La fata delle spighe di grano
Naruto non amava particolarmente la pioggia, non provava un grande
interesse per quelle piccole gocce d’acqua che cadevano dal cielo simili a
lacrime, quelle stesse stille salate che tante volte scendevano sulle sue
guance di bambino.
No, Naruto non dava alcun valore alla pioggia, al lavoro assiduo ed
instancabile che compiva con meticolosa ciclicità, la sua azione purificatrice
e benefica.
Come poteva comprendere la necessità e il bisogno della terra che
soddisfaceva?Che senza di essa non ci sarebbe stato cibo per il villaggio,
lavoro per i contadini e avrebbe causato fame e miseria?
Certo, avrebbe potuto capirlo se avesse voluto, ma era un bambino dopotutto e
come tale provava la naturale repulsione per ogni forma d’acqua e sapone,
per ogni pensiero che lo distraesse dai suoi giochi e dagli scherzi.
Era un bimbetto gaio, sempre allegro e di buon umore, spensierato e vivace,
entusiasta di ogni nuova esperienza, eccitato da ogni affascinante scoperta,
con quel sorriso aperto ed irresistibilmente ammaliatore, gli occhi brillanti
ed euforici.
Conquistava semplicemente. Era capace di catturare l’attenzione con la sola
esuberante presenza, captata anche a distanza a causa della squillante e frizzante
risata, eppure era tenuto a distanza, rifiutato, scacciato e denigrato da
tutti.
Avrebbe potuto disprezzare il cielo plumbeo, lo scialbo e triste manto
grigio che sembrava ricoprire ogni cosa, quel tempo nuvoloso e uggioso che lo
costringeva a ripararsi e ad interrompere i suoi passatempi, le corse all’aria
aperta, che distruggeva i suoi castelli di sabbia, ma soprattutto che lo
obbligava a trascorrere i suoi pomeriggi lì, a casa.
Casa.
Naruto la odiava, detestava tutto di quel monolocale buio, umido, sporco e vuoto.
Troppo vuoto per lui.
E mentre gli altri bambini, quegli stessi che lo allontanavano come un insetto
molesto, che non lo sceglievano mai come compagno di gioco, tornavano a casa
bagnandosi e sporcandosi con il fango, ma ridendo felici, perché sicuri di
trovarvi qualcuno, le amorevoli mani delle madri ad accoglierli e a sgridarli
con dolcezza e di poter ascoltare rapiti e orgogliosi le ultime missioni dei
padri, racconti straordinari, sogni di un futuro sereno e altrettanto bello, promesse
e speranze per il domani; lui vi tornava strascicando i piedi,
attardandosi il più possibile, sicuro di un altrettanto indiscutibile certezza.
Lì non c’era nessuno ad attenderlo impaziente sulla soglia della porta,
nessun pasto caldo appena sfornato e pronto per essere mangiato, niente e
nessuno.
Non avrebbe trovato nessuno, solo vuoto e freddo, quel gelo che permeava
in modo uniforme le pareti spoglie del suo appartamento rendendole ancora più
lugubri.
Era un luogo disadorno e malinconico. E silenzioso.
Troppo per lui, che in quella totale assenza di rumori, sbagliata ed insolita,
si sentiva oppresso, schiacciato dalla sofferenza che aveva nel suo cuore
lacerato.
Durante la giornata poteva ancora con la fantasia immaginare e sognare ad occhi
aperti, lasciarsi cullare da dolci e pie illusioni, fugaci ed effimere, brevi
quanto un battito d’ali, ma il castello costruito tanto faticosamente crollava
in uno sbuffo di cenere e nebbia appena varcata la soglia, trovandosi faccia a
faccia con la dura realtà.
Non aveva nessuno che si preoccupasse di lui, che gli augurasse il buongiorno,
che gli rimboccasse le coperte, che lo amasse.
Tutti i bambini che conosceva avevano una famiglia, ma lui no.
Lui era solo.
Avrebbe dovuto odiare la pioggia, perché lo obbligava a tornare nella casa
che disprezzava e da cui fuggiva disperatamene ogni mattina, ma non poteva.
Naruto aspettava con ansia che le luminose e soleggiate giornate, chiare e
limpide, brevemente intervallate da pioggerelline estive, cedessero il posto a
veri e propri temporali.
Ed essi, come rispondendo alle mute preghiere di quel piccolo e coraggioso
bambino, giungevano portando con sé le loro corti al completo.
Non erano semplici acquazzoni ciò che aspettava, ma i tuoni e i lampi.
A Naruto i lampi piacevano più di qualsiasi cosa avesse visto e conosciuto
dall’alto dei suoi cinque anni e mezzo, più di ogni giocattolo e svago, più
della cascata e del fiume, suoi rifugi segreti, più delle farfalle colorate che
si divertiva ad inseguire ed ancora più del ramen.
Ammirava i bagliori e le saette che squarciavano il cielo illuminandolo, il
loro sfolgorante splendore.
Erano fulgidi, abbaglianti, uno spettacolo di meravigliosa e brillante
bellezza, smaglianti e lucenti come il suo sorriso.
E adorava allo stesso modo i tuoni fragorosi che li seguivano, rimbombanti e
assordanti nella loro potenza e risuonavano nella sua stanzetta riecheggiando
con violenta intensità e furia.
Erano gridi di rabbia e di dolore come quelli che lui tratteneva in fondo al
cuore quelli?Non lo sapeva.
