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Autore: ___Aliena___    08/07/2018    1 recensioni
"Il mistero dell'amore è più grande del mistero della morte. Non bisogna guardare che all'amore" ('Salomé', Oscar Wilde)
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In un tempo dove la Morte pretende di creare la Vita, che cosa resta all'Amore?
Brevi scintille di umanità che lanciano la loro luce nelle tenebre del Nuovo Mondo.
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«Medea, tu sai perché Watari ha deciso di chiamarti così?».
«Era il nome di mia madre».
«E poi?».
«Non lo so, non gliel'ho mai chiesto».
«Cos'è che distingue Medea da tutte le altre eroine tragiche?».
«Di certo non un destino più clemente».
«Alla fine della sua storia, Medea resta in vita. Ricordalo, perché dovrà essere lo scopo della tua esistenza. Tu devi vivere, Medea, non importa quello che accadrà a noi altri. Tu devi vivere».
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: L, Nuovo personaggio, Watari
Note: Missing Moments, OOC, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il nome
 
Che cosa c’è in un nome?
(“Romeo e Giulietta”, William Shakespeare,
atto II scena II)
 
 
 
«Che stai facendo, Ryuzaki?».
«Niente, non sto facendo assolutamente niente di particolare. Ascolto il suono delle campane».
«Le campane?».
«Già. Oggi però devo dire che fanno davvero un baccano assordante».
«Io non sento niente...».
«Dici sul serio? Eppure è da giorni che vanno avanti, è impossibile ignorarle. Deve essere una chiesa... forse c’è un matrimonio, o forse...».
«Ma che stai dicendo, Ryuzaki? Smettila con queste sciocchezze e torna dentro».
«Sai, Light, nemmeno lei riusciva a sentirle, ieri sera... ma è giusto così. Dimmi una cosa: se io ti chiedessi di non permetterle mai di udire questo suono, tu lo faresti, non è vero, Light?».
 
