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Autore: Sandie    04/07/2018    2 recensioni
Genzo torna in Giappone lasciandosi alle spalle Amburgo e tutte le sue certezze crollate in pochi mesi.
Ritrovati la sua famiglia e gli amici di sempre, nel suo futuro ci sono le Olimpiadi di Madrid e decisioni importanti che apriranno un nuovo capitolo della sua vita. Un destino che condivide con Taro.
I loro percorsi si intrecciano con quelli di Kumi ed Elena: due ragazze che, come loro, dovranno costruire una
nuova vita, diversa da quella immaginata.
Genere: Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Genzo Wakabayashi/Benji, Kumiko Sugimoto/Susie Spencer, Taro Misaki/Tom
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Untitled

Capitolo II

 

Ritrovarsi

 

 

 

 

Genzo aveva trascorso in famiglia la sua prima giornata a Nankatsu: dopo il pranzo, durante il quale aveva conversato con Hiroji e Annie e dopo aver convinto quest’ultima, non senza fatica, a lasciare uscire Kenichi per un po', aveva trascorso il pomeriggio nel grande giardino della villa, giocando a calcio e a baseball con il bambino e con Hiroji, che ne aveva approfittato per godersi qualche ora di divertimento e di relax, prima di rituffarsi in una nuova, intensa settimana lavorativa.

A metà pomeriggio, anche Annie era uscita sul portico per assistere all'improvvisata partita, declinando gentilmente l'invito dei tre Wakabayashi a unirsi a loro.

 

Hiroji era tornato in Giappone all'inizio dell'anno, per assumere l'incarico di amministratore delegato della Wakabayashi Electrics, l'azienda della famiglia fondata dal nonno. Dopo anni di conduzione senza difficoltà, a eccezione di un periodo di crisi vent'anni prima, la compagnia di produzione e commercializzazione di componenti e dispositivi elettrici ed elettronici aveva cominciato a soffrire la concorrenza delle altre aziende sia sul mercato interno, sia su quello estero.

Yasuhiro, il padre, divenuto presidente e amministratore delegato dopo la morte del fondatore, aveva capito che stavolta, si trattava di una recessione più seria rispetto a quella precedente, perché generata da cause diverse: il mondo e il mercato stavano cambiando e sarebbero servite una mentalità e un’organizzazione nuove per riuscire a superarla. Per questo, in anticipo rispetto ai tempi previsti, aveva deciso di affidare la guida e l'amministrazione al figlio maggiore, richiamandolo da Londra dove, dopo la laurea in Economia e Gestione Aziendale al King's College, aveva lavorato come responsabile del commercio per l'Europa nella filiale britannica.

Il signor Wakabayashi sarebbe rimasto nell'organigramma come presidente del consiglio d'amministrazione e avrebbe gestito le azioni e le partecipazioni della famiglia come presidente della holding, permettendo a Hiroji di concentrarsi sulla loro principale attività commerciale: sperava che, grazie alla preparazione e all'esperienza acquisite in Gran Bretagna, sarebbe riuscito a riorganizzare la società e a renderla più competitiva anche sulla scena internazionale.

Il neo-amministratore delegato aveva deciso di abitare a Nankatsu, nella villa di famiglia, lontano dal caos e dalla frenesia di Tokyo, come avevano fatto i suoi genitori quando avevano scelto di trasferire, per necessità logistiche, la sede principale dell'azienda nella capitale. I bambini avrebbero potuto crescere più tranquilli e sereni in una città non troppo urbanizzata e circondata da uno dei paesaggi più belli del Giappone.

Annie, nonostante avesse sempre vissuto a Londra, si era immediatamente mostrata disponibile a seguirlo in Giappone; i bambini erano ancora piccoli e non avrebbero patito troppo il distacco da amici o parenti: per fortuna, erano affezionati ai nonni paterni quanto a quelli materni. Lei, pur dispiaciuta di allontanarsi dai genitori e dalla sorella, era attratta dall’idea di vivere in un Paese così diverso dalla Gran Bretagna, dalla cultura particolare e affascinante, in cui aveva trascorso, in precedenza, soltanto pochi, brevi periodi di vacanza.

Suo marito aveva di fronte una sfida delicata, decisiva per il futuro della sua carriera e della sua famiglia: non gli avrebbe mai posto degli ostacoli. Sapeva quanto fosse importante, per lui, dimostrare di essere una guida all'altezza del nonno e del padre. Aveva perciò chiesto e ottenuto dal British Council, per cui lavorava come insegnante ed esaminatrice, il trasferimento alla sede di Tokyo; avrebbe tenuto dei corsi nella prefettura di Shizuoka, per non privare i figli della sua presenza e delle attenzioni di cui avevano bisogno.

 

Il mattino seguente, Genzo uscì a correre con John, come faceva da ragazzino.

