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Autore: Spoocky    12/07/2018    1 recensioni
Una tranquilla serata in famiglia ad Ashgrove Cottage viene interrotta dall'arrivo inaspettato di un vecchio amico bisognoso di aiuto.
La malattia che lo affligge non è che la punta dell'iceberg: un dolore più profondo lo sta consumando dentro.
Partecipa alla 26 prompt Hurt/Comfort Challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart [https://www.facebook.com/groups/534054389951425/ ] Prompt 9/26 Fiamma + 10/26 Assenza
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Missing moments in Patrick O'Brian'
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Il Disclaimer è al Capitolo I

Buona Lettura ^.^


Sollevato, anche se solo per poco, della dolorosa incombenza di assistere il proprio paziente, Stephen ritrovò la serenità necessaria a consumare il suo pranzo.

Non gli pesava per nulla il fatto di dover restare ore seduto al capezzale di un malato e il fatto che il sofferente in questione fosse un caro amico lo spingeva a farlo anche volentieri. Ma gli si spezzava il cuore a sentirlo invocare il nome della moglie che pensava ancora stesse per morire e la figlia che non avrebbe mai conosciuto ma la cui scomparsa aveva lasciato un vuoto tremendo nel suo cuore.
Non credeva che nessuno avesse mai conosciuto quel lato di Thomas Pullings e lui stesso si sentiva un invasore, un intruso in quella sfera intima e privata che faticava a comprendere ed accettare anche in se stesso.

Ne parlò con Jack ma senza dilungarsi in particolari che sapeva l’ufficiale avrebbe preferito tenere per sé, come avrebbe fatto se non fosse stato soprafatto dal delirio febbrile.
Il suo amico fu estremamente comprensivo e gli parve sinceramente dispiaciuto, tanto da promettere di fare un turno accanto al malato il prima possibile.
Furono i piccoli Aubrey, loro malgrado, ad offrire loro un piacevole diversivo da quei cupi pensieri.
Erano a metà della seconda portata, uno squisito stufato di vitello, quando i bambini entrarono nella stanza in processione come anatroccoli e si andarono a posizionare bene in riga accanto al padre, che non ebbe altra scelta se non concedere loro la parola.
Sapeva infatti che sarebbero rimasti a fissarlo in silenzio finché non li avesse ascoltati, sarebbe potuta durare ore.

“Sarebbe che vorremmo chiedervi il permesso di uscire a giocare in giardino, signore.”
“Fanny, tesoro, la signora O’Mara non ti ha forse insegnato a non iniziare le frasi con ‘sarebbe che ’?”
“Jack?”
“Eh?”
“Quella non è Fanny.”
“Ah! Non è lei?”
“No signore, io sono Charlotte!”
“Comunque, signore, sarebbe che il signor Killick inizia sempre le frasi con ‘sarebbe che ‘ !”
“Vedi, Charlotte... ”
“Sono Fanny!”
“Oh cielo! Scusami Fanny. Vedi, cara, tu non sei il signor Killick. Solo lui può farlo.”
“Perché?”
“Perché nessuno gli ha mai insegnato che non si fa. E, se qualcuno lo ha fatto, lui non lo ha capito.”
“E perché?”
“Perché...”

Ora Jack doveva misurare attentamente le parole perché c’era la certezza matematica che Killick sarebbe venuto a sapere di quella conversazione, o per bocca dei bambini o per vie traverse, e non voleva attirare su di sé l’ira di una creatura tanto permalosa e vendicativa. Lanciò un’occhiata verso Stephen, che però scosse la testa davanti a quella richiesta implicita di aiuto e continuò a mangiare con ostinata perseveranza, lasciandolo solo.
“Perché il signor Killick non è mai andato a scuola.” Niente di più vero, lo stesso famiglio non avrebbe avuto nulla da ridire su questo “Quindi non sa parlare bene... ma sono sicuro che se avesse potuto studiare parlerebbe anche meglio. Dovete ricordare sempre quanto siete fortunati a poter studiare e imparare le cose: tenetelo sempre a mente.”
“Ben detto, fratello.” Stephen se la stava ridendo sotto i baffi “Io stesso non avrei trovato parole migliori.”
Jack lo guardò male ma il provvidenziale intervento di George, che era rimasto in silenzio a succhiarsi il pollice fino ad allora, salvò il medico da una rispostaccia: “Quindi ci accordate il permesso di uscire a giocare, signore?”
“Ma sì, ma sì. Permesso accordato.”

