cadaveri ciò che aveva scioccato la gente era il modo in cui erano stati ridotti, mutilati in più parti e con l’assenza totale di sangue. Non erano i soli vampiri presenti in quella città, quindi più di una occasione c’erano stati attacchi di animali amanti del sangue umano, ma come spiegare l’assalto di una belva famelica al tal punto da prosciugare una ventina di persone e per lo più strapparne gli arti e lanciarli in giro? Non era possibile, ma Niklaus sapeva bene cosa fare. Dare una festa. Non una normale, una sfarzosa, chiassosa, affollata e spassosa tipica festa nello stile Mikealson. Con musica ovunque, alcool, illegale, a fiumi e tante belle ragazze disposte a ballare fino a notte fonda e anche a fare qualcos’altro. 
- Non so di cosa tu stia parlando. – non vi era solo una band a suonare, Niklaus ne aveva ingaggiato una per ogni angolo di strada, quindi il baccano che c’era era immaginabile, ma figuriamoci se non fosse stato in grado di ascoltare le parole di sua sorella comunque, era anche in grado di notare la ragazza dai capelli rossi che lo stava osservando da un bel po’ proprio dietro alle spalle di sua sorella. Non era l’unica donna che lo stava squadrando in realtà, ma lei aveva un certo non so che, forse era dovuto dal modo in cui distoglieva lo sguardo ogni volta che lui incrociava i suoi occhi con i suoi, imbarazzata e deliziata allo stesso tempo e ora che lo vedeva parlare con una donna bellissima che non sapeva essere sua sorella, aveva limitato le sue occhiate di tanto in tanto, non essendo in grado di domare la femminile curiosità.
- Non fare lo stronzo, anche se ti riesce male visto che è quello che sei e dimmi perché? - ringhiò tra i denti di nuovo parandosi verso di lui e cancellando del tutto la visuale della curiosona.
Klaus aprì la bocca emettendo un a silenziosa come chi ha appena ricordato una cosa che fino a quel punto aveva completamente dimenticato. – Vieni dal nostro fratello Elijah giusto. E dimmi come sta? – e con un sorriso serpentino le allungò una mano sulla spalla per poi spingerla delicatamente verso destra, il giusto per poter far rientrare nella visuale ciò che non riusciva a vedere più, la dolce sconosciuta. Ritrovò i suoi occhi del colore verde chiaro che tornarono a guardare per terra.
- Sei senza cuore. –
- Probabile, chi conosce l’anatomia di un ibrido. – e tornò a lei e gli sembrò più arrabbiata che mai e questo lo divertì molto.
- Lo sapevo, sei stato tu. – Rebekah si mise una mano in viso e l’indice raggiunse la piuma lunga della forcina che ornava i suoi capelli corti. – per un attimo avevo creduto… -
- Dimmi Rebekah, ti sembra giusto che il tuo caro fratello mi abbia lasciato solo ieri sera, per potersi piangere adosso, eppure non sono affatto rammaricato. Digli di riprendersi perché abbiamo una città a cui badare. – e la lasciò lì, non aveva altro che dirle e quindi decise di raggiungere l’unica cosa che ora destava il suo interesse.
- Sai che ti dico. – ma Rebekah continuò a rivolgersi a lui anche se adesso si stavano rivolgendo le spalle. - Spero tanto che non troverai mai nessuno, spero tanto che il tuo stato di solitudine perenne rimanga così immutato, perché se dovesse esserci un Dio in cielo e se un giorno abbia la pazza idea di farti incontrare qualcuno che possa credere di amare l’ammasso di melma malefica che sei, spero tanto che non ti venga tolta almeno non con la stessa crudeltà con la quale hai distrutto le nostre possibilità di essere amati, così che tu non possa mai provare quello stesso dolore. –
- Bhe, mi rincuora sapere che dopo tutto la mia sorellina si preoccupi per me, ma non temere, su questa terra io sono unico e nessuno mai potrà avere la stupidità del credere di potermi amare. Nessuno può. Come nessuno può per voi. Noi siamo bestie. Continuate pure ad illudervi, a indossare la pelle umana mimando le loro emozioni e compassioni, ma in fine dei conti il nostro odore d’animale ci verrà sempre alle narici, perché è quello che siamo. Delle brute, animalesche e sanguinolente bestie. -
- Parla per te. – sfrecciò in ultimo. Conosceva sua sorella e sapeva che amava avere l'ultima battutta, quindi Klaus sorrise voltando il capo verso sua sorella, ma non girandosi. Non le disse altro e si allontanò da lei, annoiato già da tutte quelle parole inutili. Quando la ragazza lo vide avvicinarsi il suo sguardo da occhiate ad intermittenza divenne statico, ora osservava solo il pavimento. Niklaus sentiva il suo cuore battere fortissimo e la sua pelle rilasciare il zuccherino sapore dell’agitazione e lui ci si tuffò dentro. La ragazza sapeva che era arrivato a lei anche se si ostinava a tenere il capo giù, ma anche così Klaus le vide le gote incendiate al disotto delle deliziose lentiggini sparse sugli zigomi. A Niklaus gli si seccò la gola, anche se aveva nello stomaco la quantità di sangue idoneo per tre giorni di digiuno.