Sentiva il bisogno di fare un giro per tutta la città: aveva sempre amato sfruttare le prime ore del mattino per fare esercizio fisico e, soprattutto, avrebbe potuto aiutarlo a scacciare il senso di malinconia che di tanto in tanto tornava a tormentarlo per via delle circostanze che l’avevano portato a terminare anzitempo la sua esperienza ad Amburgo.

L’Akita Inu mostrava un’agilità notevole per la sua età e lo affiancò senza fatica per tutto il percorso. Non appena lo aveva visto uscire di casa vestito con tuta e scarpe da ginnastica e l’immancabile berretto in testa, aveva lasciato il suo giaciglio sul lato destro del giardino e gli era lentamente andato incontro, affiancandosi a lui in prossimità del cancello.

Attraversarono la città quasi per intero, fino a giungere al parco Hikarigaoka, dove Genzo decise di fermarsi per un po': si sedette su una panchina e John si accucciò sull’erba, ai suoi piedi.

Respirò l’aria fresca, godendosi la tranquillità che solo le prime ore del mattino potevano offrire e il panorama visibile da quella posizione, che regalava una splendida vista dell'intera Nankatsu, in cui la sua villa spiccava - come dicevano, non a torto, i suoi amici - come una reggia.

Era impossibile non lasciarsi trasportare dal flusso dei ricordi. Ogni strada, ogni edificio, ogni angolo della sua città riportava alla mente episodi e immagini della sua infanzia: i suoi primi passi nel mondo del calcio, i giochi con i suoi fratelli e con John, le esercitazioni quotidiane con Mikami, le partite con la Shutetsu, la sfida del nuovo arrivato Tsubasa, il primo tiro parato a Misaki mentre andava allo stadio della sua scuola per affrontare la Nankatsu, il torneo di Yomiuri Land. A poco a poco quelle rievocazioni sostituirono quelle negative con le quali si era risvegliato e lo rasserenarono.

Un guaito di John interruppe il flusso di pensieri che stava scorrendo spontaneo nella sua mente.

Guardò in basso, dove il suo cane lo stava fissando con uno sguardo implorante.

«Che c’è, John? Sei stanco?» diede uno sguardo all’orologio da polso: erano passate ormai due ore e mezza, da quando era uscito di casa. Il parco cominciava a non essere più molto deserto. Si vedevano alcune coppie passeggiare tenendosi per mano o sottobraccio, signori anziani che chiacchieravano seduti sulle panchine, mamme che portavano a spasso i loro bambini.

«Che dici, torniamo a casa? Devi essere affamato.» disse, grattando il suo amico a quattro zampe sotto il mento, che mostrò di gradire molto quelle attenzioni.

 

Giunto in prossimità della sua casa, sentì delle urla e delle risate provenire dal giardino, e dei colpi di calci dati a un pallone. Quando giunse davanti alla cancellata, vide il piccolo Ken mentre giocava con due ragazzi di cui aveva già riconosciuto le voci: Taro Misaki e Ryo Ishizaki.

«Guarda un po’ con chi si sta allenando Ken!» disse ad alta voce, facendo voltare i tre nella sua direzione.

«Ehilà Wakabayashi! Sei tornato finalmente!» Ryo fermò il pallone sotto il piede e alzò un braccio in segno di saluto, mentre Genzo con John sempre al suo fianco, si dirigeva verso il terzetto.

«Allora, come va?» gli chiese Taro, con il suo consueto sorriso.

«Non c’è male. È da molto che siete qui?»

«No, saranno venti minuti. Sapevamo che saresti tornato a breve e così abbiamo deciso di ingannare il tempo giocando con Ken.»

«Ma quanti anni ha il tuo cane, Wakabayashi?» chiese Ishizaki guardando l’Akita Inu che si stava facendo coccolare dal bimbo «A volte penso che sia un robot fabbricato dagli operai della tua azienda.»

John scrutò il difensore dello Jubilo Iwata ed emise un brontolio.

«Lo senti Ishizaki? Ti sta dicendo che sei un po’ grandicello ormai, per dire certe stupidaggini.» gli rispose Genzo in tono beffardo, facendo ridere Taro.

Il piccolo Ken, invece, aveva seguito lo scambio di battute con un’espressione seria e le sopracciglia corrugate.

«Zio sei stato cattivo questa mattina non mi hai portato a correre con te e John!» si lamentò con aria offesa. Incrociò le braccia e arricciò le labbra.

Genzo sorrise leggermente e gli si avvicinò. «Ma ci siamo andati molto presto Ken e tu ancora dormivi.» si giustificò.

«Se mi chiamavi io venivo.» ribatté il bimbo continuando a tenergli il broncio.

«Va bene Ken, allora la prossima volta, se la tua mamma è d’accordo, verrai anche tu a correre con me e John.» concesse alla fine il portiere dandogli un buffetto «È una promessa.» aggiunse e riuscì finalmente a strappargli un sorriso.

