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Autore: Piperilla    05/07/2018    1 recensioni
Le storie sono belle, ma la vita vera è un'altra cosa: si nasconde agli angoli delle strade, negli appartamenti anonimi, nelle periferie, e quando va in pezzi, ti dilania come le schegge di una granata.
Questo Vera lo sa bene: piena di ferite e di demoni con cui convivere, ha smesso di illudersi. La vita è crudele, meschina, e senza giustizia.
Anche Vittorio lo sa, ma non se ne cura: dopo vent'anni passati seguendo passione e vocazione, tutto quello che ha realizzato gli si sta sgretolando tra le mani. La vita è dura, irriconoscente, e ha un pessimo senso dell'umorismo.
La vita spesso fa schifo: è questo che pensa Vera mentre si domanda se le cose andranno mai meglio.
La vita a volte è proprio una stronza: è questo che si dice Vittorio mentre si chiede se valga la pena di ricostruire quelle macerie.
La risposta che entrambi si danno è no: ormai pieni solo di rabbia e amarezza, l'unica cosa che riescono a fare è usarle come spinta per alzarsi al mattino. Se lo tengono stretto, tutto quel veleno che gli scorre nelle vene.
Almeno finché qualcuno non glielo tirerà fuori a forza e gli ricorderà che esiste anche altro oltre la rabbia.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Dopo quella seduta dallo psicologo non prevista, Vera aveva trascorso quattro giorni ad affinare le proprie tecniche dilatorie: era riuscita con successo a evitare del tutto Vittorio, a non parlare di nulla di diverso dal lavoro con Giovanna e a sottrarsi alle domande esitanti di sua madre e di Giulia.
   Quel martedì pomeriggio avrebbe dovuto trascorrerlo rintanata da qualche parte, sola con un paio di libri come stava diventando sua abitudine, ma la telefonata di Giovanna e il conseguente ordine di raggiungerla in palestra era stato così perentorio da non lasciarle scampo.
   Per il momento in cui Vera mise piede oltre la porta d'ingresso, trovò Giovanna di fronte al banco dell'accettazione, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo fisso sul battente a vetri.
   «Finalmente» commentò spiccia la proprietaria della palestra. «Andiamo nel mio ufficio».
   La più giovane la seguì verso un'estremità dell'ingresso e dentro la stanzetta ingombra da cui Giovanna gestiva i propri affari; una volta dentro lasciò cadere a terra la borsa e si appoggiò al muro, mentre l'altra misurava il poco spazio a disposizione con passi rapidi e nervosi.
   «Non credere che io non sappia cosa sta succedendo» esordì a sorpresa Giovanna, bloccandosi per un istante. Senza attendere risposta, riprese a muoversi. «Perché lo so, e ti dico subito che non mi sta bene».
   «Giovanna» esordì Vera, guardinga, «di cosa stai...».
   «Non fare la finta tonta con me» la interruppe bruscamente l'altra. Le si avvicinò. «Guardati: capelli spettinati» prese a elencare, con un gesto verso la sua testa. «Vestiti sgualciti» proseguì, afferrando un lembo della maglietta piena di grinze che indossava Vera e agitandola con disprezzo. «Smalto rovinato» aggiunse, indicando il colore scheggiato sulle unghie della ragazza. «E non ti alleni da una settimana. Anche l'ultima volta è stato così» disse dura. «Ti eri lasciata andare in questo stesso modo e tutti ti hanno permesso di farlo, ma se credi che starò a guardarti mentre ricominci a crogiolarti nell'autocommiserazione...»
   «Crogiolarmi nell'autocommiserazione?» ripeté Vera, offesa. «Ero sopravvissuta per miracolo a un incidente in cui era morta una delle mie migliori amiche e mi avevano appena amputato una gamba! Non mi stavo crogiolando nell'autocommiserazione – ero sconvolta!»
   «Il primo mese!» abbaiò Giovanna in risposta. «Il secondo, magari – ma poi hai lasciato l'ospedale, sei entrata nel centro di riabilitazione per imparare a camminare con la protesi, e quando ne sei uscita è stato ancora peggio! Invece di tornare alla normalità ti sei buttata giù tanto da diventare un relitto umano, ed è quello che stai cercando di fare anche stavolta!»
   «Perché non mi sono pettinata e la mia maglietta è sgualcita?» chiese la venticinquenne, incredula.
   «Perché la prima cosa che fai quando sei depressa è smettere di curare il tuo aspetto, poi passi a trascurare il tuo corpo e infine la tua mente!» urlò Giovanna. «Sveglia, Vera! Tutti stanno male, tutti soffrono, ma se tutti ci comportassimo come fai tu, la specie umana si sarebbe estinta secoli fa!»
   «Quindi non sono autorizzata a soffrire?» gridò Vera.