- Mi vorreste regalare questo ballo, signorina. – 
Solo allora la ragazza lo guardò con i due stagni che aveva al posto degli occhi, uno di quelli carini, con rane gracidanti e libellule volanti di ogni colore. Non ci fu una risposta repentina, ma un timido sorriso comparve sul volto della ragazza, lusingata nell’aver suscitato l’attenzione di un così bel ragazzo, poi una vocina delicata uscì dalle sue labbra inesperte suonando in un accento molto forte e che Klaus riconobbe subito.
- Je suis désolé. Non parlò inglese. – disse le ultime parole con un inglese terribile, ma che lo arse dall’interno. New Orleans era nel pieno dello sviluppo e tanti erano gli emigrati venuti lì a fare fortuna e molti di loro venivano dalla Francia. Klaus la osservò allungò deglutendo la saliva procuratogli dall’acquolina in bocca, poi abbassò il viso per osservare i suoi occhi.
- Il n'y a rien à désoler. Je m'appelle Niklaus Mikealson et vous? –
Di colpo lo sguardo della giovane fu su di lui privo di insicurezza, regalandogli un timido sorriso da giovane stupita. Si chiamava Agnes Martin. Era una delle figlie di un imprenditore francese che aveva appena acquistato una delle miniere di carbone scoperte in Louisiana. Si era appena trasferita con la madre e le sue tre sorelle abbandonando la sua vita nella madre patria fiduciosa che un futuro migliore la stesse aspettando lì a New Orleans. Da quella notte in poi, Agnes Martin sarebbe stato solo uno degli altri nomi elencati nella sua lista.
Klaus strinse forte i denti mandando quel ricordo da un’altra parte, una parte lontana del cervello così da non ostacolarlo. Ora doveva correre. Correre e correre. Lontano, lontanissimo. Agilmente evitando gli ostacoli di quelle strade, doveva raggiungere il bosco e il prima possibile e c’era ancora un bel po’ da percorrere. Era un vampiro veloce e nessuno poteva stargli dietro, quindi strinse più forte quello che aveva nella mano destra e accelerò il passo, fino a che tutto quello che lo circondava divenne un susseguirsi di materia bianca.
Il bosco situato proprio alla fine del confine della città era fitto e pieno di alberi dal fusto grande ed evitarli a quella velocità non era facile, ma ci stava riuscendo e proprio quando seppe di essere arrivato al massimo, si fermò. La radura accanto a uno dei laghi che popolavano la zona lo accolse e lì lasciò la presa. Si voltò sentendola arraffare in cerca d’aria e la vide piegata con le mani alle ginocchia nell’intento di prendere fiato. Caroline. Aveva il capo rivolto verso terra e la schiena le si muoveva al ritmo dei grandi espiri che incamerava per colmare l’affanno. Era lì, era con lui. Tossì in presa a una crisi e Klaus si avvicinò, ma allora Caroline alzò il capo e quello che vide lo uccise. Il suo volto stramortito dalla stanchezza, non solo della corsa, i suoi occhi rossi al limite del pianto e la sua pelle bruciata che risanava, gli bucò il cuore. L’aiutò a reggersi su e con altre boccate Caroline recuperò l’ossigeno che le era mancato, non resistette più e Klaus le baciò la tempia. Chiuse gli occhi mentre con la mano destra avvicinò la testa della sua amata per rendere quel bacio più profondo e la sentì calmarsi. Espirò anche lui, ma per un altro motivo. Per il sollievo. Erano scappati, erano ancora vivi, Caroline era ancora viva e mai sarebbe stato più grato.