 
*
 
 
«E non tornerà mai più? E non tornerà mai più?».
Light spalancò gli occhi di soprassalto, venendo investito in pieno dal buio della notte. L’aveva sentita, era sicuro. Non s’era trattato del solito, diafano sogno che serpeggiava via dalla sua mente al sorgere del sole, questa volta era reale. Rimase in attesa con il fiato sospeso, sondando l’aria circostante come un predatore famelico.
«No, no, morto è il mio diletto».
La udì di nuovo, perfettamente. Non poteva averla immaginata.
«Misa» si chinò sulla modella avvinghiata al suo petto. «Misa, hai sentito anche tu?».
Lei mugugnò qualcosa nel sonno, scuotendo piano la testa e solleticandogli il pomo d’Adamo con i capelli sciolti.
«Riposa nel suo letto».
Light avvertì un tiepido languore lambirgli il basso ventre ed irradiarsi lungo il corpo. La ricordava, nonostante fossero passati anni dall’ultima volta che quelle stilettate argentine l’avevano trafitto, sapeva con tutto se stesso che quella voce non poteva essersi spenta, non ancora almeno.
Sollevò il viso al soffitto e gli parve di scorgere due iridi di pece sin troppo familiari che lo scrutavano intensamente, consapevolmente, quasi supplici. Piegò le labbra in un bieco sorriso.
Si liberò dalle braccia nude di Misa e si precipitò per le scale del suo appartamento, dirigendosi verso una piccola porta socchiusa da cui s’irradiava una tenue luce giallastra.
Erano trascorsi cinque anni dalla morte di L, cinque anni dal trionfo della vera giustizia e dall’avvento del regno di Kira sulla Terra. C’era riuscito, aveva trionfato e le voci del dissenso avevano pian piano iniziato ad affievolirsi. Proprio come la sua.
All’inizio non l’aveva notato, troppo occupato a studiare la sottile, necessaria arte della dissimulazione, quella che gli avrebbe permesso di svettare silenziosamente sulle teste di quanti lo circondavano. Celato dietro la maschera dell’agente di polizia, aveva assistito all’erompere di quella marea concepita nella noia e nutrita dagli spasmi dai condannati a morte; aveva gustato il nettare di un lento e implacabile trionfo che, a detta di Ryuk, aveva il sapore delle mele.
Era stato soltanto con il trascorrere del tempo che l’aveva percepita, quell’unica nota stonata in un requiem ineccepibile. Inizialmente s’era deciso a non eliminarla. No, sarebbe stato troppo semplice. L’avrebbe piegata al suo virtuosismo musicale, componendo così la melodia perfetta, un ultimo dono di scherno per la sconfitta del più geniale investigatore del pianeta. In fin dei conti, l’aveva chiesto proprio lui.
«E mai più tornerà...».
Un brivido gli trafisse la spina dorsale. Qualcosa era andato storto, qualcosa che non aveva calcolato: lo strumento s’era rotto all'improvviso e la nota aveva smesso di suonare.
Tutto aveva avuto inizio al funerale di L. L’aveva vista sbucare da un cespuglio di rose, le mani insanguinate strette sugli steli di fiori strappati senza cura, i capelli raccolti in una grossa treccia che le scendeva oltre le spalle scarne e il viso smunto, quasi lattescente, su cui spiccavano le labbra cremisi, umide.
S’era accostata ad una lapide e vi aveva poggiato dolcemente la fronte, accarezzando con un dito il nome inciso sulla pietra.
Quillsh Wammy.
«Hai freddo, papà?».
Soichiro Yagami aveva distolto lo sguardo con i pugni serrati. Light le si era avvicinato cautamente, sfiorandole piano la schiena. «Medea, lascia questi fiori, ti stai facendo male».
Lei l’aveva ignorato, limitandosi a spostarsi accanto ad un'altra tomba, quella che più di tutte aveva ricevuto le attenzioni degli agenti lì presenti. Era rimasta immobili per svariati istanti, gli occhi velati, indecifrabili. All’improvviso s’era portata una mano al viso e, afferrati gli occhiali, li aveva scagliati al suolo, pestandoli intensamente con un piede.
Matsuda era sobbalzato. «Medea, no!».
«È colpa tua, lo sai?» aveva parlato alla terra, alla polvere. «È sempre stata colpa tua... però io non ti odio... non ci riesco...». S’era voltata verso Light con un sorriso amaro, porgendogli il mazzo di rose selvatiche e macchiandogli di sangue i polsini della camicia. Non una sola lacrima le aveva solcato le guance. «Sono per lui, Light, un dono mio e tuo. Ne sarebbe felice, non credi?».
Non aveva più udito la voce di Medea. Da quel fatidico giorno s’era barricata in un ostinato silenzio, rifiutandosi di rispondere a qualsiasi domanda riguardante suo padre, L, il suo passato, il suo nome... Perché Medea non era il suo vero nome, Misa l’aveva confermato dopo aver effettuato nuovamente lo scambio degli occhi.
«E allora come si chiama?» aveva subito domandato Light, incapace di trattenere la bramosia.
Contro ogni previsione, Misa aveva fatto spallucce e s’era sottratta al freddo abbraccio del giovane. «Che importanza ha? In fin dei conti Ryuzaki è morto e lei non è pericolosa. Lasciamola vivere nel suo delirio».
Light era rimasto interdetto. Misa Amane aveva disobbedito ad un ordine. Per la prima volta. Non c’era stato modo di persuaderla, nemmeno quando aveva offerto a Medea una stanza nel suo appartamento, un luogo dove stare tranquilla, protetta. Braccata.
Misa l’aveva tenuta accanto a sé, aveva iniziato a comprarle vestiti, ad acconciarle i capelli, quasi nel tentativo inconscio di squarciare il velo invisibile con cui s’era coperta il volto. Una sera, risalendo dal lavoro, l’aveva udita confidarsi con Medea a bassa voce.
«Come hai fatto?» aveva chiesto la modella in un sussurro. «Come hai fatto a convincere Ryuzaki a permetterti di dipingere il suo viso nei tuoi occhi? Passano gli anni, ma lui è sempre lì, riesco a vederlo. Io con Light non ci sono mai riuscita. Come hai fatto? Non so nemmeno perché te lo sto chiedendo, in realtà. Ho come l’impressione che non potresti mai insegnarmelo, non è così?».
Era rimasto folgorato all’istante. Il calore che lo attanagliava seguito da brividi di gelo ogni volta che le passava accanto, l’odio che s’era sentito riversare addosso da quello sguardo miope eppure intenso quando era stato nominato dalla squadra secondo L, ogni cosa era improvvisamente divenuta chiara. Il requiem non sarebbe mai stato perfetto se lui non fosse stato scacciato da quegli occhi, se non avesse scoperto quel nome che ancora lo separava dal controllo assoluto. Era diventata la sua ossessione. Notte dopo notte aveva iniziato a sognare la voce di quella maledetta, singhiozzi strozzati che lo imploravano e gemevano un nome impalpabile e inafferrabile come lei. Ma presto sarebbe tutto finito. Lo sentiva nelle ossa.
Light strisciò all’interno della stanza come una serpe inquieta, lasciandosi scivolare nel caos di stoffe, libri e oggetti sparsi sul parquet. Medea era alla finestra, scalza come un tempo, i riccioli sciolti, le nocche bianche. Cantava. Un canto stridulo, cristallino e tagliente come vetro acuminato. Nessuna intonazione, nessuna tecnica. Soltanto istinto.
«E non tornerà mai più?
 E non tornerà mai più?
No, no, morto è il mio diletto,
riposa  nel suo letto
e mai più tornerà...
Bianca era la barba
bianca come la neve,
e lino la sua testa.
Se n’è andato, e quaggiù
Solo il pianto ci resta.
Della sua anima, mio Dio, pietà!».
Light tentò di accostarsi circospetto, ma lei parve percepire il suo odore perché si interruppe e si voltò di scatto. Un’ombra nera calò all’istante sulle iridi ambrate della giovane, un’ombra che conosceva molto bene.
Light rabbrividì.
Ryuzaki...
«Continua, non volevo interromperti» anni di bugie gli permisero anche in quell’occasione di reprimere il nervosismo. «È una canzone molto bella. L’hai scritta tu?».
Medea si catapultò di fronte alla specchiera, inciampando nei suoi passi. Incominciò a spazzolarsi malamente la chioma arruffata. Fremeva.
Light si guardò attorno. Sul letto troneggiava un logoro borsone da viaggio con una W ricamata in fili d’argento. Accanto, adagiata su una pila di vestiti, una lettera spiegazzata.
 