Con il naso schiacciato contro il vetro picchiettava le dita contando i secondi
che separavano un lampo dal tuono.
Una foglia..
Se avesse smesso di piovere, sarebbe potuto andare al fiume per vedere le
lucciole.
Due foglie..
E domani invece, andare ai campi e aiutare i contadini. Tra
pochi
giorni cominciava la raccolta del grano e loro non lo cacciavano
mai.
Tre foglie..
Magari quella mattina la bambina con le trecce era scappata vedendolo solo perché
sua madre l’aveva richiamata.
Quattro foglie..
Forse anche la signora dal fruttivendolo lo aveva urtato per sbaglio.
Naruto continuava a contare e intanto la pioggia scendeva a scrosci, bagnando i
tetti, le strade, i giardini e i prati di Konoha e anche il ramo di pero teso
verso la sua finestra, con le foglie nuove appena lavate dall’acquazzone
estivo.
Una in particolare era vicinissima, tanto da poterla toccare lì dal davanzale.
Sulla faccia interna, proprio su una nervatura laterale, era posata una grossa goccia
tremolante in un corteo di altre goccioline appena visibili.
Aveva tutta l’aria di una regina, così tronfia e sicura di sé, nonostante la
posizione precaria.
A guardarla bene, Naruto poteva scoprire in quella goccia tutto un mondo iridato
di riflessi e immagini, un ché di regale e di fatato in quella dignità, come le
fiabe che la sua vicina di casa leggeva sempre ai figli di sera per farli
addormentare.
E mentre pensava ai cavalieri, i draghi, le sirene e i demoni che popolavano i
suoi sogni, eccolo arrivare finalmente, ultimo, ma non per questo meno
meraviglioso e amato.
Il lampo!
Era così bello, così scintillante e luminoso, uno strappo nel cielo.
D’altronde come poteva sapere Naruto che anche suo padre era stato uno di quei
lampi a cui tanto era legato?
Si, suo padre Minato era stato un lampo, il Lampo Giallo di
Konoha, con gli stessi occhi azzurro cielo e la zazzera disordinata
dorata, mentre sua madre, la coraggiosa ed indomita Kushina, era stata un
fuoco vivo ed incontrollabile come il Tuono, energia pura ed indomabile,
con i capelli dello stesso colore intenso della coperta che stringeva con
forza intorno al suo corpicino, un bel rosso cupo che aveva qualcosa di caldo e
accogliente e sostituiva alla perfezione gli abbracci e le carezze che non
aveva mai ricevuto, se non in fasce.
Come poteva sapere Naruto che i suoi genitori lo avevano amato a tal punto da
sacrificare la loro felicità per proteggere la sua vita?
Semplice, non poteva e intanto rimaneva lì, ignaro ed inconsapevole di
avere rinchiuso nel suo corpo il demone della Volpe a nove code, di avere degli
eroi come genitori, di essere un eroe.
Fermo nel silenzio gelido di quella casa troppo vuota e fredda, attendeva
paziente il Lampo Giallo e il Tuono Rosso stretto nella sua coperta preferita.
***
“Il peggior peccato contro i nostri simili non è l'odio, ma l'indifferenza:
questa è l'essenza della disumanità.”
George Bernard Shaw
C’è un’ora del giorno in cui le cose assumono una dimensione inusitata,
quasi magica ed incantata.
E’ l’ora in cui il sole appena tramontato non ha ancora portato con sé
tutta la sua luce, che si sofferma e trema nell’aria come un velo leggero.
Gli alberi sembrano farsi più grandi, le voci risuonavano ovunque con tonalità
più chiare e sonore.
Si sentono le madri chiamare in casa i figli, che si attardano ancora a giocare
nei parchi e per le strade e fingono di non udire, tutto pur di restare un
altro po’ all’aria aperta mentre la sera inizia a dipingere il cielo con le sue
tinte scure.
I lampioni cominciano ad accendersi come fuochi d’artificio e si illumina qua e
là anche qualche finestra; alberi e case proiettano ombre lunghe e confuse.
E’ questa l’ora in cui pensieri e ricordi s’affollano più numerosi alla mente,
e un sentimento di dolce tristezza pervade e vince ogni cosa.
Ci si sente più buoni al perdono, scende nell’animo un’ondata di serenità che
aiuta e consola.
Le persone, uscendo da lavoro, finite le missioni e svolte le mansioni quotidiane,
si fermano qua e là a chiacchierare formando capannelli e riempiendo i bar; è
ancora presto per rincasare e aspettando la cena, che sarà pronta solo più
tardi, ci si scambiano opinioni sugli avvenimenti della giornata, si formulano
previsioni sul tempo che farà l’indomani, si lanciano saluti, si stringono
decine di mani, si chiacchiera del più e del meno, si ride e si scherza.
Il cielo è ormai completamente preda delle prime oscure avvisaglie della notte,
le stelle si accendono come grandi occhi splendenti.
L’aria non è ancora del tutto nera, ma assume un colore blu scuro, carico e
profondo.
Un vento leggero porta l’ultimo profumo del giorno che se ne è appena andato ed
è quasi un arrivederci mormorato sottovoce, un sussurro flebile e timido.
Era sempre così. Ogni sera, ogni singola, terribile sera la gente rincasava
lentamente, gli edifici si animavano di voci, cominciavano le conversazioni,
proseguite tra un boccone e l’altro e la luce dei lampadari si rifletteva su
posate e bicchieri, creando scintillii improvvisi che contribuivano
all’allegria dell’atmosfera.