“Spero tanto che non troverai mai nessuno, spero tanto che il tuo stato di solitudine perenne rimanga così immutato, perché se dovesse esserci un Dio in cielo e se un giorno abbia la pazza idea di farti incontrare qualcuno che possa credere di amare l’ammasso di melma malefica che sei, spero tanto che non ti venga tolta almeno non con la stessa crudeltà con la quale hai distrutto le nostre possibilità di essere amati, così che tu non possa mai provare quello stesso dolore.” Le parole che Rebekah le aveva detto allora gli risuonarono in testa, di nuovo e lui le scacciò via, di nuovo, stavolta in un posto più profondo.
- Cosa è successo? – gli chiese e i suoi occhi finalmente lo guardarono e Klaus non vide solo due iridi celesti, ci vide molto di più. Vide la luce, la stessa luce che aveva lui stesso spento negli occhi di tanti e stavolta non ci fu posto in cui mandar via il dolore.
- Come stai? – le chiese invece mettendole una mano tra i capelli per poterli spostare all’indietro e vedere le ultime tracce di bruciature che stavano guarendo. Lei annuì, ma era una bugia, una bugia bella e grossa. Non era ceco e vedeva la condizione in cui era.
- È quasi finita, Caroline. Tra poco finirà tutto. – ma ora i suoi occhi non lo seguivano più e soprattutto quando le prese le spalle per poi spingerla all’indietro, si riempirono di una totale confusione. Klaus non si era fermato in quel posto per caso. Lì c’era un portale aperto da Davina che avrebbe dovuto trasportare entrambi e metterli in salvo. Avrebbe dovuto, si, ma Klaus non la seguì, non per adesso.
 
Il sedere di Caroline le fece un male cane quando con un tonfo atterrò su un pavimento di sanpietrini. “Klaus, ma che diavolo fai” era quello che gli avrebbe urlato se non fosse stato per l’intontimento, dovuto in parte dalla caduta, in parte dalla corsa a perdi fiato e in parte dal fatto di aver appena visto la morte con gli occhi. Per questo motivo non notò quasi il luogo in cui era finita fino a che qualcuno non le si avvicinò.
- Ce qui s'est passé, demoiselle?  – un signore vestito prevalentemente da vestiti neri, moro e dagli occhi castani si era chinato verso di lei offrendole forse il suo aiuto parlandole in quello che Caroline capì essere francese grazie al corso che aveva tenuto a scuola. Non aveva bisogno del suo aiuto, ma sconcertata da ciò che le stava accadendo, annuì leggermente con la testa. Il gentiluomo si precipitò ad aiutarla e una volta in piedi gli regalò un dolce sorriso di giovane ragazzo estraneo dal suo mondo così controverso e oscuro.
- D'où vient-il? D'Amérique, je parie. – il ragazzo le aveva di certo chiesto qualcosa, ma Caroline non potete fare altro che apprezzare il suo accento e nient’altro, realizzando che due anni di francese non le erano serviti a nulla.
- Merci beaucoup, monsieur. La fille est avec moi, et oui elle est américaine. – Rebekah sbucò dal nulla sorprendendo non solo l’uomo che si voltò verso di lei, ma anche Caroline. Un secondo dopo e precisamente dopo aver guardato Rebekah negli occhi, il ragazzo le salutò e andò via senza dire una parola e probabilmente non ricordando già di aver incontrato una bionda americana sbadata seduta a terra col viso dolorante.
- Non sei neanche approdata nel territorio straniero che già tenti di tradire mio fratello. – aveva il viso rivolto verso l’uomo che a passo normale stava allontanandosi da loro, quindi non la vide arrivare. Caroline l’abbracciò e nel secondo in cui il viso le toccò la spalla di Rebekah scoppiò a piangere. Non era da lei abbracciare un originale e men che meno Rebekah, ma necessitava di un contatto fisico e in assenza dei suoi cari amici si dovette adattare. Rebekah non se lo sarebbe mai aspettato e con le braccia lunghe sui i fianchi accolse qual pianto isterico, poi un idea le balenò nella testa. Scostò la ragazza dal suo corpo e cercò di leggerle qualcosa in viso, ma oltre che completo sconforto non vide altro.
- Dov’è Klaus? – allora le domandò, ma Caroline scosse il capo asciugandosi le lacrime.