«Sai ho giocato a calcio con Taro e Ryo! Taro mi passava la palla e io facevo sempre gol.» gli raccontò con entusiasmo e un notevole orgoglio.

«Non sempre.» puntualizzò Ishizaki fingendosi offeso «Comunque questo birbante ha stoffa Wakabayashi, anche se secondo me funzionerebbe bene come difensore. Dì un po’, Ken, non ti piacerebbe fare il difensore? Proteggeresti la porta di tuo zio quando ormai sarà vecchio e farà fatica a muoversi tra i pali.»

«Magari al posto di Ishizaki.» ribatté il Super Great Goal Keeper.

Ken scosse la testa «No. Io voglio giocare in attacco e allenarmi tirando allo zio e facendomi passare i palloni da Taro.»

La conversazione venne interrotta da Annie, che nel frattempo era comparsa sul portico dell’entrata della casa con in mano una ciotola piena di crocchette.

«Oh, sei tornato Genzo. Bene ragazzi, se volete rientrare, io e Hitomi vi abbiamo preparato uno spuntino. Per te c’è la pappa, John.» disse scendendo i gradini, mentre il cane si dirigeva velocemente verso la sua cuccia.

«Spuntino? Arriviamo subito!» rispose Ishizaki, sempre particolarmente sensibile all’argomento "cibo". Genzo e Taro si scambiarono un’occhiata divertita.

Hitomi entrò nella sala da pranzo portando un vassoio con tre tazze di tè e tre piattini su cui facevano bella mostra di sé altrettanti budini al crème caramel, lo depose sul tavolo e distribuì i piattini, le tazze, i cucchiaini e la zuccheriera, ringraziata dai tre ragazzi che si erano appena accomodati.

«Il crème caramel è la specialità della signora Wakabayashi. Spero sia di vostro gradimento.» disse.

«Squisito.» commentò Misaki mostrando il pollice alzato, dopo il primo assaggio.

«Sublime! Non ce n’è ancora?» chiese senza ritegno Ishizaki.

«Sei sempre il solito ingordo Ishizaki.» lo riprese Genzo ridendo.

«Oh sì.» confermò Misaki «Ed è sempre il solito buffone. Non oso pensare se ci fosse anche Urabe … pensa che a Iwata divido l’appartamento con questi due.»

«Non sei obbligato a starci.» Ryo incrociò le braccia con un’espressione scocciata, provocando l’ilarità dei due amici.

 

Annie che nel frattempo era rientrata insieme a Ken e aveva messo Aiko nel passeggino, aveva assistito divertita allo scambio di battute tra i tre amici e, compiaciuta del consenso riscosso dal suo budino, accontentò Ryo e gliene fece avere un’altra porzione. La scena non sfuggì agli occhi del bambino.

«Mamma, posso mangiare anch’io il crème caramel insieme a loro?» chiese, cercando di impietosirla sfoderando il più accattivante dei suoi sorrisi.

Ma Annie non si lasciò commuovere «Hai già avuto la torta per colazione! Su, vieni, la tua sorellina ha voglia di fare un bel giretto per la città.» disse, mentre Aiko si stava trastullando con il suo orsacchiotto di gomma. «E poi, ora Genzo e i suoi amici devono parlare dei fatti loro.» aggiunse, strizzando un occhio ai ragazzi.

Ken esitò un attimo pensieroso, poi sorrise «Va bene, mamma! Vengo» disse, richiudendosi la cerniera del giubbotto «però mi compri un gelato!» disse con lo sguardo furbo che era il marchio di fabbrica della famiglia di cui era entrata a far parte.

Annie sgranò gli occhi e li alzò al cielo «E va bene signorino, per questa volta cedo al ricatto. Ha proprio ragione la signora Mariko, quando mi dice che non è facile crescere un Wakabayashi.»

«In effetti, deve essere stata una gran faticaccia.» sghignazzò Ryo, mentre la donna si avviava verso l’uscita spingendo il passeggino e con Ken al fianco.

«Beh Ishizaki, non credo che tua madre abbia faticato meno della mia … e lei di figli ne ha avuti tre.» fu la sarcastica risposta di Genzo.

«Sei una serpe.» ribatté piccato il difensore, fendendo il crème caramel con il cucchiaino e mettendosene in bocca un altro pezzo. Era così buffo che gli altri due ragazzi non poterono fare a meno di ridere di nuovo, seguiti dallo stesso Ishizaki.

 

«E così, a fine stagione te ne andrai dall'Amburgo.» disse Misaki, cominciando finalmente a informarsi sullo stato d’animo del portiere.

«Di fatto me ne sono già andato, visto che questi mesi li dedicherò alle qualificazioni per le Olimpiadi. Poi, da giugno, ascolterò le proposte delle squadre interessate a ingaggiarmi.»

