Crossover
Segui la storia  |       
Autore: Registe    15/07/2018    4 recensioni
Tredici guardiani. Tredici custodi del sapere.
Da sempre lo scopo dell'Organizzazione è proteggere e difendere il Castello dell'Oblio ed i suoi segreti dalle minacce di chi vorrebbe impadronirsene. Ma il Superiore ignora che il pericolo più grande si annida proprio tra quelle mura immacolate.
Questa storia può essere letta come un racconto autonomo o come prologo della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
[fandom principale Kingdom Hearts; nelle storie successive lo spettro si allargherà notevolmente]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Anime/Manga, Videogiochi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 19 - Axel (IV)





Lo Spirito del Castello dell'Oblio





Il freddo del pavimento contro la sua guancia lo risvegliò con la gentilezza di uno schiaffo.
Un raggio di luce, forte ed abbagliante come non ne vedeva al Castello ormai da due anni, si infilò di prepotenza sotto le sue ciglia ed in quel momento Axel scrollò la testa con violenza cercando di riprendersi.
Si mise a sedere sul pavimento, costringendo gli occhi ad abituarsi alla luce calda di quel posto. La testa gli doleva più o meno come dopo una bella sbornia, ma era prontissimo a giurare di non aver bevuto nemmeno un bicchierino di alcolico nelle ultime cinque o sei ore. E, soprattutto, l’ultima cosa che ricordava era di star portando da mangiare al n. XI nella sua cella e di aver dato un morso ad una delle succulente mele rosse del vassoio.
Accanto a lui non vi era alcun vassoio, né mele o qualsiasi altra cosa commestibile.
Anzi, ad essere precisi non vi era proprio nulla che potesse anche solo lontanamente descrivere come familiare.
Sopra la sua testa non vi era il bianco assoluto del Castello dell’Oblio, ma un altissimo soffitto in tegole rossastre sostenute da travi di legno da cui pendevano enormi lampadari. La luce che lo aveva svegliato filtrava da una coppia di vetrate poste sui due lati della grande stanza in cui si era risvegliato, ed una di esse era socchiusa in modo da far passare aria: doveva essere pieno pomeriggio, perché il sole illuminava praticamente ogni angolo di quel posto. Il calore sulla sua pelle gli diede subito una sensazione di benessere.
La stanza avrebbe potuto ospitare più di duecento persone. Delle lunghe panche erano sparse per tutto l’interno, ed Axel si appoggiò ad una di queste per rimettersi in piedi; il legno scricchiolò sotto il suo peso, e fu l’unico suono che attraversò quel posto, fatta eccezione per il suo stomaco ed il rumore dei propri stivali contro il pavimento fatto di un marmo grigio e consumato. Stava per sedersi sulla panca per fare il punto della situazione, ma uno scintillio rubò del tutto la sua attenzione.
La statua di una donna dai capelli lunghi e fluenti poggiava i propri occhi al centro della stanza. Era stata scolpita in maniera perfetta, di una qualità mille volte superiore a quella delle statue del suo mondo, sbozzate ed essenziali per non distogliere l’attenzione dei fedeli. Se le statue della santissima Marin avevano un volto piatto ed inespressivo, quella figura di fronte a lui sembrava così viva da essere sul punto di piangere. Era rappresentata seduta su chissà cosa, avvolta da vesti lunghissime, e tra le mani stringeva una grande sfera butterata che appoggiava contro il ventre.
Stava per avvicinarsi a quella meravigliosa figura quando si accorse dell’altro, la statua di un uomo con i lunghi capelli ed i vestiti al vento. In sé l’aspetto lo colpì meno della figura femminile, ma la statua che brandiva nella mano destra lo attirò: era pietra, senza alcun dubbio, ma era diversa da quella utilizzata per rappresentare l’uomo e la donna. Sembrava quasi intagliata nel cristallo, e la luce che vi batteva dalla finestra la accendeva di riflessi rossi e dorati come se un piccolo sole si stesse formando sulla lama. Sarebbe stato pronto a giurare di non aver mai visto un materiale del genere –non che si considerasse un grande esperto- ma il desiderio di toccare quell’arma incandescente gli fece compiere tre passi nella direzione delle statue. Si mise in punta di piedi e la sfiorò, sentendo il piacevole calore della luce del sole filtrare dalla pietra ai suoi polpastrelli. “In che diamine di posto mi trovo?”