E intanto fuori si levava la luna.
E lui era lì.
Fuori.
Solo, come al solito.
La familiare sensazione di gelo si impossessò di lui, un freddo che non aveva
nulla a che fare con il mite tempo di giugno, l’aria fresca della sera
sostituitasi al caldo torrido e afoso di mezzogiorno e del primo pomeriggio.
Ghiaccio che proveniva dal suo cuore e lo immobilizzava in una morsa dolorosa,
senza scampo.
Era sempre così e faceva male, dannatamente male.
Con gli occhi lucidi ascoltò ancora, invidioso ed infelice, il rumore lontano
delle risate provenienti dalle villette a schiera e non riuscendo più a
contenersi, cominciò a correre nella direzione opposta.
Non sapeva dove stava andando, ma non gliene importava, l’unica cosa che
desiderava in quel momento era fuggire, allontanarsi da qual dolore che lo
uccideva lentamente, quel mostro che lo stritolava e gli toglieva il respiro. Voleva
chiudere gli occhi e dimenticarsi di ogni cosa, di essere senza amici e senza
famiglia, di essere un cattivo bambino.
Era solo per quello?Perché era cattivo?Per questo i suo genitori
l’avevano abbandonato?
Con gli occhi ancora chiusi non si accorse del signore appena uscito dalla
taverna all’angolo della strada e gli finì addosso.
Ebbe appena il tempo di alzare la testa che fu investito da una serie di
rimproveri e accuse senza senso.
Senza scusarsi, come avrebbe fatto di solito, si voltò e ricominciò a correre
senza fermarsi più, a rimbombargli nella testa ancora le parole dure e aspre
dell’uomo contro cui si era scontrato.
“Piccolo maledetto delinquente guarda dove vai!”
Quattro figure ammantate di nero giravano intanto per l’appartamento deserto di
Naruto, facendosi largo tra i vestiti sporchi buttati a casaccio sui pochi
mobili presenti nelle stanze e gli avanzi di cibo sparsi sul pavimento.
Nella fioca luce della luna ad illuminarlo, l’ambiente appariva ancora più
deprimente e tetro di quanto già non fosse.
“Ma davvero il bambino abita qui?”
Il più vicino alla finestra da cui erano entrati, si voltò interrogativo verso
l’ombra accanto a lui, forse sperando che la risposta fosse negativa.
A replicare fu una voce femminile piuttosto seccata che stava osservando il
soggiorno con lo stesso nodo alla gola degli altri.
“Per la millesima volta, sì, ne sono sicura e non chiedermelo più!”
“E’ solo che..”
“Già, come può un bambino così piccolo vivere in questo modo?”proseguì una
donna, giovane come l’altra con una cadenza ed un tono più dolce, ma anche
triste.
Si piegò leggermente sulle gambe e con cura raccolse una coperta rossa a terra
di fianco alla sedia vicino al davanzale. Una lunga ciocca di capelli neri uscì
dal cappuccio, ma lei non se ne curò.
Accarezzò delicatamente la stoffa morbida e la esaminò lentamente come a
cercare qualcosa che la riconducesse al suo proprietario, che potesse farle
comprendere meglio il bambino che doveva averla stretta fino a poco prima, a
giudicare dal fatto che fosse ancora tiepida.
“Quanti anni hai detto che ha?”chiese di nuovo l’altro.
“Non più di sei.”
“E’ così piccolo.”soffiò la donna ancora inginocchiata.
“Ha l’età di Sasuke, Mikoto.”osservò l’ultimo dei quattro, come se ciò che
aveva appena detto bastasse a giustificare lo stato di abbandono in cui verteva
la casa.
Era l’unico a non aver aperto bocca da quando entrati e a differenza degli
altri in quel breve lasso di tempo aveva già fatto il giro completo del
monolocale scrutando ogni angolo alla ricerca di eventuali pericoli per il
bambino. Aveva ispezionato e controllato ogni oggetto e se non aveva parlato,
non era stato per indifferenza, ma solo per orgoglio.
No, non avrebbe mai fatto notare a nessuno cosa provava in quel momento e
questo perché era un Uchiha e come tale non avrebbe mai permesso alle
emozioni di prendere il sopravvento, di mostrarsi.
Eppure quanto grande era il desiderio di correre al palazzo dell’Hokage e
prendersela con qualcuno, cantarne quattro a quegli idioti incompetenti.
Strinse le mani a pugno con forza fino a quando le nocche non diventarono
bianche. Erano trascorsi sei anni, ma la rabbia rimaneva sempre, una
rabbia sorda e selvaggia che lo divorava e lo scuoteva.
Idiota.
Era morto.
Come aveva potuto?Come aveva osato?
Senza dire niente, senza raccontargli nulla.
E perché avrebbe dovuto?Loro non erano amici, pensò amaramente.
No, non lo erano mai stati, ma erano nemici, eterni ed antichi avversari.
E se ne era andato, scomparso in una nuvola di fumo nel mezzo della battaglia
che infuriava.
Maledetto bastardo.
E ora che rimaneva?Cosa c’era a ricordare il miglior rivale che avesse mai
avuto?
Solo quel bambino.
Naruto.
I capelli biondi ed i grandi ed ingenui occhi azzurri, lo stesso sorriso che
lui disprezzava.