«Pensi di rimanere in Bundesliga o vuoi tentare un'esperienza in un altro campionato?»

«Ho intenzione di rimanere in Europa, se in Germania o in un altro Paese ancora non lo so e per il momento preferisco non pensarci.»

«Non faticherai a trovare un'altra squadra. Quello che è successo negli ultimi mesi non può cancellare quanto di buono sei stato capace di fare in questi anni.»

Per fortuna il commissario tecnico Kira conosceva bene il valore di Wakabayashi e quanto accaduto in Germania non gli aveva certo fatto cambiare idea, perché aveva già dimostrato di aver compreso il suo errore. E per quanto riguardava le vicende seguenti, era una questione riguardante lui e Zeeman.

«Quest’anno l'Amburgo, senza di te, farà un campionato mediocre.» pronosticò Ishizaki con un sorriso beffardo.

Genzo fece un mezzo sorriso amaro. Non era tipo da godere delle disgrazie altrui, e in fondo, nonostante gli ultimi eventi, era dispiaciuto per quella che era pur sempre la squadra in cui era ancora tesserato, si era formato come calciatore e aveva esordito come professionista, per i suoi compagni che non avevano smesso di incoraggiarlo e di sostenerlo anche e soprattutto quando tra lui e Zeeman era calato il gelo. Aveva pensato spesso a quel rapporto sempre leale e rispettoso e a come si fosse deteriorato nel corso di poche settimane.

Zeeman gli aveva insegnato molto e aveva sempre riposto grande fiducia in lui, fino a quella maledetta partita. Probabilmente, si era sentito tradito. Un giocatore che aveva contribuito a crescere e a rendere il più promettente tra i giovani portieri di tutto il mondo, aveva disobbedito alle sue direttive nel momento cruciale di una gara fondamentale ed era, in seguito, divenuto un silenzioso contestatore del suo sistema di gioco.

In fondo, era venuto meno alla principale prerogativa di un portiere: essere l'ultimo baluardo della propria squadra, proteggerla dagli attacchi degli avversari, evitare i gol. Lui invece era corso verso l'attaccante Boisler che si preparava a tirare la punizione, cogliendo tutti di sorpresa e lasciando di stucco Zeeman, incapace anche solo di gridargli di tornare subito indietro. Era accaduto tutto in nemmeno un minuto: la lunga rincorsa di Wakabayashi, il tocco di Boisler, il tiro potente e preciso del portiere. Sì, era preciso perché mirato all'angolo destro della porta di Drenner. Ma il centrocampista cinese Shunko Sho aveva previsto la traiettoria del pallone e aveva colpito a sua volta con tutta la sua potenza, calciando un bolide e mettendo in movimento Schneider, che si era messo a correre, velocissimo, verso la porta lasciata incustodita.

 

Erano in palese disaccordo, le loro posizioni erano inconciliabili. Genzo non voleva portare avanti un progetto nel quale non credeva più; Zeeman doveva affermare la sua autorità di allenatore.

Non aveva grossi rimpianti: riconosceva di aver commesso un grosso errore, ma era convinto che se fosse tornato indietro avrebbe fatto la stessa cosa, perché quel giorno si sentiva imbattibile ed era convinto che il suo tiro avrebbe dato la vittoria all'Amburgo. Il modo migliore per dimostrare a Schneider che aveva fatto la scelta giusta decidendo di rimanere.

Non provava rancore. Era solo amareggiato che una storia bella come quella che aveva vissuto con l’Amburgo fosse finita in quel modo.

«Piuttosto» disse dopo aver posato la tazzina del tè «raccontatemi di voi, i nuovi campioni del Giappone.»

Il secondo stage di J League si era concluso due mesi prima e aveva visto trionfare lo Jubilo Iwata.

Taro era ormai diventato la stella della squadra. Subito titolare, aveva preso in mano il comando del centrocampo e dimostrato di essere un partner perfetto per gli attaccanti Nakayama e Takahara, diventando l’idolo della tifoseria. Anche Ryo e Hanji potevano ritenersi soddisfatti: pur se non sempre in campo fin dal primo minuto, si erano fatti apprezzare per impegno e tenuta fisica, con i quali sopperivano alla tecnica non eccelsa, e avevano imparato molto dai colleghi di reparto più esperti. Certo, Taro era un giocatore dal talento eccezionale ed era destinato a un campionato molto più competitivo di quello giapponese. Presto avrebbe raggiunto anche lui Tsubasa, Hyuga, Wakabayashi e Aoi in Europa.

«Ehi Misaki, rischiamo di dimenticarci il motivo per cui siamo venuti qui!» esclamò Ryo.

«Giusto. Wakabayashi, noi e gli altri ex giocatori della Nankatsu ci siamo messi d'accordo per allenarci, ogni pomeriggio, al campo di calcio comunale finché non inizieranno i raduni al J Village. Se ti unisci a noi, saremo al completo e avremo due portieri! Che ne dici?»