   «Non sei autorizzata a fare solo quello!» tuonò in risposta Giovanna.
   Furiosa, Vera afferrò la borsa, spalancò la porta e andò verso l'uscita.
   «Vera! Dove vai?» le strillò dietro la sua ex allenatrice. «Non ho ancora finito!»
   La venticinquenne girò su se stessa con tanta foga da barcollare. «Be', io sì!»
   Vera lasciò la palestra, salì in auto e imboccò una strada a caso dopo l'altra, senza badare a dove stesse andando; dopo aver messo svariati chilometri tra sé e Giovanna, parcheggiò nel primo posto libero che trovò e si afflosciò contro il sedile.
   La giovane donna si strofinò le mani sulla testa e si sforzò di non pensare all’incidente, a come avesse distrutto ogni cosa nel giro di pochi secondi. Un momento prima rideva con Noemi ed era la persona più felice del mondo; poi tutto era diventato dolore. Vera ricordava ancora il risveglio in ospedale, quattro giorni dopo lo schianto: aveva aperto gli occhi, sentendo ogni muscolo e ogni osso far male come non avrebbe mai immaginato fosse possibile. Solo la gamba sinistra sembrava illesa: fino a metà coscia provava un dolore così lancinante da rivoltarle lo stomaco nonostante la morfina, poi più niente.
   Solo quando aveva allungato una mano verso l’arto in questione, Vera aveva capito che in quella parte del proprio corpo non provava dolore solo perché non c’era più nulla che potesse farle male. Sotto shock, aveva tastato forse dieci volte il punto vuoto in cui ci sarebbe dovuta essere la sua gamba; poi era scoppiata a piangere come una bambina, incredula e stordita, con la testa che le pulsava come se fosse dovuta esplodere da un momento all’altro.
   Quando poi aveva chiesto di Noemi e sua madre si era sciolta in lacrime, Vera aveva capito subito che la sua amica aveva perso ben più di una gamba. Era morta; e lei, confinata in ospedale, non era neanche potuta andare al suo funerale.
   Ben presto la stanza che avrebbe occupato per sei settimane era stata presa d’assalto. Sua madre e suo padre non l'avevano mai lasciata sola; Giulia, appena uscita dall’ospedale, si era precipitata lì in lacrime con la piccola Ludovica in braccio e Tiziano alle calcagna. Poi era stata la volta dei parenti, degli amici, di Giovanna e di tutti i ragazzi della palestra; persino alcuni dei suoi ex professori erano andati a trovarla, offrendole il loro aiuto.
   Ma Vera non voleva aiuto: voleva soltanto tornare a prima dell’incidente per evitare che accadesse, per riavere Noemi, la propria gamba e la vita così come l’aveva vissuta fino ad allora. Quello, però, nessuno poteva darglielo. Tutti i medici e gli infermieri del reparto avevano provato a convincerla che la sua vita non sarebbe cambiata poi molto, che avrebbe potuto avere ancora un’esistenza normale, e che una volta messa la protesi sarebbe stata di nuovo come tutti gli altri. Ma come poteva essere come tutti gli altri, se non c’era più Noemi? Come avrebbe potuto continuare con la ginnastica artistica, con una gamba artificiale?
   Alla fine aveva finto di crederci solo per essere lasciata in pace. Era tornata a casa, aggrappata alle stampelle; si era intestardita a fare tutto da sola, a cominciare dal salire le scale, perché almeno i suoi genitori smettessero di trattarla come un’invalida, e alla fine la pietà negli occhi delle persone a lei più vicine si era smorzata. Nonostante questo, Vera era ben lontana dal sentirsi normale: anche a distanza di un anno, ogni movimento, ogni piccolo passo, le ricordavano come quel corpo di cui era sempre andata tanto fiera fosse ormai soltanto una gabbia, un meccanismo rotto, impossibile da aggiustare.
   Giovanna era stata la prima a tirare fuori Vera dal guscio in cui si era chiusa. La sua ex allenatrice si era presentata a casa sua quattro mesi dopo l’incidente ed era andata a sedersi in cucina, annunciando che non se ne sarebbe andata finché Vera non si fosse decisa a parlare con lei. E quando Vera era emersa dalla sua stanza, Giovanna l’aveva squadrata a lungo prima di rilevare tutto quello che non andava e sbatterglielo in faccia senza alcun tatto. Quella ragazza sciatta, con i capelli sporchi e i vestiti in disordine che non celavano i chili che stava rapidamente accumulando, non era la Vera che conosceva lei; aver perso la gamba era l’ultimo dei suoi problemi; e lei, che era andata lì per offrirle un lavoro come sua assistente, come avrebbe potuto assumerla, se continuava a essere così trasandata?
   Con parole al vetriolo Giovanna l’aveva costretta a guardarsi con obbiettività; l’aveva spronata a tornare in palestra, a rimettersi in forma, e le aveva dato un modo per continuare ad avere la ginnastica artistica nella sua vita, anche se non poteva più praticarla.