Lo detestava. Si, odiava Minato Namikaze, ma allora perché gli mancava in quel modo?
Con la coda dell’occhio vide Yoshino tirare per le orecchie Shikaku ed uscire
silenziosamente a controllare i dintorni.
Pochi secondi e sentì la mano di Mikoto stringere la sua e poggiargli il viso contro
il braccio.
La sua dolce e piccola moglie dal cuore tenero, capace di capire ogni suo
pensiero con un semplice sguardo e di placarlo con la sola rasserenante
presenza.
“Saremmo dovuti venire prima..”
Osservarono insieme e senza guardarsi il degrado della stanza, dalle macchie di
umidità sui muri alla sporcizia.
“Voglio che sia felice.”
Rimase in silenzio, ascoltandone il respiro accelerato.
“Voglio che Naruto sia felice..Voglio vedere di nuovo gli occhi di Minato
brillare e Kushina sorridermi ancora, voglio..”
La sentì tremare e capì che stava piangendo.
Ricambiò la stretta e voltandosi se la strinse al petto, massaggiandole la
schiena scossa dai singhiozzi. Rimasero lì ad ascoltare insieme il rumore
nostalgico del vento, simile ad una ninnananna.
Il vento ci parla con un linguaggio sempre mutevole: a volte la sua voce si
riduce a un lieve bisbiglio, che porta con sé i trilli e i profumi della
primavera, a volte invece diventa un sibilo insistente e pauroso e
sovrasta il rumore della pioggia che scroscia violenta.
La voce del vento è un dolce ed insistente mormorio che porta le varie
espressioni della vita, un pianto sommesso o una risata fragorosa.
E in quel momento, tra il lento sussurrare della corrente, parve loro di
sentire le risate limpide di ragazzi, la risata di chi non ha paura del futuro,
di chi è felice senza un motivo preciso e non si preoccupa di nulla, di chi ha
nel cuore la splendida gioia di vivere e nelle orecchie la musica del sole.
Avrebbero continuato a cercarli e a trovarli, loro c’erano, erano lì, nel vento.
***
Dove era finito?
Si guardò intorno stropicciandosi gli occhi rossi e gonfi di pianto e non
riconobbe il paesaggio che lo circondava. Si era diretto alla cascata, ma
doveva aver sbagliato strada perché era arrivato ai campi.
La vecchia strada che aveva percorso aveva un’aria sonnolenta e pacata, tutta
rappezzata e sconnessa di buche. Calpestandola aveva alzato una leggera polvere
bianca e sottile che restò per breve tempo sospesa nell’aria quasi danzando,
per poi posarsi nuovamente al suolo.
Ai lati due fossi, ricoperti d’erba e di sterpi incolti e rigogliosi. Subito
dopo il fosso si ergeva uno steccato e aldilà di esso, si stendevano a vista
d’occhio i campi coltivati di grano, alberi da frutto, erba medica. Lontana
invece si intravedeva la montagna con i volti scolpiti dei quattro Hokage,
sempre lì a sovrastare.
Sotto il sole cocente di giugno, a far tremare i contorni della terra e del
cielo, le spighe erano maturate velocemente e le pianure e i declivi si erano
ricoperti del colore giallo brillante del grano, simbolo di ricchezza e
prosperità.
Presto ci sarebbe stata la mietitura e lui già immaginava i contadini,
paglietta in testa, fiasco di vino sotto il braccio e falce in pugno che davano
inizio alla loro opera fischiettando.
Le stoppie che volavano e i covoni ben attorcigliati che s’ammucchiavano.
Il sole a picchiare feroce e grosse gocce di sudore che calavano dalla fronte
sui loro occhi, deterse con le mani callose.
Unici rumori i motivetti canticchiati per sentir meno la fatica e il ritmico
alzarsi e abbassarsi della falce, instancabile nella sua danza leggera, che
calava sulle spighe superstiti.
Le spighe avrebbero reclinato il capo ad una ad una, senza opporre resistenza.
Un esercitò già vinto, che attendeva con pazienza la sua estrema ed ultima
sconfitta e piano piano i covoni sarebbero aumentati di numero.
Nell’immobilità e nella quiete che lo circondava, inspirò a pieni polmoni
l’aria colma del profumo della terra, un sentore penetrante e sottile d’erba e
di fiori.
C’era pace e una grande tranquillità in mezzo a quel mare di verde e alla luce
delle stelle e si avviò al fiume camminando lentamente, senza fretta.
L’acqua era tutta un luccichio e saltava di sasso in sasso come una cascatella di
gemme preziose.
Si scorgeva chiaramente il fondo, quasi completamente ricoperto di pietruzze
piccole e levigate; qua e là si distingueva qualche tratto sabbioso, una breve
distesa di piante acquatiche o l’improvviso abbassarsi del letto del fiume in
buche profonde e popolate di pesci.
Naruto osservava incantato tutta quell’acqua in movimento, che correva veloce e
senza fermarsi un solo istante, il succedersi inarrestabile e senza sosta delle
onde.
In realtà non si trattava di un vero e proprio fiume, ma agli occhi del bambino
quel piccolo serpentello d’acqua che avanzava timoroso e incerto, sembrava così
grande.
Rimase per un po’ a guardarne il lento procedere pacato e quasi solenne, ad
ascoltarne il lieve fruscio e poi si avvicinò ai canneti da cui un uccello
ripeteva incessantemente il suo verso.