Adesso che sono qui, non ha più senso rimandare ancora.
Ti aspetterò, perché entrambi sappiamo che verrai. 
 
N
 
«Hai deciso di andare, dunque?» Light mantenne un tono neutro, privo di inflessioni che potessero tradirlo. «Non ti biasimo, è una tua scelta libera. Sai, in realtà avevo capito che l’avresti raggiunto sin dalla prima volta che si mise in contatto con il nostro quartier generale. Lo conosci bene, non è così?».
Medea non rispose. La stretta sulla spazzola si serrò maggiormente.
«Quando te ne andrai?».
Silenzio.
«Non voglio influire sulla tua decisone, ma io e Misa stavamo pensando di telefonare ad un oculista per farti preparare un nuovo paio di occhiali. Consideralo il nostro ultimo regalo. Mi permetterai di farlo?».
Medea posò la spazzola e si immobilizzò, quasi a soppesare quella proposta. Infine scosse lievemente la testa.
Light sospirò. «Come vuoi tu».
Passo dopo passo, era riuscito ad accorciare la distanza che li separava, trovandosi ad un palmo dalla sua nuca. Fermo in quella posizione, gli parve di percepire distintamente il sangue che le ribolliva nelle vene, il respiro che si insinuava nelle sue piccole narici e le gonfiava il petto, la prepotenza inebriante del suo profumo.
Terra bagnata e gigli.
 Le scoprì delicatamente un orecchio. «Credo di aver fallito, Medea. Il giorno che se ne andò, Ryuzaki mi chiese di tenerti al sicuro. Buffo, vero? Il suo ultimo pensiero è stato per colei che forse lo disprezza più di tutti». La sentì irrigidirsi, gli occhi sbarrati riflessi nello specchio. «Ma se tu te ne andrai, come farò a tener fede alla mia promessa? N ed io siamo entrambi in lotta contro Kira, ma è a me che lui ti ha affidato, ti ha messa in queste mie mani». Le sfiorò il collo, il pallido, soffice scrigno della voce. Avrebbe voluto frantumarlo lì, all’istante. «Ho davvero fallito, Medea? Non ho più niente da offrire al ricordo di Ryuzaki?».
Senza rendersi conto aveva aumentato la pressione delle dita, sgualcendo quella carne prima così liscia e inviolata. Medea si girò a fronteggiarlo, gli occhi strabuzzati per mettere a fuoco la sua immagine. E Light lo scorse di nuovo, questa volta nitidamente. Era lui, il suo sguardo, il suo spirito tornato a tormentarlo, a ribadirgli che non gli avrebbe permesso di trionfare.
Questo è il mio gioco, Ryuzaki.
Medea ansimò per la mancanza d’aria, tentò di divincolarsi da quelle spire. Gli afferrò i polsi debolmente. «Light...».
Light avvertì l’incendio divampare. Ce l’aveva fatta, lei aveva parlato per lui, come nei suoi sogni. Mancava soltanto il nome, quel dannato nome che le avrebbe fatto sputare a costo di soffocarla, di spaccarle la testa contro lo specchio. Soltanto allora anche l’ultima nota avrebbe suonato secondo le sue regole.
Le senti adesso le campane, L?
La tenne stretta, gli parve quasi di averla sollevata da terra. «Dillo, avanti».
«Light... lo sai... che gli Shinigami... mangiano soltanto... mele...».
Tutto si fermò all’istante. Light si tirò indietro inorridito, vide quel corpo accartocciarsi su se stesso ed esplodere in eccessi fragorosi di tosse che si trasformarono pian piano in una risata acuta, stonata.
Uscì dalla camera senza voltarsi indietro e corse immediatamente a lavarsi le mani.
Questo è il mio gioco, Ryuzaki, mio!
 