   Vera ricordava ancora le parole con cui Giovanna si era congedata da casa sua, quel giorno.
   «Trattare così il tuo corpo è un insulto a tutto quello che avevi ottenuto» le aveva detto con durezza. «È stato grazie agli allenamenti costanti negli anni, che sei sopravvissuta all’incidente. Come puoi essere così irriconoscente verso te stessa?»
   Vera scosse la testa, tornando al presente. Quello era esattamente ciò a cui non avrebbe voluto pensare, e sapere che Giovanna aveva ragione – almeno in parte – non placava la sensazione di essere stata tradita da quella donna che era quasi una seconda madre. Le accuse della cinquantacinquenne la facevano bruciare di rabbia: perché non le era consentito avere dei momenti di debolezza? Perché tutti sembravano aspettarsi che fosse in grado di gettarsi alle spalle tutto quello che era successo? Lei non sapeva neanche se le sarebbe mai stato possibile vivere godendo di nuovo di una pura, completa serenità; perché le persone che la circondavano non solo parevano convinte che fosse possibile, ma addirittura si aspettavano che lei raggiungesse quel risultato in breve tempo, senza difficoltà?
   Loro non lo sanno, pensò rabbiosamente Vera. Loro hanno perso Noemi; io ho perso Noemi e me stessa.
   Piena d'ira, la ragazza ripartì e raggiunse il parco vicino casa; andò a sedere su una panchina, al sole, tirò fuori un libro dalla borsa e si immerse nella lettura per concentrarsi su qualcosa di innocuo per la sua mente. E ci sarebbe riuscita, se Vittorio non le si fosse parato davanti neanche mezz'ora dopo, le braccia incrociate sul petto e la faccia aggrondata.
   Vera chiuse il libro e lo sbatté sulla panchina.
   «No, Valenti» esordì secca prima ancora che l'uomo riuscisse ad aprire bocca. «Oggi non è proprio giornata: è meglio se te ne vai».
   «Oh, per te non è giornata?» le fece eco il carabiniere, sarcastico. «Peccato che non me ne importi nulla».
   «Dovevo immaginarlo» sibilò Vera. Rimise il libro nella borsa e si alzò per andarsene, ma Vittorio si spostò per bloccarle il passo. «Valenti, togliti».
   «Non penso proprio». Vittorio la scrutò torvo. «Mi stai evitando di nuovo...»
   «Forse perché non ho voglia di starti a sentire?» lo interruppe Vera.
   «Questo non mi ha mai fermato, e lo sai» replicò lui.
   La ragazza emise un ringhio ben udibile. «Valenti, oggi ho già litigato con Giovanna: non ho voglia di discutere anche con te».
   «Non puoi evitarmi ogni volta che c'è qualcosa che non vuoi sentirti dire!» sbottò Vittorio. «Non è così che funziona!»
   «E com'è che funziona, allora?» lo provocò Vera. «Tu devi essere un esperto, visto che ci hai messo... quanto? Due anni, per affrontare il fatto che il tuo matrimonio era morto e sepolto?» aggiunse crudele.
   Vittorio divenne livido di rabbia, ma si morse la lingua e prese un gran respiro attraverso il naso prima di parlare ancora: non voleva dire qualcosa di cui poi si sarebbe pentito.
   «Il fatto che io abbia ignorato i miei problemi non significa che debba farlo anche tu» rispose infine con calma forzata.
   «Non venire a farmi la paternale» scattò Vera. «Non te lo puoi permettere».
   «Invece penso proprio di poterlo fare» replicò l'uomo, mordendo ogni parola.
   «Levati di mezzo, Valenti» gli intimò la ragazza con pari ferocia.
   «Tu mi starai a sentire adesso, fosse l'ultima cosa che faccio!» dichiarò Vittorio.
   «Perché non potete lasciarmi tutti in pace?» gridò Vera.
   «Perché tu non vuoi essere lasciata in pace – tu vuoi poter raggiungere il fondo senza interferenze!» urlò il carabiniere.
   «E se anche fosse?» strillò Vera con tutto il fiato che aveva.
   Vittorio si passò le mani tra i capelli. «Cristo, Vera, non lo vedi quanto sia sbagliato? Lo fai ogni volta!» esplose. «Lotti come una tigre per ogni sciocchezza, per ogni minima cosa, anche quelle insignificanti, ma quando devi combattere per l'unica cosa davvero importante, ti arrendi! Quando è il momento di tirare fuori le unghie e fare di tutto per sopravvivere, ti lasci andare! Ti arrendi, sempre! È l'unica cosa che sai fare!»