Lo superò agile e sotto l’argentea pioggia di luce della luna e l’incessante
canto dei grilli poté osservare, in tutta la sua incantevole grazia ed eleganza
luminosa, la lenta ed ammaliante danza delle lucciole, pronte anche quella sera
a gareggiare con le stelle e a far festa insieme.
La luna era bassa sull’orizzonte e così larga che sembrava voler ingoiare il
cielo; era circondata da un alone di foschia che, come una nuvola di polvere
luminosa, ne rendeva i contorni meno netti e precisi.
D’un tratto sorse un vento inaspettato, ma leggero, carezzevole, quasi un
soffio profumato; gli alberi tremarono un istante, scuotendo le loro fronde e
l’erba s’inchinò in atto di riverenza.
Per un attimo cessò il canto dei grilli, ma subito dopo riprese con lena,
libero da ogni timore e sospetto. La luna sembrò farsi ancora più grande e
vicina: veniva voglia di allungare la mano e carezzarla.
Una profonda tranquillità pervase il cuore del bambino, mentre le stelle e le
lucciole diventavano sempre più luminose, e il cielo non bastava più a
contenere tanto splendore.
Quel brulicare incerto e tremolante di fiammelle accendeva nell’aria un
desiderio strano, quello di volare, di librarsi in volo, a raccogliere quella
manciata di stelle nel palmo delle mano.
E sorrise, con il cuore più leggero, e fu per lui come librarsi, prendendo
parte a quello spettacolo incredibile, tra mille colori e riflessi.
***
Sasuke si avviò a passo svelto verso la cucina, sentendo l’inconfondibile profumo
di frittelle e torta di mele che sua madre doveva aver preparato.
Entrò, spostando le leggere tende blu scuro con il simbolo di famiglia ricamato
sopra che facevano le veci della porta e si avvicinò al tavolo di mogano
laccato di nero apparecchiato di tutto punto, osservando soddisfatto le
pietanze già predisposte.
“Buongiorno” salutò, laconico come al solito prendendo posto, ben attento a
sollevare la sedia e a non graffiare o rovinare in alcun modo il pavimento di
legno.
La testa di sua madre fece capolino dai fornelli e lo gratificò con uno dei
suoi sorrisi dolci.
“Oh, buongiorno tesoro. La colazione è pronta, preferisci frittelle o torta?”
Non si era sbagliato. Scelse la torta di mele, la sua preferita e stava già
pregustando la sua fetta di dolce, versandosi una generosa tazza di aranciata
quando un’ulteriore domanda dellamadre lo costrinse a concentrarsi su qualcosa
che non fosse necessariamente il suo piatto.
“E tu caro?”
Suo padre, seduto di fronte a lui su un’alta sedia ebano, era completamente
coperto dal giornale aperto e sembrava tanto concentrato nella lettura che
rispose alla consorte con un semplice grugnito.
“Va bene. Due fette di torta per i miei uomini.”e gliele servì subito, tornando
poi veloce vicino al forno.
Sasuke non si stupì più del dovuto. Era abituato al carattere burbero e
scontroso del padre e dopotutto se la madre riusciva a capire e a tradurre i
suoi ringhi e brontolii in frasi di senso compiuto, lui non aveva alcun motivo
per lamentarsi.
Era di poche parole e allora?Lui stesso odiava le persone che parlavano troppo
o chiassose.
Fare colazione con suo padre che lo osservava nascosto dietro al giornale
pensando di non essere visto, era finita col diventare un’abitudine, un
piacevole modo per cominciare la giornata.
Assaporare in silenzio la torta di mele insieme era una delle poche cose che lo
facevano sentire vicino al genitore, tanto da provare a comprenderlo.
“Buongiorno Sasuke.”
Stava sorseggiando con calma il suo succo, ma il padre glielo fece andare di
traverso.
Tossì un paio di volte e lo guardò strabuzzando gli occhi.
Gli aveva parlato?!
Si girò da un lato all’altro dell’ampia sala pensando fosse uno scherzo, ma
incontrò solo un altro sorriso incoraggiante di sua madre che li osservava
divertita girando contemporaneamente le frittelle nella padella.
Boccheggiò un paio di volte non sapendo bene cosa dire.
Insomma suo padre non parlava mai, figurarsi a colazione appena sveglio!
Ok, si prospettava più difficile del previsto.
Però possibile che suo figlio, sangue del suo sangue, potesse essere così
irrimediabilmente tonto?
D’accordo, non conversava molto con lui, ma addirittura fare quella faccia.
Certo era, che non si distinguesse come perfetto oratore, come qualcun altro..
Dannazione!Quel bastardo di Namikaze pure da morto creava rogne!
Essere costretto a parlare, per di più di prima mattina..
Ci si metteva pure Mikoto poi, con quel sorrisino che non lo aiutava affatto,
ma lo faceva soltanto andare in bestia.
Sbuffò spazientito e si decise a fare la domanda successiva scritta sul
foglietto attaccato alla pagina del giornale che Mikoto gli aveva preparato la
sera precedente.
“A scuola come và?”
Sasuke lo guardò ancora più stralunato, ma finalmente rispose facendolo
piombare nel disagio.
“E’ finita il mese scorso.”
Perfetto!La sua adorabile mogliettina lo guardò ghignando e lui sentì crescere
il desiderio di mettere le mani intorno al suo collo da cigno, l’aveva fatto
apposta la maledetta.