- Oh no… no… no… - Rebekah la superò raggiungendo il punto in cui era sbucata dal nulla, ma sapeva benissimo che quel portale che aveva creato Davina non funzionava a ritroso e non sarebbe durato per sempre. – Stupido cazzone, cosa diavolo vuoi fare adesso? –
 
Il dolore le fece mancare il respiro e le gambe non la ressero più. La lingua le si accartocciò fino a scenderle in gola soffocando lei e le sue grida. La parte destra del corpo le era saltata via, come esplosa in aria per via di una bomba e l'ultima cosa che avvertì prima di lasciare quel mondo, fu del liquido caldo bagnarle il sedere e l'inizio della schiena, poi abbandonò quel corpo senza che potesse riuscire a chiudere gli occhi. Celeste non era la padrona di quel corpo, come non lo era stata per i corpi che aveva impossessato fino a quel momento, ma quello della divina Brynhild era qualcosa di ben diverso, diverso al punto tale da poterlo definire anormale. Era la natura, era la terra stessa, era la forza del mondo. Tutto racchiuso in quel corpicino e Celeste non era in grado di sopportarlo. Proprio come le aveva predetto Klaus, alla prima occasione per Celeste di usare quel potere così invitante, non aveva retto. Il potere del sole, il modo in cui si nominava la capacità di Brynhild di poter scagliare un raggio dalla mano, luminoso esattamente come quello solare e che quindi provocava gli stessi danni ai vampiri indossanti o non l'anello solare, non solo per questo veniva chiamato così. Era il sole. Così come la divina Brynhild poteva tramutare le cose, creare qualcosa dal nulla e condizionare le attività atmosferiche, poteva ricreare la stessa luce, lo stesso calore del sole ed era molto, molto calda. Calda da scioglierle la pelle, tale da staccarle via le dita, tale da squarciarle la mano fino alla spalla. Un bel danno insomma, danno che si sarebbe risanato con la magica guarigione dei vampiri prima o poi, ma quello che permetteva davvero a Brynhild di poter usare quel potere, senza avere la stessa reazione che aveva avuto Celeste, era un mistero. Previsto o non, ora Celeste giaceva a terra, morta probabilmente perché non aveva retto tutta quella forza e tutto quel dolore, e neanche la sua vescica. Liberi i suoi nemici avevano avuto la chance di fuggire e lei non aveva potuto fare altro che lasciarli andare. Cosa sarebbe successo? Dov’era? Era morta? Lei non poteva morire, giusto. L’incantesimo che permetteva la sua vita eterna era ancora valido, quindi doveva solo restare lì fino a che non avrebbe trovato un altro corpo da impossessare, eppure quella volta era diverso. Celeste si sentì come immersa. Immersa in un mare profondo, ma caldo che cullava le sue carni e riposava le sue membra. Era la guarigione che faceva effetto, forse, non lo sapeva. Non era mai entrata in un vampiro, né tanto meno in uno così potente, poi ci fu uno strano solletico. Iniziò alla base dei piedi per poi risalire fin su alla fronte, come se delle bollicine piccole le stessero danzando tutte intorno e sentì il suo corpo risalire. Da qualsiasi parte essa fosse, si sentì fluttuare o galleggiare e proprio come l’aria presente nel corpo ti riportava su velocemente dal fondale a raggiungere la superficie, emerse o respirò. Aprì gli occhi. Tutto quello che aveva abbandonato prima di svenire l’accolse e Celeste ritornò ad urlare. Il dolore era medesimo e anche le sue ferite non sembravano essere migliorate, quindi si aspettò di nuovo di perdere i sensi, ma non lo fece. Rimase lì, in quel limbo di dolore atroce fino a che non vide due gambe lunghe accanto a lei. Le seguì con lo sguardo a raggiungere il volto della persona che era in piedi vicino a lei ma non le prestava soccorso. Nonostante il dolore, lo riconobbe e finalmente si sentì salva. L’uomo si chinò sulle ginocchia per potersi avvicinare a lei e i suoi occhi castani la studiarono. Celeste attese che facesse qualcosa, che l’aiutasse, che chiamasse aiuto, che facesse cessare in qualche modo tutte quelle pene, ma Mikeal se ne restava lì con un’espressione attonita in volto.
- Che puzza. – disse solo e un suono sfiatato gli uscì dalla bocca. Riso. Stava ridendo. Stava ridendo? Poi Celeste decifrò il senso del suo sguardo, Mikeal non la stava guardando in un modo attonito, ma in un modo divertito.