   «Sta' zitto!» gridò Vera. «Io non mi arrendo – sono stanca! Stanca di dover nascondere o giustificare ogni momento in cui non sono felice, stanca di ricordare quella notte! E tu non sei nessuno, nessuno, per potermi parlare così, non sai niente di me, quindi non parlare come se mi conoscessi!»
   «Ma io ti conosco!» tuonò Vittorio. «Che ti piaccia o no, io ti conosco ormai, e tu conosci me: è questa la realtà dei fatti, e negarlo non cambierà niente!»
   «Tu di me sai soltanto quello che hai scoperto ficcando il naso in affari che non ti riguardano, e questo non significa sapere chi io sia!» sputò la ragazza.
   Vittorio le si avvicinò e portò il naso a un centimetro da quello di lei: alla luce del sole tutto il volto di Vera sembrava illuminarsi e riflettere i raggi dorati come uno specchio, ma neanche quel fugace pensiero smorzò la sua rabbia.
   «Invece so bene chi sei, e sai come lo so? Perché ti ho vista al tuo peggio!» abbaiò il carabiniere.
   «Non è sufficiente!» gli ritorse contro Vera. «Io non sono solo quello che è successo l'altra sera: c'è così tanto che non sai, e ti comporti come se ciò che non hai ancora visto di me, non esistesse! Non hai intravisto che qualche sprazzo della persona che realmente sono, eppure continui a comportarti come se mi conoscessi da tutta la vita e onestamente, sono stufa della tua presunzione e vorrei tanto che tu mi lasciassi in pace!»
   «Tu vuoi qualcuno che non ti combatta!» la contraddisse l'uomo. «Vuoi qualcuno che ti lasci affondare senza provare ad aiutarti!»
   «Io voglio non dovermi vergognare dei momenti in cui cedo!» ruggì Vera.
   «Da quando ti conosco, sono sempre stato il primo a dirti che non c'è niente di male nell'avere dei momenti di debolezza!» le ricordò l'uomo. Scosse la testa. «Ma che te lo dico a fare? Tanto parlare con te è solo una perdita di tempo: non vuoi proprio capire. Eppure ti ho vista al tuo peggio e sono ancora qui!»
   «Vorrei che non ci fossi!» esplose Vera: strinse i pugni tanto da farsi sbiancare le nocche delle dita. «Non ti ho chiesto di esserci, non ti ho mai chiesto di far parte della mia vita!»
   «Non so nemmeno perché continuo a darti retta!» urlò Vittorio, alzando le braccia al cielo. «Sei solo una ragazzina che passa metà del suo tempo a piangersi addosso e odia gli altri perché non stanno lì a darle pacche sulla spalla e dirle: “Brava, continua pure così!”».
   Vera gli diede una violenta spinta e l'uomo barcollò indietro.
   «Sei uno schifoso ipocrita» sibilò la ragazza, gli occhi colmi di lacrime e lo sguardo rabbioso. «Tu hai finto per anni di non vedere come la tua vita privata stesse andando a rotoli e hai il coraggio di giudicare gli altri? Io sono tutt'altro che perfetta; mi costa una maledetta fatica provare a superare le mie difficoltà e lo faccio con una lentezza estrema; spesso e volentieri mi fermo e devo ricominciare tutto da capo, ma almeno io guardo in faccia i miei problemi, invece di negarli! Sono talmente consapevole del peso che mi porto dietro da permettergli di schiacciarmi: e non credo tu sappia che sensazione sia, visto quanto sei bravo a ignorare i tuoi, di problemi!». Lo guardò, ansante. «Vattene, Valenti». Lo spinse di nuovo. «Vattene via!»
   Vera si allontanò da lui di due passi, ma Vittorio l'afferrò per un braccio e la trattenne: il suo volto era rosso di rabbia, e sembrava furioso almeno quanto lei.
   «Sei solo una bambina che non sa di che parla» ringhiò a un centimetro dalla sua faccia.
   Con uno strattone, Vera si divincolò e lo schiaffeggiò con tanta forza da imprimergli sul viso l'impronta della propria mano.
   «Invece lo so bene, e me l'hai appena confermato» sussurrò perfida.
   «Lo sai che ti dico? Non voglio saperne più niente di te!» urlò Vittorio con voce intrisa di cattiveria. «Sei solo uno spreco di tempo e fatica!»
   «Ecco, bravo: vattene!» replicò Vera. «Vattene con la tua ipocrisia, tu che mi rinfacci sempre di scappare quando c'è qualcosa che non voglio sentirmi dire» lo schernì, facendogli il verso.
   Vittorio la scrutò torvo, mentre una vena gli pulsava frenetica sul collo; Vera ricambiò, lo sguardo fisso e le labbra arricciate a scoprirle i denti. Dopo qualche istante il carabiniere girò sui tacchi e si allontanò deciso, e Vera si guardò intorno: ogni singola persona presente stava fissando il punto in cui lei e Vittorio avevano appena litigato.