Doveva rendersi ridicolo?Bene, allora l’avrebbe fatto con dignità.
L’unica cosa positiva, se in questo modo poteva essere definita, era il notare
che Sasuke non si trovasse più a suo agio di lui in quella situazione e anzi,
quanto sembrasse incredibilmente simile ad un pesce fuor d’acqua.
Certo, non lo rendeva pienamente soddisfatto la sua espressione lesso, però lo
inorgogliva vedere che come lui fosse un tipo irrimediabilmente taciturno.
Queste erano le gratificazioni della vita!
“Gli allenamenti?”
Vide il figlio sospirare di sollievo e smetterla di fissarlo come un pazzo
squilibrato.
Neanche avesse detto chissà cosa poi..
Doveva essere stato il caldo o qualcosa del genere, decise Sasuke. Insomma, la
scuola?Quando mai suo padre si era abbassato a fargli domande del genere?Mai,
appunto!
Almeno adesso la conversazione era tornata su binari ordinari e normali.
Entrambi però non avevano fatto i conti con la testardaggine della mater
familias che lanciando uno sguardo ammonitore al marito lo richiamò con voce
stucchevole.
“Tesoro perché non racconti a tuo padre cosa farete oggi tu e i tuoi compagni
di corso?”
E rivolta al marito, “Sai caro, oggi Sasuke e gli altri bambini andranno al
fiume.”
Sua madre aveva intenzione di assecondare quella momentanea loquacità?
Tanto suo padre si sarebbe limitato ad uno dei soliti ringhi, avrebbe
continuato a leggere tranquillamente il giornale e..
“E per quale motivo?”
Sentiva la bocca secca, ma questa volta rispose con più sicurezza.
In fondo quello non poteva essere peggio di stare ad ascoltare lo sciocco cicaleccio
delle bambine che lo seguivano sempre.
“Fa caldo.”spiegò semplicemente “L’acqua è fresca e bassa.”
“E non c’è pericolo per te, che non sai nuotare, di affogare, vero?”la voce di
Itachi appena entrato, risultò quanto mai fastidiosa alle orecchie del fratello
che si limitò a lanciargli un’occhiataccia.
Non sapeva nuotare e allora?Non è che avesse avuto molte probabilità per
imparare. Cosa doveva fare?Gettarsi dalla cascata?
Il ragazzino si avvicinò alla madre e le scoccò un bacio sulla guancia.
“’giorno, mamma.”
“Buongiorno, caro. Frittelle?”
“No, grazie, sono di fretta.”
“Dove vai?”
“Ad allenarmi. Ci vediamo a pranzo..”
Prese una mela dal cesto della frutta posto al centro del tavolo, scompigliò i
capelli a Sasuke, sapendo bene quanto gli desse fastidio ed uscì.
Sasuke che aveva sperato che quella specie di interrogatorio terminasse con
l’interruzione del fratello, vide le sue speranze infrangersi miseramente.
La madre, spietata ed inarrestabile, gli domandò implacabile “Quanti sarete,
Sasuke?”
E lui si ritrovò ancora invischiato in quello che non aveva capito cosa fosse.
Perché quell’improvviso interesse?
“Circa una decina.”
“Chi di preciso?”si costrinse ancora a chiedergli il padre.
“I soliti, credo. Shikamaru..”
“Il figlio di Shikaku Nara?”chiese ancora suo padre e Sasuke si limitò ad un
cenno di assenso prima di continuare “Choji Akimichi, Kiba Inuzuka, Shino
Aburame e alcune bambine.”
Fece una breve smorfia e poi continuò indifferente “Ah, di sicuro verrà anche
lui..”
“Lui?Lui chi?”chiese la madre.
“E’ un bambino strano e nessuno gioca mai con lui, non so per quale motivo
però.”
“Come si chiama, tesoro?”
“Non ricordo bene, mi sembra abbia a che fare con il ramen e i vortici.”
Fugaku vide la presa della donna intorno alla padella farsi meno salda e
abbassò gli occhi.
Era come sospettavano.
Avevano organizzato tutta quella farsa con lo scopo preciso di conoscere
il comportamento che i bambini assumevano nei confronti di Naruto e purtroppo
le sintetiche risposte di Sasuke mostravano chiaramente la situazione. Ben
istruiti dai genitori, i figli non si avvicinavano a lui isolandolo e
lasciandolo in disparte.
Nessuno sa essere spietato come i bambini a volte.
Fece per alzarsi avendo saputo ciò che gli premeva, ma lo sguardo di fuoco che
Mikoto gli rivolse, lo immobilizzò dove era.
“E tu tesoro?”
Sasuke alzò un sopracciglio, come non capendo ciò che sua madre volesse sapere.
“Ciò che ti sto chiedendo..”
Perché la sua voce sembrava così gelida tutto a un tratto?
“E’ se anche tu ti comporti allo stesso modo.”
Vide il padre guardarla sconcertato e non seppe cosa dire.
Ma cosa c’era nell’aria quella mattina?Cioè prima suo padre che dava i numeri,
poi sua madre che lo guardava trasformandosi in ghiacciolo..Davvero, forse
l’acqua era stata manomessa..
“Mikoto..”la richiamò Fugaku.
La donna sospirò profondamente e poi sorrise di nuovo tranquilla, la nube sul
suo volto ora scomparsa.
“Scusa tesoro, non importa..”