- Ti stai chiedendo il perché non guarisci? – le porse una domanda a cui non avrebbe potuto rispondere perché non riusciva a parlare, ma si, sì stava chiedendo il perché. Mikeal comunque non attese risposta e con l’indice iniziò a premere sulla parte insanguinata e carbonizzata della spalla, unica parte rimasta del suo intero arto destro, facendola gridare più forte e a questo Mikael rise con gusto. Toccò le carni vive fino a sfiorare l’osso e Celeste svenne di nuovo, ma con uno schiaffo forte Mikael la riportò nel presente. 
- Aiutami. – lo implorò tossendo del sangue che si mischiò a quello gocciolante dal naso provocato dal forte manrovescio ricevuto. Mikeal scioccò la lingua sul palato e curvò la testa godendosi ogni cosa che stava osservando
- Mi dispiace, ma non è nel mio interesse. –  poi con un colpo solo entrò nella sua gabbia toracica afferrandole il cuore.
 
Il corpo gracile e cereo di Bry appoggiato su un altare scolpito da qualcuno nella pietra per chissà quale ragione, probabilmente mistica, emergeva nel pallore di quel luogo pieno di morte. A occhi chiusi come una candida bambola di porcellana riposta in un baule buio attende di essere tirata fuori dalla sua padroncina per giocare, lei era ferma e immobile al centro di un macabro cerchio di corpi umani. Nel mondo dei vivi, le streghe e gli umani scomparsi da New Orleans, i vampiri e i licantropi che stavano combattendo al centro delle strade, giacevano dormienti formando un circolo che sembrava non avere un centro, ma nel mondo dei non -vivi quel centro era lei. Nonostante la vita li separasse, quei corpi erano in piena vista grazie alla possibilità, data a quelle anime dei morti che popolavano quel posto, di poter spiare cosa succedeva nel mondo vivente. Tutto per lei. New Orleans, la città con il più alto tasso di esseri soprannaturali, gli esseri che formavano il suo corpo e anche degli umani che erano la cosa più vicina alla natura in assenza di altri esseri Hoenan. Tutti sarebbero stati artefici e carnefici nella fine dell’essere più potente al mondo.
Nell'aldilà erano accorsi tutti. Le anime che avevano qualcosa da spartire con quella situazione, e sembravano veramente molti di più di quanto si pensasse, e non, in fondo non succede granché da quelle parti, però solo tre persone erano realmente attive.
Esther. Sua madre. La donna che l'aveva generata solo perché non era riuscita a dire di no ai gustosi amplessi che si concedeva col re della specie Hoenan, era riuscita finalmente a ottenere quello che più voleva nella vita. Cancellare quell'errore che non avrebbe mai dovuto fare e non era sola. Solo uno dei figlia alla quale si affannava nel togliere la vita che lei stessa aveva dato era effettivamente lì con lei, Finn e non l'aveva mai lasciata sola, poi c'era lui. Lo osservò mentre con un balzo saliva sul altare su dove avevano appoggiato La Divina Brynhild. Divina i miei stivali, quella era la seconda volta che era riuscita a sedarla, lei che al suo confronto era solo una piccola nuvola bianca in un cielo sconfinatamente terso. Questa volta non si sarebbe però fermata nel schiavizzarla in una forma animale, questa volta l'avrebbe uccisa. Non lei, lei non poteva, ma Kol si. Fu allora che il ragazzo si piegò sulle ginocchia che toccarono la fredda pietra del altare, tenendo le gambe ai lati del corpicino di quella cosa che ben presto non ci sarebbe stata più. I suoi occhi castani la cercarono, due occhi che aveva visto molto spesso negli anni in cui l'aveva cresciuto, così pieni di richieste di approvazione da diventare liquidi come acqua nera e lei fece esattamente la stessa cosa che aveva fatto per tutto quel tempo, sorridergli, ma stavolta aggiunse anche un lento cenno col capo di assenso. Ricevuto il suo zuccherino Kol tornò a guardare la ragazza che di lì a poco avrebbe ucciso, esaudendo l'unico motivo per la quale era nato e anche l'unico motivo per la quale l'aveva trattato come un figlio. Finito, Esther si sarebbe tolta dal cuore un'altra zavorra liberandosi di lui, finalmente. Lo vide però tentennare, di nuovo, ed Esther dovette contare sulla sua pazienza di pietra per non iniziare ad urlargli contro.