   «Be'? Che avete da guardare?» berciò incattivita la ragazza. «Pensate agli affari vostri!»
   Tutti si affrettarono a distogliere lo sguardo, e alcuni ritennero addirittura saggio mettere una maggiore distanza tra sé e Vera. Lei si asciugò le guance bagnate mentre nuove lacrime di rabbia minacciavano di sgorgare dai suoi occhi, poi si premette una mano al centro del petto, come se quel gesto potesse placare tutto quello che le si agitava dentro.

******

Quel mercoledì segnò una settimana precisa dall'anniversario dell'incidente di cui erano state vittime Noemi e Vera; e Luciano, che aveva notato con sollievo come Vittorio – dopo avergli chiesto un cambio di turno per stare vicino a Vera proprio in quella giornata così delicata – avesse mantenuto la calma, fu costretto ad assistere al totale e repentino cambiamento d'umore del quarantenne.
   In realtà, il maresciallo aveva avuto una giornata tutto sommato tranquilla: la maggior parte del proprio tempo l'aveva trascorso barricato in ufficio, impegnato con un nutrito numero di scartoffie, e non c'era stato nulla a turbarne la calma.
   Ma quando, poco prima delle sei del pomeriggio, Claudio Pastore si precipitò nel suo ufficio ancora in divisa, con l'aria disperata e – fatto assolutamente insolito – sull'orlo delle lacrime, Luciano capì che quella pace insperata stava per finire.
   «Maresciallo, deve fare qualcosa» esclamò nervoso il trentaquattrenne: i corti capelli biondo scuro gli stavano ritti sulla testa, chiaro segno che doveva averci fatto scorrere le dita quasi senza sosta. «Questa giornata è stata un incubo, e se Vittorio non si calma, io non posso e non voglio più lavorare con lui».
   Luciano si coprì il volto con le mani: evidentemente la sua buona stella si era eclissata.
   «Perché? Cos'è successo?» chiese.
   «Cos'è successo?» ripeté Claudio. «Vittorio Valenti è una maledetta bomba a orologeria, ecco cos'è successo!». Mosse qualche passo per la stanza, irrequieto, agitando le braccia. «È tutto il giorno che cerco di tenerlo tranquillo: scatta per qualunque cosa – anzi, scatta anche senza motivo! Oggi ha rischiato di azzuffarsi con qualsiasi persona l'abbia anche solo guardato: un paio di volte sono stato costretto a placcarlo per impedirgli di fare a botte!»
   Il maresciallo si strofinò gli occhi. «Ho capito, Pastore. Adesso vai e mandamelo qui».
   «Non serve» intervenne l'interessato dalla porta: era appoggiato allo stipite e guardava torvo Claudio, le braccia incrociate strette sul petto. «Sei corso a piangere dal maresciallo appena hai messo piede qui dentro? Prevedibile» disse cattivo.
   Claudio andò alla porta per uscire, ma quando fu accanto a Vittorio, gli scoccò uno sguardo incendiario.
   «Non so che problema tu abbia, Valenti, ma ti conviene risolverlo e darti una calmata» sibilò. «Oggi ti ho salvato il collo perché sono tuo amico, ma se continui a fare lo stronzo, ti lascerò impiccarti con le tue stesse mani, visto che ci tieni tanto!»
   Vittorio lo afferrò per il davanti della divisa. «Chi ti ha chiesto niente?» ruggì.
   Luciano si alzò di scatto e diede un pugno alla scrivania.
   «Ora basta!» tuonò. «Valenti, lascia subito il tuo collega o ti becchi una sanzione disciplinare!»
   Il quarantenne lasciò Claudio e gli rivolse un ultimo sguardo colmo di disprezzo; Claudio, da parte sua, scosse la testa, incredulo e arrabbiato, e uscì dalla stanza senza degnare l'amico di un saluto.
   «Cristo, Vittorio, ma che problema hai?» abbaiò Luciano non appena la porta fu chiusa.    «Stavi andando così bene! Perché adesso hai ricominciato a comportarti da... da... da pazzo?»
   «Sono incazzato, va bene?» sbraitò Vittorio. «Ieri ho litigato con quella deficiente cocciuta: è riuscita a farmi imbestialire e non l'ho ancora smaltita!»
   Luciano si accigliò, disturbato tanto dal tono quanto dalle parole dell'altro. «Quando dici “deficiente cocciuta” per caso intendi Vera?» chiese, gelido.
   «Sì, intendo proprio lei» ringhiò il quarantenne in risposta. «A volte fa delle cose che mi fanno ammattire, e come se non bastasse, non sta a sentire nessuno! Preferisce autodistruggersi!» sbottò, alzando le braccia al cielo.