La risposta di Genzo arrivò all'istante «Non vedo l’ora di mettere piede in campo.»

 

 

L'aria era piuttosto fredda ma il cielo, attraversato da nubi tanto lievi da sembrare sfumate, era illuminato da un sole pallido e blando.

Elena camminava stringendosi nel piumino nero, facendo oscillare la borsa sportiva a tracolla dello stesso colore. Si ravviò con una mano le lunghe ciocche di capelli biondi, che il vento sembrava divertirsi a scompigliare e a gettarle davanti agli occhi.

Si trovava a Nankatsu da pochi giorni, ospite dello zio materno, un campione di kickboxing a fine carriera e insegnante in un complesso sportivo della città, che viveva in una piccola casa a piano unico con Wilhelm, un Deutscher Jagd terrier di due anni.

Ripensò alla sera di fine dicembre, in cui Carlo, di passaggio a Roma per fare visita a lei e ai suoi genitori e ad alcuni colleghi e amici, le aveva proposto di raggiungerlo in Giappone, per sostituire l'assistente, incinta e prossima al congedo, dell'insegnante di ginnastica artistica della palestra in cui si allenava e insegnava.

La sua buona conoscenza del giapponese e l'ormai notevole dimestichezza dello zio con il Paese del Sol Levante, in cui soggiornava, dapprima periodicamente poi in pianta stabile, da almeno quindici anni, le avevano permesso di accettare quella proposta insolita, senza pensare di stare facendo una follia.

Aveva iniziato quella giornata con un po' di apprensione perché, dopo i primi giorni in cui lo zio l'aveva portata in giro a visitare la città, avrebbe cominciato ufficialmente la sua vita - almeno fino all'estate successiva - a Nankatsu.

Ripensò a quanto accaduto al mattino.

Era uscita di casa da poco e si stava recando all'Istituto Shutetsu per frequentare il corso di lingua e cultura giapponese cui Carlo l'aveva iscritta, quando era stata superata da una ragazza in piena corsa. Dopo pochi metri, l'aveva vista inciampare e cadere a terra, ed era corsa subito verso di lei.

Si stava massaggiando un ginocchio, i denti che mordevano il labbro inferiore in una smorfia di dolore.

«Ti sei fatta male?» aveva chiesto, tendendole una mano per aiutarla a rialzarsi. Era di corporatura minuta e non molto alta.

«No no, solo una botta.» aveva risposto, sorridendo e scrollandosi la polvere dal cappotto. Aveva una parlata sciolta e veloce e vispi occhi castani.

«Non direi. Sta sanguinando.» le fece notare, indicando con gli occhi il rivolo rosso che stava scendendo dal ginocchio. Nel dirlo, si era accovacciata e aveva estratto dal suo zainetto un batuffolo di cotone e un flaconcino di disinfettante.

«Ma no, non occorre che ti disturbi.» aveva protestato senza troppa convinzione, stringendo poi i denti per il lieve bruciore e guardando con apprensione l'orologio da polso.

Elena nel frattempo aveva applicato un cerotto, dopo aver disinfettato la ferita.

«Ecco fatto.»

«Grazie.» aveva detto Kumi ricambiando il sorriso dell'altra ragazza e prendendo la cartella, rimasta miracolosamente chiusa «E scusami! È che stamattina rischio di arrivare in ritardo!» aveva gridato, girandosi per riprendere la sua corsa.

«Kumi! Ti sei dimenticata il pranzo!» una donna castana, una versione adulta di Kumi - con ogni probabilità, sua madre - era uscita sulla strada tenendo tra le mani un contenitore di metallo smaltato, a colori e disegni vivaci, che Elena aveva identificato subito come il tipico bento.

«Mi chiedo dove tu abbia la testa, certe volte.» aveva sospirato dando la scatola alla figlia, che aveva cacciato la lingua imbarazzata, prima di dileguarsi.

Elena si era ritrovata a ridacchiare tra sé e sé: quell'episodio aveva sciolto la tensione e le aveva dato la tranquillità necessaria per affrontare la sua prima lezione di lingua giapponese. Un corso organizzato dall'istituto Shutetsu, per facilitare l'integrazione degli immigrati, cui Carlo l'aveva iscritta per perfezionare la conoscenza della lingua parlata e per migliorare quella scritta, con cui aveva ancora difficoltà evidenti.

 

Entrò in un negozio di telefonia ed elettronica per acquistare un adattatore per poter ricaricare il suo cellulare e un phon portatile.

Accanto a lei, mentre il negoziante le porgeva gli articoli scelti, una ragazza che brandiva una confezione di auricolari stava armeggiando con il suo portafoglio per tirare fuori i soldi necessari per acquistarli. Mentre estraeva alcune monete, questo le cadde a terra, spargendole per tutto il pavimento con un rumore assordante.