Sasuke, ancora in silenzio ad osservare quel tacito scambio di sguardi, decise
che era il momento giusto per andare.
Si alzò e dopo averli salutati ancora stranito, uscì dalla cucina.
“Si può sapere cosa avevi intenzione di fare?”
La moglie non gli rispose, continuando ad armeggiare con pentole e piatti,
facendo più rumore del solito e sovrastando la sua voce.
“Mikoto!”sibilò rabbioso.
Solo allora lei uscì, asciugandosi le mani nel grembiule bianco immacolato che
indossava, considerandolo appena, mentre contemplava il paesaggio fuori dalle
vetrate e intravedeva i campi dorati di grano.
Il grano.
“Allora?”
“Non ti sembra buffo?”gli chiese con voce incolore.
“Cosa?”
“Il fatto che noi probabilmente siamo gli unici genitori a non aver proibito a
Sasuke di parlare a Naruto e che nostro figlio abbia scelto in piena libertà di
non volerlo come amico.”
Di fronte al mutismo del marito, si voltò fino ad incrociarne gli occhi.
“E’ tuo figlio, uguale a te in tutto e per tutto, vero caro?”
Fece una breve risatina, scuotendo leggermente il capo e i lunghi e serici
capelli scuri le piovvero sul viso regolare, coprendole gli occhi d’ossidiana.
Li spostò su una spalla con un gesto deciso e proseguì, osservando deliziata
l’espressione granitica dell’uomo e la sua mascella irrigidita.
“Tutto questo non ti ricorda una situazione analoga?Qualcosa che è successo
circa venti anni fa?”
Il basso ringhio di Fugaku la fece ridacchiare. Era così facile prenderlo in
giro!
Si avvicinò al tavolo e si chinò sul suo viso baciandogli il naso. E intanto
fuori Yoshino toglieva con calma e senza essere vista la videocamera.
Se il suo scorbutico ed intrattabile maritino pensava scherzasse quando glielo
aveva detto il giorno prima, si sbagliava di grosso.
Non avrebbe mai perso l’opportunità irripetibile di registrare e tramandare ai
posteri Fugaku Uchiha in evidente difficoltà, mentre portava avanti un’amabile
discussione.
Qualche minuto più tardi, dopo essersi fatta ampiamente perdonare per le sue
indelicate battutine, Mikoto tornò in cucina e cominciò ad incartare svelta
l’ennesima scatola.
“E tutta quella roba per chi sarebbe?”
Si girò verso di lui, appoggiato su un fianco al muro, le braccia incrociate al
petto e le labbra piegate nel solito ghigno.
“Per il piccolo.”
Piccolo. Poteva essere solo lui. Non avrebbe mai chiamato Sasuke in quel
modo, ben sapendo quanto risuonasse offensivo alle orecchie del figlio.
“Mm, quando ci vai?”
“Dopo con Yoshino.”
“Lo sai vero che di questo passo lo farai diventare diabetico?”
Mikoto rise. “Forse hai ragione, ma non ho mai visto mangiare qualcuno tanto e
poi alzarsi e uscire come nulla fosse. Ha una digestione di ferro, proprio
come..”
Come Kushina.
Gli occhi le si velarono, ma lei scacciò con forza i brutti ricordi
concentrandosi nuovamente sul pacco che aveva tra le mani.
“Che farete oggi?”
“Avevamo intenzione di cambiare il letto.”
Strinse le labbra in una linea sottile, ricordando la stato disastrato del
materasso senza molle e macchiato.
“E magari montare il ventilatore e portare qualche quadro e tappeto per ravvivare un po’ la stanza. Spero per la
settimana prossima di riuscire a fargli arrivare la corrente, sempre che quei
maledetti tecnici giù alla cascata si sbrighino!Rimandano di giorno in giorno
senza far niente e io sto cominciando a perdere la pazienza.”
“Già che ci siamo allora perché non cambiare il pavimento o ridipingergli le
pareti?”chiese lui ironico. La vide spalancare la bocca in una perfetta circonferenza
e sgranare gli occhi.
Dannazione!Ora sì che si era messo nei guai.
Prima di essere sommerso, letteralmente, figurativamente e in tutti gli altri
sensi dai progetti della moglie, fece giusto in tempo a scagliare un numero
cospicuo di maledizioni contro l’odioso biondastro.
Dovunque fosse Namikaze, gli augurava con tutto il cuore di passare le
pene dell’inferno, come stava facendo lui a causa sua da settimane.
***
Naruto si diresse verso casa con passo stanco. Faceva caldo, tanto caldo
che sarebbe andato volentieri alla cascata o al fiume per farsi un bagno, ma
sapeva di non potere.
In entrambi i posti avrebbe trovato tutti bambini o ragazzi andati per lo
stesso motivo e non aveva alcun desiderio di stare da parte in un angolo a
guardare gli altri divertirsi.
Era metà pomeriggio ed era insolito che rincasasse così presto, ma era annoiato
e a questo punto meglio fare una doccia, no?Logica di ferro per un bambino.
Dopo un paio di giorni di fresco, intervallati da brevi acquazzoni, era infatti
tornato un clima afoso, più rovente di prima, che rendeva l’atmosfera di
piombo.
Il sole cocente si accaniva contro le case, che racchiudevano un poco di fresco
prezioso, e splendeva implacabile nel cielo senza una nube.
Le strade erano deserte, l’aria immobile e indifferente senza l’ombra di una
brezza leggera.