- Kol, cosa c'è che non va? -
Come se fosse stato distolto dalla visione di un quadro di Goya, Kol spostò lo sguardo dal viso di Brynhild al suo, ma l'estasi abbandonò i suoi occhi un secondo più tardi.
- È solo strano. Non sono abituato a sentirmi così. -
- Non è strano. La tua natura finalmente si sta liberando. Lasciala andare Kol. Uccidila. - e come la strega in Bianca neve aveva consegnato il pugnale al Cacciatore in uno scrigno di legno dove avrebbe poi riposto il cuore della sfortunata, Esther attese che il suo Kol le consegnasse il cuore di un’altra principessa, quello di Brynhild. Infatti, Kol tornò al suo compito. Con la mano destra le toccò la fronte usando solo i polpastrelli dell'indice, medio e anulare, in un gesto sorprendentemente leggiadro per un boia. Piano scese giù sorpassando le sopracciglia e fermandosi per dei secondi quando l'indice e l'anulare entrambi toccarono un occhio. Continuò lentamente e il medio seguì il disegno del naso scendendo giù fino alla punta e lì aumentò l'andatura quasi impaziente nel toccarle le labbra. Tornò a muovere piano la mano, ma non si limitò a quello. Mosse le due dita seguendo il vermiglio fino alle commessure mentre il medio di nuovo trovò pace in quell'arco di cupido così pronunciato, sfiorando quel tessuto labiale carnoso e liscio. Scese più giù e il labbro inferiore si abbassò seguendo l'andamento del dito scoprendo gli incisivi centrali bianche e le gengiva rosee. Sul collo Kol decise di usare solo due dita fino allo sterno, poi passò a una sola. Proseguì il suo tragitto e al centro di quel petto scarno si fermò. In quel preciso punto, colpì. Come un pugnale Kol usò il suo dito trafiggendo quelle carni e non trovò nessuna resistenza. Fu allora e solo allora, che gli occhi di Brynhild si aprirono, si spalancarono e se avesse potuto urlare Kol sapeva che l'avrebbe fatto, ma la sua nemesi non fece altro che mostragli due iridi terrorizzate e afflitte. Il sangue di lei gli sporcò le dita, tutte, e alla sua vista quello che per anni gli era stato solo raccontato e a cui non aveva creduto in fondo, si insidiò dentro di lui, liberando la sua natura. Liberando quello che in realtà era. Dopo un lungo espiro, assaporando l'odore che dalle narici gli era sceso giù alla lingua pizzicandola un po', Kol usò l'intera mano.
 
Non era stata toccata da nessuno, quella volta, ma comunque moriva dalla voglia di farsi una doccia e lavarsi via lo schifo che sentiva sulla pelle. Lavorava da un bel po’ lì e per le politiche di quel posto le toccava di diritto avere un armadietto con chiave, così che le altre sue colleghe non potessero più frugarle nella borsa e rubarle le cose. La prima volta la ripulirono del tutto, ma non potette far altro che stare zitta e filare a casa ringraziando il cielo che almeno la paga di quel giorno era salva essendo stata pagata a fine turno, ma anche se nelle volte successive aveva imparato a lasciare le cose preziose a casa e a viaggiare con i soldi necessari per il biglietto del pulman, a volte neanche quelli, i furti non si erano mai arrestati del tutto. Una volta le rubarono addirittura un rossetto, questo la diceva lunga sul quadro di squallore di quel posto. Non era una cosa che capitava solo a lei, al GirlsGirlsGirls il furto tra colleghe era come dire un uso, anche se lei lì non aveva mai rubato niente. Niente fino a quella sera. Non poteva portarsi la chiave con se perché non avrebbe avuto dove metterla, quindi aveva trovato un posto sicuro dove infilarla prima di ogni spettacolo. Nel terzo lumino da parete del corridoio che portava al bagno di cui privato era solo la parola scritta su uno di quei adesivi che si trovavano anche al supermercato. Si vestì, non togliendosi i vestiti da scena, che tanto consistevano in slip e reggiseno, si infilò le scarpe e prese la borsa. Il turno che le era toccato oggi era l’ultimo turno, quello in notte inoltrata, dove tutti i clienti abituali avevano già svuotato i loro intenti con le ragazze dei primi turni, infatti a lei gli era toccato girare per i tavoli e niente altro. Gli intenti dei clienti o degli uomini, perché solo di uomini era formata la clientela del GirlsGirlsGirls erano parecchi, infatti quel posto era aperto dalle dieci del mattino alle cinque del mattino del giorno dopo. C'erano parecchie ragazze lì, tutte disadattate, ma il proprietario chiedeva di parlare con lei, e solo con lei, alla fine di ogni turno. Non era davvero il proprietario di quel posto, come quello che facevano non era affatto parlare, ma Crystal aveva imparato a ignorare parecchie cose. Era un posto orribile, puzzava e tutto quello che la circondava era lurido, ma soprattutto era un lavoro di merda. Non aveva mai immaginato che un giorno sarebbe finita in un posto del genere e mai ci sarebbe entrata se non per la situazione in cui si trovava. Tutto però sarebbe finito quel giorno. Entrò nel ufficio di Paul, una stanza piena di scartoffie di cui utilità erano a lei sconosciute e probabilmente anche a lui, con una luce a neon troppo forte a confronto alle luci rosse in cui il locale giaceva e le procurava sempre un fastidio agli occhi.