 
*
 
 
La stanza era buia, illuminata soltanto dalla luce iridescente dei monitor accessi. Medea chiuse gli occhi. Era come essere tornata indietro nel tempo, come se la morte non fosse mai entrata nella sua vita.
Ma non era così, lo sapeva fin troppo bene.
L’uomo dai capelli scuri le sfilò delicatamente il borsone dalle mani e si rivolse a quella che le parve una candida nuvola vaporosa accovacciata tra i binari di un trenino giocattolo.
«Signore» mormorò schiarendosi la voce. «lei è qui, proprio come aveva detto».
La figura voltò il capo candido e Medea trattenne il respiro. Un fresco balsamo le scivolò lungo la gola riarsa. «Nate...».
Il giovane abbozzò un sorriso e, tendendole la mano, la invitò a chinarsi accanto a lui. Le pizzicò delicatamente una guancia e lei fece lo stesso senza titubare. I contorni delle cose iniziarono a diventare più nitide, concrete, permettendo a ondate inarrestabili di ricordi di pervaderla e trasfigurare la sala in un brulicante corridoio della Wammy's House.
«È bello rivederti, Madison».
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
AVVERTENZE!
 
Quinto episodio della raccolta, un po’ sperimentale. Come al solito i personaggi, miei e non, danzano sulla carta per conto loro, dunque credo che tutti i gesti compiuti da loro siano simbolici.
Il dialogo iniziale tra L e Light è, ad eccezione della frase finale, ripreso da un episodio dell’anime, quello della morte di L.
La canzone cantata da Medea è invece la stessa che intona Ofelia nell’”Amleto” di Shakespeare quando impazzisce per la morte di suo padre Polonio.
Ho lievemente modificato il carattere di Misa Amane perché non ho mai creduto che fosse soltanto un’oca sciocca e persa per Light. È una ragazza con la sua fragilità, una fragilità che la risucchia pian piano, portandola ad attaccarsi anche inconsciamente all'unica persona realmente estranea al marcio che la circonda. 
Light in questo episodio è allucinato, vive un delirio quasi onirico, tutto suo, in cui troneggia l’ossessione per L. Non so se Medea abbia realmente iniziato a sospettare della colpevolezza di Light. Forse è solo una sensazione, forse è stata Misa o forse semplicemente non sopporta vederlo insignito del ruolo di L. A volte lei fa tutto da sola...
Il vero nome di Medea è Madison Wammy, che significa “battaglia vigorosa”.
Se volete un'immagine concreta di Medea, in questo episodio l'ho immaginata tenendo presente Helena Bonham Carter quando, giovanissima, interpretò il ruolo di Ofelia nel film di Franco Zeffirelli "Hamlet". Assieme alla Ofelia di Kate Winslet, quella di Helena è una versione che mi piace tanto, perché da a un personaggio dolce come Ofelia quel non so che di selvaggio, insito a mio parere proprio nella persona dell'interprete.
Ringrazio tutti quelli che hanno letto, leggono e leggeranno questa mia storia, nata in un momento di noia e diventata parte integrante di me. Presto si giungerà al termine e questo un po’ mi rattrista. Non so, forse più in là proverò a scrivere qualcosa sull'infanzia di Medea alla Wammy's House. Vedremo.
Grazie ancora per essere passati a curiosare.
Alla prossima!
 

 
   
 
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