Un inchino e due reverenze dopo i piccoli scapparono in cortile.
Nella sua lungimiranza Aubrey aveva però scordato la pioggia torrenziale del giorno prima ed il fango che aveva generato nei dintorni. Per sua fortuna Sophia si arrabbiava solo in circostanze estreme e, per quanto risentita dalla condizione dei bambini a fine giornata, non gliel’avrebbe fatta pesare.
Preservato Killick invece gli avrebbe tenuto il muso più del solito per una settimana a quella parte.
Perché spettava a lui l’ingrato compito di lavare i loro vestitini sudici.

Bussarono alla porta e Sophia ne uscì con il volto rigato di lacrime. Senza dire una parola corse dal marito e lo abbracciò forte.
Lui ricambiò, stringendola a se e accarezzandole dolcemente la schiena.
Non c’era bisogno di spiegazioni sul perché stesse piangendo: “Sta tanto male, amore. E’ spaventato come un bambino. Io ho provato a...”
“Shh! Cara la mia dolce Sophie! Stai tranquilla: sono sicuro che hai fatto del tuo meglio. Vedrai che presto starà bene. C’è Stephen con lui, adesso: se qualcuno può farlo stare meglio è lui.”

Con il cuore in gola, Stephen si fece strada nella stanza del malato.
Il respiro accelerato dalla febbre e qualche flebile lamento gli unici suoni nella camera.
Sedette accanto a lui e gli appoggiò una mano sulla fronte imperlata di sudore: ancora scottava. Quel gesto fu una scusa per accarezzargli i capelli e rimase di stucco quando l’altro cercò di seguire la sua mano, anelando il contatto.
Il cuore del medico ebbe una fitta perché nessuno meglio di lui sapeva quanto soli ci si sentisse mentre si giaceva a letto malati o feriti, mentre il mondo intorno si dissolveva in una macchia indistinta e il dolore imprigionava la coscienza in una bolla di sofferenza.

Pur presenti fisicamente si è assenti al mondo esterno e la vicinanza di altri esseri umani non viene percepita che come vaga e distante, come qualcosa che dovrebbe esserci ma in realtà non c’è.
Il paradosso di un’assenza nella presenza: perché nonostante la vicinanza fisica e i tentativi di conforto nessuno può partecipare attivamente alla dimensione del dolore che arde impietoso e brucia insieme alla febbre sia il corpo che l’anima, attivo e costante nonostante i medicamenti.
Impossibile da dimenticare e da ignorare.
Una solitudine bruciante, un calvario infinito.


Un tormento che in questo caso era esacerbato da un lutto recente, una perdita che avrebbe messo a dura prova chiunque ma che la febbre rendeva ancora più insopportabile.
Fu con la morte nel cuore che Stephen pose di nuovo il termometro tra le labbra del suo paziente.
Ancora una volta dovette sorreggerlo con una mano perché l’altro non aveva la forza di tenerlo in bocca.
103,1°F[1] fu il fatidico responso.

Era assurdo, pensò, assurdo che Pullings stesse rischiando la vita per la recrudescenza di una malattia contratta anni prima con tutte le peripezie e i pericoli mortali che affrontavano in mare ogni giorno.
Era ancora più assurdo che non potessero fare altro che passargli una spugna bagnata sulla fronte per alleviare le sue sofferenze.
Nel silenzio di quella stanza solitaria, pregò con tutte le sue forze che il Padre Eterno avesse pietà di quella povera anima e le concedesse presto sollievo.
 
Note:
[1] 39,5°C
  
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