   «Tu dovresti saperne parecchio, al riguardo». Vittorio gli scoccò un'occhiata rancorosa, ma Luciano non batté ciglio. «Sul serio, Vittò, tu sei stato la personificazione della testardaggine e dell'autodistruzione per quasi vent'anni... quindi, ecco, capisco che tu voglia aiutare Vera, ma non trovi che sia un po' ipocrita, da parte tua, criticare qualcuno perché sta commettendo gli stessi errori che a suo tempo hai commesso anche tu?»
   «Anche lei mi ha definito ipocrita» commentò irritato l'altro. «Io voglio solo che non si faccia del male!»
   Il maresciallo affilò lo sguardo. «Perché? È successo qualcosa?» domandò in tono tagliente.
   «No» negò all'istante Vittorio. Luciano lo guardò, scettico, ma lui non si scompose: poteva essersi scannato con Vera ed essere furioso con lei, ma le aveva fatto una promessa, e non aveva intenzione di infrangerla.
   «Torniamo al nocciolo della questione» disse lentamente Luciano. «Oggi sei andato fuori di testa perché Vera non ti ascolta... o perché avete litigato?»
   Vittorio esitò. «Le ho detto delle cose brutte» ammise. «Verso la fine. Penso che se mai mi rivedrà, si fermerà soltanto per sputarmi in faccia».
   Luciano incrociò le braccia al petto e inarcò le sopracciglia. «Sentiamo che cos'è uscito da quella fogna che hai al posto della bocca».
   Il quarantenne lanciò al maresciallo uno sguardo offeso, ma non ribatté. «Le ho detto che avere a che fare con lei è solo uno spreco di tempo e fatica».
   «E non ti ha ammazzato?» chiese serio Luciano.
   Vittorio s'incupì. «A modo suo, mi aveva già ammazzato» mugugnò.
   Luciano lo guardò a lungo, in silenzio.
   «Per come la vedo io, Vittorio» esordì, «se ti dispiace di averle detto quelle cose – se ti dispiace davvero – la cosa migliore che puoi fare è andare a chiederle scusa il prima possibile: secondo la mia esperienza personale, più tempo fai passare prima di scusarti con una donna, più lunga, lenta e dolorosa sarà la punizione che ti riserverà». Inarcò di nuovo le sopracciglia. «Hai già fatto passare ventiquattro ore: se non vuoi che ti ammazzi davvero e faccia sparire il tuo cadavere, ti conviene andarla a cercare, e di corsa».
   Vittorio bofonchiò qualcosa di incomprensibile, ma invece di contestare, incassò la testa tra le spalle e uscì dall'ufficio, lasciando Luciano a scuotere la testa tra sé.

******

Il giorno seguente alle liti con la sua ex allenatrice e Vittorio, Vera si presentò in palestra in perfetto orario, con il mento sollevato in un gesto orgoglioso e l'aria altera: si era lavata i capelli, rifatta lo smalto, indossava un paio di pantaloni nuovi e una camicia perfettamente stirata, e si era anche truccata un po'.
   Giovanna osservò l'arrivo della venticinquenne e sbuffò, le sopracciglia inarcate in un'espressione sardonica: tutto in Vera – dalla punta dei capelli a quella delle scarpe – era un enorme invito a rimangiarsi quello che le aveva detto il pomeriggio precedente. Non che fosse interessata a farlo: che fosse stato merito di ciò che le aveva detto o del desiderio di Vera di smentirla, lei aveva raggiunto il suo obiettivo, e non aveva nessuna intenzione di scusarsi per questo.
   Due ore più tardi, constatata la perseveranza di Vera nell'ignorarla, la cinquantacinquenne decise di interrompere quell'improvvisata guerra fredda e, al primo momento libero, affiancò la più giovane, che stava seguendo un ragazzo impegnato agli anelli.
   «Vera» disse a mo' di saluto.
   «Giovanna» rispose l'altra in tono incolore, senza distogliere lo sguardo dal sedicenne che si esercitava.
   Giovanna attese per un paio di minuti che Vera aggiungesse qualcosa, ma quando fu chiaro che la più giovane non avrebbe parlato, lo fece lei.
   «Bella camicia» buttò lì in tono casuale.
   Come prima, Vera neanche si voltò nella sua direzione. «Grazie».
   Fu a quel punto che la pazienza di Giovanna – notoriamente scarsa – finì.
   «Sei veramente cambiata tanto da portare rancore per una piccola discussione?» chiese a bruciapelo.
   «Simone, basta così: vai a fare stretching e poi passa agli esercizi a corpo libero» disse bruscamente Vera al ragazzo: Simone, che conosceva bene entrambe le donne, fu lieto di allontanarsi dal punto in cui con ogni probabilità, entro cinque minuti, sarebbe esplosa l'equivalente di una bomba. Quando furono relativamente sole, Vera si girò a guardare Giovanna.