- Ti preferivo bionda. – le disse alzando gli occhi dai malloppi di cento dollari che stava contando e rilegando in blocchi da cento banconote ogni una. Seduto su una poltrona nera da ufficio dietro a una scrivania bianca e smorta, sembrando più un ragioniere molto ricco che un pappone. Le spinse la sua paga facendola scorrere sulla superficie della scrivania e lei l’afferrò e se la mise in borsa, poi Paul spingendo con i piedi per terra fece roteare le rotelle sotto della sedia per tirare fuori le gambe dalla scrivania, lì si stese con la schiena sullo schienale e poi aprì la zip del pantalone, dando inizio alla loro conversazione. Quel rumore una volta le faceva accapponare la pelle, ma ora... comunque sarebbe tutto finito. La borsa che aveva quella sera era una di quelle da palestra a forma di salsicciotto e col doppio manico, ma trovò comunque cosa stava cercando. Mirò alla sua testa. Quel posto era pieno di telecamere, nella sala dove c’era il bar e divani, sulla pista con i pali da Lamp dance, nelle stanze in cui loro portavano i clienti che pagavano per avere con con loro lunghe conversazioni e i monitor erano proprio in quella stanza, ma non registravano. Glielo aveva detto lui una volta durante una confessione da post chiacchierata, servivano solo per prevenzione dai mal intenzionati. Lui da lì, o chiunqe altro fosse al suo posto quando non c'era, poteva controllare se qualcuno dei loro clienti ci stesse andando pesante con qualche ragazza, così da poterlo fermare prima che capitasse l'irreparabile. Era già successo, a Monica, una biona magra dal seno rifatto male e clandestinamente dai tipi che si spacciavano dottori che operavano in appartamenti di motel, morì dopo essere stata pestata a sangue da uno dei clienti abituali. Però c’era una stanza in cui le telecamere funzionavano a dovere, dove aveva la cassaforte, cioè lì nell'ufficio. Nonostante quella fogna guadagnasse moltissimi soldi, il sistema di videosorveglianza era molto spicciolo. Era uno di quelli economici venduti anche dai negozietti più scadenti e tutto veniva registrato nella cassetta centrale. Gli occhi di Paul gli uscirono quasi dalle orbite quando realizzò di stare morendo con il suo sesso da fuori e con quella espressione ci rimase. Crystal sparò e colpì esattamente dove aveva mirato. La testa di Paul si appoggiò allo schienale e la lingua gli uscì dalla bocca, ma se non fosse stato per il rivolo di sangue che dal centro della fronte gli scorreva sul naso il suo corpo da morto non differenziava tanto da quello vivo. Aprì il borsone e con la mano che ancora teneva la pistola vi gettò i soldi che Paul stava contando così accuratamente, senza alcuna cura, poi uscì. Le ragazze rimaste erano solo lei e Shila che era già scappata al primo colpo, mentre per quanto riguarda gli uomini c’era ancora George il barista. Un omone di colore calvo e palestrato. Con le mani alzate era rimasto ancora dietro il bancone e la guardava esattamente come Paul l’aveva guardata solo che il suo di uccello era in gabbia, questa volta.