“Sinceramente pensavo me lo potessi dire tu …”
La voce improvvisa fece sobbalzare Axel, che ritirò subito la mano.
Dove fino a un paio di secondi non vi era stato nessuno, una figura sedeva su una delle panche. La voce era quella di un uomo, ma i suoi lineamenti erano nascosti da una spessa armatura di bronzo che lo ricopriva fino alla punta dei piedi. Non aveva prodotto alcun rumore per entrare.
La mano di Axel si riscaldò. “Chi cazzo sei?”
“Non è questa la domanda importante” rispose l’altro.
Axel lo squadrò.
Il metallo dell’elmo rendeva difficile definire il timbro della voce del nuovo arrivato. Vi era qualcosa che gli ricordò per un istante il tono del Superiore, ma non riuscì a definirlo con certezza. “Sai che fai davvero schifo a presentarti? Ah, immagino non sia nemmeno tanto importante dirmi dove cazzo sono finito e come cazzo ci sono finito …”
L’uomo in armatura si alzò. Lo superava almeno di un palmo, e le decorazioni appuntite sull’elmo rendevano enorme il loro divario. Il metallo della cotta venne colpito dalla luce riflessa dalla spada intagliata, dando l’effetto di un piccolo sole in procinto di illuminare la stanza. “Sei al tuo crocevia. Ogni essere vivente ne attraversa almeno uno”.
“Perfetto, adesso so che fai schifo anche a dare indicazioni … E, per tua informazione, non ho la più pallida idea di dove ci troviamo. Lo giuro!”
L’uomo in armatura volse la testa prima su di lui, poi si girò verso le statue. “Forse perché non è ancora arrivato …”
Axel sbuffò, stizzito, e prese le distanze.
La cosa continuava ad avere sempre meno senso. Per sicurezza si diede un bel pizzico sulla mano, ma l’unico risultato fu un livido.
Realizzò in quel momento che nella sala non vi era alcuna porta che conducesse all’esterno. Vi erano soltanto vetrate, poste peraltro molto in alto, ma non vi era alcun ingresso da cui l’uomo in armatura fosse potuto entrare senza infrangere almeno tre o quattro vetri. Picchiettò un paio di muri per controllare che fossero veri e non qualche strano tipo di illusione molto realistica, ma i mattoni avevano una consistenza … beh, di mattoni. Squadrò da sotto le punte dei capelli i movimenti del nuovo arrivato, che rimase in silenzio per tutto quel tempo osservando ogni sua mossa senza muovere un muscolo. Tese l’orecchio nella speranza che vi fosse qualche altro abitante di quello strano edificio, ma non vi furono voci o eco di passi che risposero alla sua preghiera.
Si chiese se qualcuno al Castello si fosse accorto della sua assenza.
“Premesso che tutto questo non sia un sogno –e potrebbe esserlo- … cosa intendi per il mio crocevia?”
“Ciascuno di noi è chiamato a fare una scelta. Chiunque, in qualsiasi momento della vita” disse la figura “Persino tu, Lea”.
Axel trattenne il fiato.
Erano passati diversi anni dall’ultima volta che qualcuno aveva pronunciato il suo vero nome. In pochi si erano mai curati di conoscerlo, e quei pochi erano al massimo ladruncoli, prostitute o mendicanti. Non era mai importato a nessuno, ed era abbastanza convinto che persino nell’Organizzazione fossero in due o tre a conoscerlo.
Non gli era mai piaciuto.
“Era un bel po’ che non sentivo quel nome” rispose, ostentando calma.
“Lea … Axel … due nomi, stesso destino”.
Axel lasciò che il fuoco formicolasse tra i suoi polpastrelli ed i guanti. Lo sconosciuto non aveva fatto alcun gesto minaccioso, ma nella sua intera figura vi era qualcosa di strano, di aggressivo. A prima vista non aveva armi, ma Axel sapeva fin troppo bene che non erano quelle a decretare il vincitore. “E il tuo destino ti sta aspettando fuori di qui. Io mi occuperò di farti da guida fino all’uscita”.
“Quindi c’è un’uscita …”
“Solo se tu lo vorrai”.
Axel sospirò, fissando intensamente la statua del guerriero nella speranza che gli cadesse la spada di mano e finisse su quel tipo misterioso e fissato con indovinelli utili solo a fargli saltare i nervi.  
La spada, ovviamente, non si mosse di mezzo millimetro.