   «Allora, Giovanna, cercherò di spiegarti il mio punto di vista, dato che nessuno sembra in­teressarsene tanto da tentare di capirlo» esordì con voce gelida, controllata. «Tutti quanti sembrate pretendere che io sia costantemente allegra, sorridente, accomodante, felice: esigete da me una perfezione che non ho mai raggiunto prima dell'incidente, figuriamoci adesso. Sono sempre stata perfida con chi ritengo mi stia infastidendo, capace di infuriarmi in tre secondi se qualcuno mi tocca un nervo scoperto, propensa a piangermi addosso nei momenti più difficili e stressanti, e nessuno ha mai preteso che io non fossi anche queste cose. Da quella maledetta notte di un anno fa, invece, sembra che chiunque abbia a che fare con me ritenga sia un mio dovere non provare nessun tipo di sentimento negativo, come se, in qualche modo, qualcuno mi avesse tagliato via la capacità di provare cose brutte insieme alla gamba. Be', non è così; non è così, e se poteste smetterla di aspettarvi da me qualcosa di impossibile, ve ne sarei davvero grata!»
   Giovanna la guardò in silenzio per un po'.
   «Con chi altro hai litigato?» chiese infine.
   L'altra la guardò, interdetta. «Che cosa...»
   «Hai detto più volte “tutti quanti” e “nessuno”, nel tuo discorso di poco fa. Non “tu”» la interruppe Giovanna. «Quindi la mia domanda: con chi altro hai litigato?»
   Vera alzò lo sguardo al soffitto e ne fissò i pannelli quadrati.
   «Ho litigato con Valenti» mugugnò un minuto dopo.
   «Il carabiniere che è venuto qui un paio di volte?» indagò la cinquantacinquenne. Quando    Vera fece un gesto affermativo, inarcò le sopracciglia. «Be', non è la prima volta che sei di malumore perché hai discusso con quell'uomo» aggiunse provocatoria.
   Vera si voltò di scatto a guardarla, l'espressione incredula. «Io non... non ho mai...» farfugliò indignata.
   «Sì che tu... tu hai...» la liquidò Giovanna agitando sbrigativa una mano, riuscendo nell'ardua impresa di contraddirla, schernirla e farle il verso in un'unica frase. «La domanda è: stavolta hai almeno un buon motivo per essere arrabbiata con lui? Perché l'ultima volta che lo sei stata in mia presenza, non ce l'avevi».
   «Tu sì che sai come tirare su di morale le persone» commentò sarcastica Vera.
   L'altra scrollò le spalle, noncurante. «Non era mia intenzione farlo, quindi tutto a posto».
   Vera scosse la testa: a volte ancora non riusciva a credere a quanto fosse rocciosa la personalità di Giovanna. Si grattò la fronte, pensierosa. «Mi ha detto delle cose non belle, ieri» disse lentamente. «Ma anch'io l'ho fatto, quindi non sono sicura di cosa provare. Una parte di me è ancora furiosa con lui; l'altra si sente in colpa per essere stata volutamente crudele». Sospirò. «Non ci capisco più niente».
   «In realtà, non c'è molto da capire» considerò Giovanna ad alta voce. «Si riduce tutto a una domanda: vuoi far pace con lui?»
   La ragazza affondò le mani nelle tasche dei pantaloni e lasciò vagare lo sguardo su chi si allenava.
   «Non so se sono pronta a perdonarlo» ammise lentamente. «Ma forse glielo devo».
   Giovanna le batté una mano sulla spalla. «Non è una decisione vera e propria, ma sempre meglio di niente» dichiarò prima di tornare al proprio lavoro; anche Vera tornò al suo e, anche se le costò un po' di fatica, riuscì a concentrarsi di nuovo sui ragazzi che stava allenando.
   Le ore trascorsero più rapidamente di quanto si sarebbe aspettata e presto arrivarono le sette; sollevata, Vera salutò i presenti e recuperò le proprie cose per andarsene. Quando uscì dalla palestra, fu sorpresa di trovare qualcuno ad aspettarla.
   Vittorio era appoggiato alla propria auto e scoccava sguardi nervosi alla porta della palestra; intanto, strusciava a terra gli anfibi e torturava il voluminoso mazzo di fiori che teneva in mano. Quando la vide, si staccò dalla carrozzeria e la raggiunse rapidamente, per non lasciarle il tempo di scappare.
   «Ciao» disse Vittorio. La ragazza batté le palpebre, confusa: non l'aveva mai visto così teso, e il suo silenzio sembrò innervosirlo ancora di più. Le tese i fiori con un gesto goffo. «Sono per te».
   Sempre senza parlare, Vera lo liberò dell’ingombrante fardello: una dozzina di girasoli, di un bel giallo vivace, la fissarono di rimando.
   «Perché?» chiese Vera.
   «Per chiederti scusa» rispose lui grattandosi il collo, a disagio.