Nei giardini ben curati e negli ampi parchi, la luce filtrava adagio tra i rami
degli alberi, a rianimare le foglie, a renderle più verdi.
Perfino gli uccelli risentivano del calore e stanchi respiravano affannosamente
senza emettere il solito concerto di suoni e melodie.
Il suo appartamento era al terzo piano di una delle tante palazzine costruite
al fianco delle strade principali.
Una volta, sulla parete esterna che ora appariva nuda e spoglia, si arrampicava
l’edera che arrivava fino ai tetti, ma qualche mese prima i condomini al
completo avevano votato per l’abbattimento della pianta ed ora l’edificio
aveva, a suo avviso, un aspetto triste.
Salì le scale lentamente e aprì la porta con le chiavi nascoste sotto lo
zerbino.
Superò il corridoio buio, attraversò il salotto ed andò in cucina.
Lì i mobili arancioni e il pavimento piallato in legno e tirato a cera rilucevano
alla luce rosa e viola del tramonto.
Si avvicinò quatto al frigorifero e prima di aprirlo fece un respiro profondo.
Le sue speranze non furono infrante. Ad attenderlo faceva bella mostra di sé
una quantità spropositata di cibo: frittelle, riso, polpi, pesce secco e
verdure sottaceto, un tegame di oden e quattro o cinque ciotole di ramen.
Sulla torta di mele più vicina troneggiava un biglietto bianco. Poche parole
scritte con una grafia lineare ed elegante, femminile.
Spero che il ramen ti piaccia, la cena è nel forno e devi solo riscaldarla,
il budino di riso è nel frigo. Sogni d’oro Naruto.
Un bacio M.
Non c’era niente di particolare o speciale in quel messaggio, eppure quella
semplice frase gli fece battere il cuore e la strinse al petto, con gli occhi
sgranati e lucidi.
Fuori, nascosta dall’ombra del pero, Mikoto osservava la scena provando un
palpito d’amore e di affetto incondizionato per quel bambino, il figlio dei
suoi migliori amici.
Se solo avesse potuto abbracciarlo e consolarlo, ma con quel biglietto aveva
già superato i limiti che lei stessa si era imposta.
M., come mamma.
Naruto aveva cinque anni e mezzo, era ancora piccolo sotto alcuni versi e
adulto in altri, conosceva il dolore, la solitudine e l’odio sulla propria
pelle e allo stesso tempo si ritrovava completamente sprovveduto e alle prime
armi con cose altrettanto semplici come l’amore, l’amicizia e le premure di una
famiglia. Era un bambino, in tutto e per tutto e credeva di conoscere e di
poter governare il mondo intero, ma non era stupido e si era accorto che da una
settimana qualcosa era cambiato nella sua vita e in meglio.
I primi cambiamenti erano stati impercettibili, ma a poco a poco, tra il
rubinetto della doccia nuovo, gli sportelli della cucina e il frigo riparati, i
vestiti, i giocattoli e i pasti pronti, si era accorto di non essere più solo e
che qualcuno avesse cominciato a prendersi cura di lui.
E ora svegliandosi al mattino, era diventato più semplice affrontare i problemi
che prima gli parevano insormontabili come combattere l’ostilità e il rifiuto
del Villaggio.
Anche la casa era diversa, più colorata e luminosa.
A volte gli sembrava quasi di essere il protagonista di una favola ed era
felice perché, pur non potendola vedere né conoscere, chiunque fosse quella
persona, per lui era un dolce angelo che con la sua bontà e gentilezza rendeva
meno amari i suoi dolori.
E verso quella misteriosa donna, la sua benefattrice, così generosa nel
donargli l’affetto e la protezione che aveva sempre cercato, dopo la diffidenza
iniziale e la paura che fosse tutto un bel sogno, aveva cominciato a farsi
strada un sentimento di riconoscenza e di speranza per un futuro
migliore, un giorno in cui sarebbe stato acclamato e amato come un eroe.
Aveva deciso di ripagarla e così erano comparsi.
Per ogni regalo un fiore.
Sempre lo stesso e con lo stesso significato, gratitudine.
E ogni volta una campanula faceva capolino a salutarla e a rendere omaggio alla
donna, per Naruto ora non più sconosciuta, ma la fata delle spighe di grano.
Grano si, perché Mikoto lasciava sempre al posto di quei delicati boccioli,
spighe dorate dal gambo lungo, legate con un fiocco rosso e dalla fragranza
intensa.
Il profumo dell’estate, della vita e del sole, l’incanto dello scirocco e del
vortice, l’essenza dei suoi genitori, ma questo lui l’avrebbe compreso
solo molti anni dopo.
Prima!Oddio non ci credevo quando l’ho letto! E’ bellissimo e sono
felicissima ^^
Ringrazio di cuore hotaru per l’idea davvero splendida.
Il tris che avevo scelto è “Tuono di Giugno-lucciola-grano”.
L’idea che Naruto da bambino sia stato aiutato e non abbandonato a se stesso mi
piaceva e ho scelto Mikoto come fata perché, anche se qui non si capisce
e non entro nei particolari, ho immaginato potesse essere lei uno dei compagni
di squadra di Minato e che avesse conosciuto Fugaku proprio a causa della loro
rivalità e del rapporto conflittuale affetto-odio tra i due ragazzi.
Bacioni a tutti e ancora grazie a hotaru!