- La cassetta. – gli urlò agitando la pistola nera en pendant con i suoi abiti. George era il barman in servizio la notte e anche l'incaricato a chiudere il locale. Prima di farlo però doveva azionare la registrazione anche per le altre telecamere. Era un sistema spicciolo per risparmiare la memoria di quel sistema obsoleto. Lui non annuì, ne fece altro. Si spostò solo da dove era e ancora con le mani alzate uscì dal bancone per poi percorrere la strada per l’uscita. La tra le foto di donne nude c’era una lastra di ferro immurata nel muro, pitturata nello stesso colore delle pareti e cui utilità era sconosciuta a tutte le ragazze che lavoravano lì. George infilò le mani in tasca e cacciò un mazzo di chiavi tintinnanti. Aprì la botol a muro rivelando la sua utilità. C'erano i generator di corrente e altri tubi con delle manopole di ferro. Proprio sopra i generatori giaceva una scatola nera. George la indicò voltandosi.
- Siamo amici Crystal, non dirò niente. –
- No, so che non lo farai. – e agitando la pistola gli fece segno di andare. George sghignazzò qualcosa con la bocca e come se fosse una scimmia con la coda in fiamme, corse sugli scalini salendoli a due a due, al quinto scalino Crystal sparò. Gli colpì la spalla e George roteò su se stesso facendola entrare nella sua visuale quando Crystal premette il grilletto la seconda, terza e quarta volta. George si accasciò per terra e il suo sangue sporcò la moquette blu che nello scuro di quelle lampade sembrò semplice acqua. Libera di poter agire ora, Crystal tentò di strappare la scatola, ma i fili collegati ad essa erano più duri da staccare di quanto avesse immaginato, quindi corse verso il bar per poter trovare un qualcosa di tagliente. Non aveva fretta. Quel locale era insonorizzato e nessuno da fuori avrebbe potuto sentire il rumore degli spari, ma c’era quella dannata Shila che forse avrebbe potuto dare l’allarme, ma chi poteva credere a una prostituta con entrambe le braccia, e non solo, ricoperte di buchi da siringa di eroina camuffati da del fondotinta. Trovò delle forbici nel lavello del bancone e tornò all'antriOne. Mise la scatola nella borsa, ma non aveva fatto tutto questo per pochi centinaia di dollari. Tornò nell’ufficio di Paul e il volto di Paul morto le fece meno senso del volto di Paul durante un orgasmo. Spostò la sedia dove era e ci mise tutta la forza che possedeva. Paul era un grassone irlandese di centocinquanta chili presso o più, dai pochi capelli rossi e occhi castani, pallido come la pece e dai denti ingialliti dal fumo delle sigarette. Sotto alla scrivania giaceva una cassaforte in ferro colorata in un blu puffo facilissimo da essere notato. Crystal si inginocchiò e digitò i numeri della combinazione giusta. Come faceva a saperli? Semplice, una delle volte in cui si era trattenuta a parlare nel suo ufficio, Paul stava rivedendo dei video. C’erano stati dei movimenti strani quella sera e dalla cassa mancavano una somma consistente di soldi, quindi si mise all'opera cercando il ladro negli unici video che la sorveglianza di quel posto aveva. Nella maggior parte di essi c'era lui e Crystal scoprì che tra le ragazze del GirlsGirlsGirls, Paul non preferiva soltanto lei, ma scoprì una cosa ben più interessante. In molti di quei video Paul digitava la combinazione sul tastierino. Era lo stesso movimento ripetuto e ripetuto e Crystal aveva una bella mente malgrado la usasse poco in quello che faceva e memorizzarli fu facilissimo. Alla fine non vi era stato nessun furto solo Paul aveva sbagliato a contare, in fondo era un pappone non un ragioniere. Il giorno dopo Crystal si procurò una pistola. La porta si aprì con un rumoroso clic e Crystal vide il suo contenuto. quattro piani e tutti strapieni di banconote che Paul accuratamente divideva in blocchi da mille dollari. Crystal li prese tutti e chiuse la zip, poi di corsa uscì, corse via lontano, lontanissimo da quel posto, dalla vita che aveva vissuto fino e allora.
 
 
*da treccani: hỳbris ‹ìbris› s. f. – Traslitterazione del gr. ὕβρις, che significa genericam. «insolenza, tracotanza», e nella cultura greca antica è anche personificazione della prevaricazione dell’uomo contro il volere divino: è l’orgoglio che, derivato dalla propria potenza o fortuna, si manifesta con un atteggiamento di ostinata sopravvalutazione delle proprie forze, e come tale viene punito dagli dèi direttamente o attraverso la condanna delle istituzioni terrene (per es., la h. di Prometeo).
 
P.S. scusate il francese, ma è opera di google traduttore.
   
 
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