«Accidenti, che disastro!» recriminò la giovane, inginocchiandosi. Elena si chinò per aiutarla a raccoglierle.

«Ecco qui. Dovrebbero esserci tutte.» disse, porgendole quelle che aveva recuperato.

«Grazie.» disse, celando l'imbarazzo con un sorriso.

«Tu sei la ragazza di stamattina?» chiese, dopo che furono uscite dal negozio.

Elena ripensò al loro insolito primo incontro «Sì.» disse, lasciandosi sfuggire un sorriso divertito, lo stesso della giapponese.

«Beh, visto che è già la seconda volta che ci incontriamo e che abitiamo a poca distanza l'una dall'altra, mi presento: sono Sugimoto Kumi, ma puoi chiamarmi per nome.» tese la mano, prontamente stretta.

«Rulli Elena. Vale anche per me.»

«Non sei giapponese.» disse l'altra, per avviare la conversazione.

«Da cosa l'hai capito?» chiese ironica, suscitando la risata della sua interlocutrice «Vengo dall'Italia. Da Roma, per la precisione.»

«Che meraviglia!» esclamò Kumi «Non ci sono mai stata, ma deve essere stupenda.»

Elena diede un’alzata di spalle «Il mio giudizio è sicuramente di parte, però sì, è bellissima.»

La giapponese chinò il capo, assumendo un'aria meditativa «Hai qualche impegno, ora?» chiese poi.

Elena esitò un attimo. Mancavano ancora più di due ore all'inizio della sua lezione e non sapeva come riempirle. Non le andava di tornare a casa, né di recarsi in palestra con eccessivo anticipo, rischiando di ritrovarsi lì senza sapere come rendersi utile.

«Per il momento no. Perché?»

«Ti piace il calcio?»

L'italiana impiegò qualche secondo a rispondere, un po' sorpresa da quella domanda e da quella che sembrava essere la premessa di un invito. Ma la risposta poteva essere solo una.

«Fin da bambina.»

Il sorriso di Kumi si allargò «Io sto andando al campo comunale, alla periferia della città. C'è una partita tra i miei attuali compagni di scuola e gli ex membri del club di calcio della Nankatsu, che ora giocano nella J League e nella Nazionale Under 23. Ti va di venire? Ti assicuro che vale la pena vederli!»

Elena rifletté un momento, poi accettò. In fondo, una partita di calcio durava solitamente circa un’ora e mezza e quella era sicuramente un’ottima soluzione per trascorrere quel periodo di tempo senza rischiare di presentarsi in ritardo al lavoro. Inoltre, il calcio le era sempre piaciuto, fin da quando passava i pomeriggi al campetto del quartiere, a Roma, con gli amici della squadretta del Sant'Angelo, di cui era la "presidentessa" - sorrise al ricordo, e provò una fitta di nostalgia.

 

Si sedettero su una delle panchine, a pochi passi dal campo. Elena si sentiva una spettatrice privilegiata, rispetto agli altri astanti, per la maggior parte ragazzi, seduti sui gradini.

«Torno manager per un giorno.» ridacchiò Kumi «Qui ci sono le fette di limone con zucchero e miele per far recuperare le energie a fine partita.» disse, indicando il cesto che aveva con sé.

«Mi raccomando, cercate di non farvi sommergere di gol!» gridò poi, rivolta ai suoi attuali compagni di scuola, che stavano terminando il riscaldamento.

«Ehi manager, per chi ci hai preso? Non siamo mica degli incapaci! E comunque, giocheremo in squadre miste, quindi saremo di pari livello.» ribatté piccato Teruyuki Monio, robusto difensore della squadra di calcio del liceo e, da qualche tempo, anche della Nazionale Under 19.

Kumi si girò verso Elena «Devo punzecchiarli se voglio evitare i timori reverenziali.» rise, strizzando un occhio.

La partita cominciò ed era davvero piacevole come Kumi aveva garantito. Le due squadre si affrontavano a viso aperto, creando azioni e occasioni a ripetizione.

La manager faceva un tifo chiassoso ed entusiasta, battendo le mani e incitando senza sosta i calciatori di entrambe le squadre. A Elena ricordò molto com'era lei, ai tempi delle partite al campetto di periferia, di cui una in particolare, era rimasta indimenticabile.

«Sono in gamba, quei ragazzi.» commentò.

«Sì. Sono attuali ed ex studenti del liceo Nankatsu. Alcuni di loro giocano in J League e sono in Nazionale.» disse, non celando un certo orgoglio «In più, c'è nientemeno che Genzo Wakabayashi.» indicò il ragazzo tra i pali, con un berretto grigio in testa.

«Pensa» proseguì «che il c.t. della Nazionale Olimpica ha deciso di non convocare i giocatori impegnati all'estero, ma lui ha avuto, ultimamente, dei problemi in Germania con il suo allenatore che non lo faceva giocare, quindi ha deciso di rendersi disponibile per la Nazionale.»