   Lei scosse la testa. «No, volevo dire: perché i girasoli?»
   Per un brevissimo istante, Vittorio sorrise. «Mentre litigavamo, ieri, mi sono accorto che alla luce del sole i tuoi occhi diventano dorati; e in quel momento, con la pupilla scura al centro, mi hanno ricordato il colore dei girasoli» ammise, in imbarazzo.
   Vera distolse lo sguardo da lui per scrutare di nuovo i fiori; poi, senza neanche rendersene conto, sorrise con pura, inadulterata, totale felicità per la prima volta dopo un anno. Quando tornò a guardarlo, Vittorio si rese conto che anche alla luce del crepuscolo, gli occhi di lei brillavano come in pieno sole.
   «Grazie» mormorò Vera.
   Vittorio alzò una mano come per toccarle il viso, ma si fermò a metà strada e lasciò di nuovo cadere il braccio lungo il fianco, per poi farlo oscillare rigidamente avanti e indietro. Senza sapere cosa dire, prese a spostare ritmicamente il peso del proprio corpo dalle punte dei piedi ai talloni e viceversa, senza mai smettere di osservare Vera; lei preferì guardare il mazzo di fiori e accarezzò con la punta dell'indice i petali di un girasole, tracciandone il profilo.
   «Perché sei così nervoso, Valenti?» chiese piano. I suoi occhi rimasero ostinatamente appuntati sui girasoli. «Non sono più arrabbiata con te, sai. Non quanto ieri, insomma – neanche lontanamente».
   Il carabiniere ripiombò sulle piante dei piedi e smise di ondeggiare.
   «Io...». Vittorio si passò le mani nei capelli e strofinò ancora i piedi a terra, poi si fermò di colpo. «Va bene, adesso basta» sbottò; prese il volto di Vera tra le mani e lo avvicinò al proprio, guardandola fisso.
   «Ma che...» farfugliò lei, confusa.
   «Tu mi piaci» rivelò Vittorio, senza fiato. «Sei acida, sarcastica, certi giorni sei intrattabile e a volte mi fai imbestialire così tanto che mi strapperei i capelli – ma mi piaci, Vera, e non riesco a smettere di pensarci».
   Vera ricambiò lo sguardo dell'uomo per alcuni istanti, in silenzio, perfettamente immobile, mentre il suo cervello assimilava quelle parole; il mazzo di girasoli le scivolò tra le dita e finì a terra con un tonfo morbido.
   D'istinto Vittorio abbassò lo sguardo verso i fiori, ma prima che potesse dire qualcosa o anche solo capire cosa stesse succedendo, Vera lo afferrò per la maglietta, lo tirò verso di sé e schiacciò la propria bocca su quella di lui.
   Quel gesto folgorò Vittorio: per un momento rimase congelato sul posto, spiazzato tanto dall'audacia di Vera quanto dal fatto che lei avesse anticipato le sue stesse intenzioni. Poi divenne pienamente consapevole della pressione delle labbra di Vera sulle proprie; poteva percepirne la morbidezza e le screpolature della pelle sottile, il calore, il loro movimento appena accennato. Senza pensarci due volte, Vittorio infilò le dita tra i capelli della donna e le prese il labbro inferiore tra i denti per poi succhiarlo dolcemente.
   Vera lasciò la maglietta di Vittorio soltanto per circondargli il collo con le braccia; gli affondò le unghie nella nuca mentre faceva scivolare la propria lingua sulla sua in una carezza sensuale, che lui ricambiò prontamente.
   Quando si staccarono, parecchi minuti più tardi, entrambi erano senza fiato e incapaci di distogliere gli occhi da quelli dell'altro.
   «Be'» esordì incerta Vera, «è stato...».
   «... incredibile» concluse Vittorio.
   La ragazza si chinò e prese il mazzo di fiori abbandonato sull'asfalto; spazzolò ogni girasole con delicatezza, quasi volesse scusarsi di averli gettati a terra. Vittorio le spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e le accarezzò la guancia.
   «Non ignorarmi» mormorò.
   Vera alzò lo sguardo su di lui.
   «Non ti ignoro» replicò, sorpresa. «Sono solo... non avevo deciso di baciarti, è... è successo, e anche se sono stata io a fare tutto, non me l'aspettavo».
   La mano di Vittorio indugiò sul volto di Vera. «Sei pentita?»
   Senza esitare, Vera scosse la testa. «Per niente».
   E Vittorio le sorrise; le sorrise e, per la prima volta da quando si erano incontrati, sul suo volto non c'era traccia del suo carattere eccitabile. Le uniche emozioni presenti erano la stessa calma e la stessa tenue felicità che anche Vera stava provando, e quando salirono ognuno sulla propria auto, entrambi sentirono che qualcosa era definitivamente cambiato.
   
 
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