Estese la magia del fuoco attraverso i muri e le vetrate, alla ricerca dell’energia degli altri Membri dell’Organizzazione; non vi era nessuno, nemmeno quell’imbecille di Demyx, quindi era chiaro non solo che non fosse più nel Castello, ma soprattutto che gli altri non avessero la più pallida idea di dove si trovasse. La situazione era così assurda che si accorse di non avere nemmeno troppa paura.
In fondo aveva fatto incubi molto più movimentati di un imbecille in armatura con il pallino degli enigmi.
“Ok, facciamo quello che cazzo ti pare” rispose seccato. “Ma se non mi farai tornare indietro sarà peggio per te”.
 


Si era sempre considerato piuttosto bravo ad orientarsi.
Nel paese dove era nato vi era un dedalo di vicoli così pieni di sterco e fango che nemmeno i sacerdoti osavano attraversare; era cresciuto tra quelle strade traboccanti di sorci senza nemmeno accorgersene, trascorrendo ogni giorno alla ricerca di un nuovo buco dove nascondersi dalle guardie o dagli altri ragazzi di strada, quelli più affamati e feroci di lui. Conosceva i tetti bene quasi quanto quei vicoli, ed avrebbe saputo raggiungere la piazza del mercato anche ad occhi chiusi.
Era stato uno dei pochissimi membri dell’Organizzazione a non essersi perso nei primi giorni di vita al Castello dell’Oblio –racconti di Xigbar e Xaldin sostenevano che Demyx avesse vagato per tre ore nei sotterranei prima di trovare le scale che portassero alla mensa- ed in tutte le missioni non gli era mai dispiaciuto andare in avanscoperta per esplorare posti nuovi.
Quel luogo, però, aveva qualcosa che non lo convinceva.
Da quando avevano lasciato la sala con le statue, imboccando una rampa di scale in pietra che li aveva condotti al livello superiore, Axel aveva deciso di girovagare a caso. Il tipo in armatura lo aveva liquidato con un secco “Fa ciò che vuoi” e si stava limitando a seguirlo come un’ombra incredibilmente rumorosa.
L’interno dell’edificio ricordava un castello, o forse un monastero. Era stato costruito con pietra buona, di quelle che si usavano solo nei templi più importanti del loro mondo, e non vi era nemmeno un granello di polvere. Aveva ficcato il naso in diverse stanze, quelle che sembravano una serie di dormitori, e per sicurezza aveva frugato un po’ nei cassetti senza però trovarvi nulla di interessante o di valore. Aveva trovato un po’ di indumenti, tuniche dai colori semplici e pezzi di armature di cuoio, tutte cose che potevano benissimo trovarsi nel loro mondo d’origine. Era chiaro che quella parte dell’edificio fosse adibita agli alloggi della servitù o dei soldati, eppure nessun essere vivente era apparso o aveva notato la loro presenza.
Avrebbe pensato ad un castello diroccato, ma ogni dettaglio, dai vestiti lasciati sulle panche un po’ alla rinfusa alle ciotole di cibo ancora tiepido, gli facevano pensare il contrario. Né sopra di loro, né sotto di loro, si udivano voci.
Un paio di volte aveva provato a gettare un’occhiata all’esterno. Le finestre erano niente più che delle lastre di vetro appoggiate contro grosse feritoie, ma il paesaggio fuori era un’anonima distesa erbosa con degli alberi verso l’orizzonte che avrebbe potuto trovarsi letteralmente ovunque, e non soltanto nel loro mondo. La luce del sole era sempre alta, come nel primo pomeriggio, e Axel si accorse che, nonostante fossero passate oltre due ore da quando aveva iniziato a girovagare lì dentro, la luce non aveva accennato a diminuire. Lungo il corridoio comune, quello che collegava le varie stanze, si era arrampicato su una sedia per sbirciare meglio il cielo, ma anche da lì non era riuscito a vedere l’esatta posizione del sole.
Le stanze si aprivano una dopo l’altra, tutte simili ma nessuna identica. Il corridoio, arredato con panche, armature e qualche arazzo, proseguiva in linea retta senza piegarsi nemmeno una volta.
“C’è qualcosa di strano in questo posto. Non mi piace” disse.
“Non deve piacerti”.
“Ma ammetti che questo corridoio non ha nulla di normale. Sono ore che proseguiamo praticamente dritti e queste stanze iniziano veramente a darmi sui nervi” bofonchiò, tirando un calcio distratto ad un tappeto. “Ma non dovevi farmi da guida? Ho visto cimiteri più allegri”
“Se non vuoi andare da nessuna parte non andrai da nessuna parte”.