Elena annuì. Wakabayashi era uno dei pochi calciatori giapponesi noti anche in Europa dov'era considerato, a ragione, un vero prodigio. Aveva letto, su alcuni giornali, del dissidio tra il portiere e l’allenatore dell’Amburgo, il cui motivo non era mai stato spiegato con chiarezza ma era cominciato, con ogni probabilità, dopo la clamorosa, per come era maturata, sconfitta contro il Bayern Monaco.

Il suo sguardo venne attirato da un giovane che aveva appena ricevuto un passaggio a metà campo ed era riuscito a evitare abilmente l'intervento dell'avversario con una roulette perfetta. Agile ed elegante, continuò la sua corsa portandosi sulla fascia sinistra e scartando altri due giocatori, per poi entrare nell'area di rigore, da cui lasciò partire un tiro che sembrava diretto verso il palo più lontano, ma curvò improvvisamente, cambiando direzione verso quello più vicino. Wakabayashi, pur avendo seguito l'azione con la massima concentrazione, era stato tratto in inganno dalla traiettoria del pallone e dovette ricorrere a un notevole colpo di reni per riuscire a pararlo.

Misaki era migliorato ulteriormente: i suoi tiri erano ora non solo ancora più precisi e puliti, ma anche più potenti e imprevedibili.

«Bel tiro, Misaki.»

«Grazie. Hai fatto un'ottima parata.» replicò il centrocampista per poi girarsi e correre verso la trequarti.

Genzo annuì e si sistemò il berretto sul capo. Rilanciò il pallone verso Takasugi, per impostare una nuova azione di gioco.

«Kumi … chi è il giocatore che ha appena tirato?» chiese Elena, anche se dentro di sé conosceva già la risposta.

La ragazza sorrise «Oh, è Taro Misaki. È un centrocampista di grande talento. Dopo il World Youth si è infortunato gravemente alla gamba sinistra, ma si è ripreso benissimo e a dicembre ha vinto la J League con lo Jubilo Iwata.» spiegò compiaciuta.

«È sempre bravissimo ….» mormorò con un tono dolce che lasciò Kumi stupita.

Quei pochi secondi le erano bastati per rivedere in quel giocatore così talentuoso, un ragazzo che aveva ripescato poco prima tra i suoi ricordi. Provò una sensazione di gioia che prevalse sullo stupore di apprendere che giocava nella J League e non in un campionato europeo. Seguì il match con ancora più attenzione, entusiasmandosi ogni volta che prendeva possesso della palla e si avviava verso l’area avversaria. In più occasioni si era alzata in piedi a incitarlo, con una mano messa accanto alla bocca a mo' di amplificatore, sotto gli occhi meravigliati di Kumi. E attendeva, con un misto di impazienza e di trepidazione, che la partitella finisse per poterlo salutare di nuovo.

 

La partita terminò un quarto d'ora dopo.

Alcuni ragazzi si diressero verso la linea laterale per riposarsi e per assaporare le fette di limone che Kumi stava distribuendo, mentre altri erano rimasti in campo, a palleggiare e a tirare. Tra questi c’era anche Misaki.

Taro aveva creato molte azioni pericolose e aveva fatto dei tiri che avrebbero messo in difficoltà qualsiasi portiere, ma quel Wakabayashi era davvero eccezionale ed era riuscito a mantenere la sua porta inviolata. «Come volevasi dimostrare.» pensò Elena, sorridendo divertita. Avrebbe dovuto attirare la sua attenzione, se voleva almeno salutarlo. Non le restava ancora molto tempo prima di recarsi alla palestra.

«Complimenti Taro! Hai giocato una partita stupenda, peccato non abbia segnato!» gridò Elena entrando nel rettangolo di gioco, destando ancora una volta l'attenzione di Kumi. Lo aveva chiamato … per nome?

Il centrocampista si voltò per ringraziare la persona che gli aveva parlato. Stava per aprire bocca, quando si arrestò, fissandola per qualche secondo con aria interrogativa. Ma impiegò poco per capire chi fosse quella ragazza dal buon giapponese, caratterizzato da un accento di una parte di mondo che conosceva bene.

«Elena?»

«Sì.» confermò, andandogli incontro.

«Sei proprio tu.» disse, identificando la ragazza dai capelli biondi e dagli occhi azzurri che aveva conosciuto anni prima, in quella settimana straordinaria in cui l'aveva reclutato come allenatore di una squadra di ragazzini innamorati del calcio, ma che dovevano ancora imparare a giocare come veri compagni.

«Come mai da queste parti?»

«Sono ospite di mio zio. Lavoro nella sua palestra. A proposito» disse, lanciando una rapida occhiata all'orologio da polso «è meglio che vada, o rischio di arrivare tardi. Ci vediamo presto. Ciao!» disse, voltandosi per salire la gradinata, salutando anche Kumi e ringraziandola per il piacevole pomeriggio che le aveva fatto passare.

«Ehi Misaki, chi era quella biondina?» chiese Ryo, che aveva osservato tutta la scena e si stava avvicinando con Urabe, con il quale aveva cominciato a battibeccare su un intervento a vuoto su un passaggio che aveva rischiato di mandare in gol Shun Nitta.

Taro cercò di usare parole che non dessero spazio a fraintendimenti, anche se sapeva che sperare che Ishizaki non facesse certe insinuazioni era da utopisti.

«Una ragazza che ho conosciuto anni fa durante un viaggio in Italia e che si è appena trasferita qui.»

«Avresti potuto presentarcela.» lo stuzzicò Urabe.

Misaki alzò le spalle «Aveva un impegno ed è dovuta scappare. Ma non vi preoccupate, la rivedrete presto.»

«È davvero carina! Ma allora quando andavi in giro per il mondo, non ti divertivi solo a giocare a calcio.» commentò Ryo, con un sogghigno.

«E io che mi ero illuso che, per una volta, non andassi a parare lì.» sospirò, alzando gli occhi al cielo e rimpiangendo che Yukari fosse in quel momento ancora impegnata alla scuola materna.

«Beh, non ci sarebbe nulla di male!» insistette Urabe, appoggiandosi con un braccio alla spalla del suo compagno di reparto. I due lo guardarono con il sorrisetto di chi la sapeva, o meglio pensava di saperla lunga. Taro scosse la testa. Era incredibile come quei due approfittassero di ogni stupidaggine per fare scaricabarile, ma fossero sempre in sintonia totale quando si trattava di fare battute e insinuazioni maliziose.

«Allora sono spiacente, ma devo deludervi. È solo un'amica.» ribadì sperando fosse sufficiente per liquidare l'argomento una volta per tutte.

«Misaki» intervenne Kumi «Ho qui una bottiglia di integratore, se vuoi.»

«Grazie, Sugimoto.» rispose prendendola dalla mano della ragazza che sfiorò appena, con uno dei tipici sorrisi gentili che da qualche tempo avevano il potere di far accelerare i battiti del suo cuore.

Kumi riuscì soltanto ad annuire ricambiando il sorriso. L'intraprendenza di alcuni anni prima, quando era Tsubasa a suscitare quelle emozioni, sembrava essersi dispersa. E ora c'era anche Elena che sembrava avere molta confidenza con lui ….

Dopo essersi dissetato, Taro si affrettò a tornare in campo dove Genzo, rimasto tra i pali della porta, parò senza problemi un hayabusa shoot di Nitta, che fece il gesto di tirare un pugno, tra il disappunto e l'ammirazione.

Il portiere stava respirando, dopo tanto tempo, la gioia di stare in campo e di vivere il calcio nella sua forma più pura: un gioco meraviglioso che aveva caratterizzato tante splendide giornate della sua infanzia e adolescenza. Dopo tanto tempo, finalmente si divertiva sul serio.

 

 


***Note***

 

Il personaggio di Elena Rulli appare nella puntata numero 89 della serie Shin dell'anime, intitolata "Una lettera dall'Europa". Ecco tre immagini.

 

Il Deutscher Jagd terrier è una razza canina originaria della Germania, poco nota al di fuori dell'Europa continentale. Di piccola taglia e di pelo duro dal colore scuro, si caratterizza per una grande agilità e resistenza. Testardo e reattivo, è adatto a un padrone energico, poiché ha bisogno di molto esercizio.

Fonte: agraria.org

Ecco due immagini: cucciolo e adulto.

Teruyuki Monio: appare nel "Golden 23" ed è uno dei compagni di Takeshi Sawada nella Nazionale Under 19 che si qualifica alla nuova edizione del World Youth. È uno dei sei giocatori giapponesi scelti tra i migliori del torneo di qualificazione. Nel manga non è specificata la sua squadra né la scuola frequentata, quindi l'ho collocato nella Nankatsu.

 

In Giappone le forme delle prese di corrente sono diverse da quelle italiane.

In Italia si utilizzano varie prese, dalla Schuko (quella tonda tedesca) a quella con tre piedini (larga e stretta), mentre in Giappone si utilizza una presa con due piedini rettangolari, più di rado quella con tre piedini.

È necessario quindi avere con sé un adattatore.

Tra i due Paesi vi sono differenze anche nel voltaggio: in Italia si usa una corrente a 230 V ad una frequenza di 50 Hz, in Giappone si utilizzano invece i 100 V ad una frequenza di 50 Hz per la parte est del paese e di 60 Hz per la parte ovest.

Nel caso di elettrodomestici come il phon è addirittura consigliato comprarne uno sul posto o comunque averne con sé uno dotato di commutatore.

Fonte: GiapponePerTutti

  
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