Axel si fermò.
“Io voglio uscire di qui. Voglio tornare al Castello dell’Oblio”.
“Ne sei sicuro?”
Guardò di nuovo davanti a sé, lungo i mattoni e le finestre tutte uguali.
La prima cosa che gli venne in mente fu la smorfia furiosa di Saïx.
La bestiaccia senza ombra di dubbio in quel momento stava perlustrando il Castello alla sua ricerca, annusando le scale che stava percorrendo prima di raggiungere la cella del n. XI. Senza ombra di dubbio sarebbe andato su tutte le furie.
Probabilmente in quel momento avrebbero tutti pensato ad una sua scappatella, e magari Xigbar e Xaldin sarebbero andati a cercarlo in quel bordello su Ryloth che gli piaceva un sacco.
Sarebbe stato piuttosto difficile spiegare loro che un misterioso tizio in armatura lo aveva rapito e teleportato in un castello disabitato senza uscita con l’unico apparente obiettivo di portarlo ad un crocevia e riempirlo di domande prive di senso. Ad una cazzata del genere non ci avrebbe creduto nemmeno lui.
Almeno una decina di giorni in prigione se li sarebbe fatti tutti. “Non lo so …”
Sinceramente, chi gli avrebbe creduto?
A parte Roxas, ovvio, ma quel piccoletto ancora credeva agli dèi ed allo Spiromorfo cattivo anche dopo due anni lì dentro. Forse in mezzo a quella mandria di pazzi era l’unico che si stesse preoccupando davvero di cosa potesse essergli successo.
Avrebbe potuto contare nella buona fede del Superiore, ma il n. XI aveva ragione sul fatto che il loro capo fosse diventato un paranoico assurdo con quella storia dell’isolamento e della sicurezza. Per carità, Bocciolo di Rosa si era comportato da vero pezzo di merda con quella ragazza, ma a parte quello non aveva tutti i torti quando si lamentava del fatto che quel pianeta buio e freddo fosse più una tomba che una casa.
Così come era chiaro che il n. I era intenzionato a rimanere lì a marcire per tutta l’eternità, trasformando il Castello nel suo mausoleo personale.
Forse, se all’epoca avesse saputo che si sarebbe ridotto a vivere recluso in un castello bianco, pieno di libri, con un licantropo furioso e col divieto di uscire … chi lo sa, forse non avrebbe accettato l’offerta di quel bizzarro Radigata imbottito di soldi. All’epoca l’idea di non dovere più dormire in mezzo ai topi ed accontentarsi della spazzatura dei ricchi gli era sembrata un’offerta tutto sommato vantaggiosa. “Non ho un altro posto dove andare …”
“Certo che lo hai”.
La risposta lo colse impreparato. “E dimmi, ammasso di latta … dove sarebbe questo posto?”
“Tutto dipende se davvero lo vuoi raggiungere”.
Tanto è chiaro che mi trovo in un incubo …
“Suvvia, perché no? Purché non ci siano licantropi o Castelli giganti …” disse, divertito nel fissare la propria faccia riflessa nell’elmo dell’altro. “Dove devo andare?”.
“Dove si trova il futuro, Lea: sempre dritto”.
Axel si voltò di nuovo verso il corridoio, ma non riuscì nemmeno a guardare meglio perché nel fare un passo avanti inciampò su qualcosa di grosso.
Qualcosa che, era pronto a scommetterci le palle, non era certamente lì fino a qualche istante prima.
Stava per tirare un’imprecazione e dare un calcio all’oggetto contundente, ma fermò il piede a metà strada quando si accorse di cosa si trattasse.
Una persona era a terra, con la gola aperta a metà.
Il suo accompagnatore si avvicinò, rivoltando la figura con la punta dello stivale. “Lo conosci?”
Certo che lo conosceva.
Aveva diciassette anni quanto Aral Nasodizolfo aveva deciso di entrare con prepotenza nella sua esistenza. Un figlio di puttana di quelli veri, uno che riusciva a sopravvivere alle guardie o alle malattie quando tutti avrebbero dato venti monete d’argento per vederlo penzolare da una forca. Nel villaggio tutti sapevano che quell’avvoltoio aveva fatto il nido in una sezione delle miniere dove nemmeno i minatori più anziani scendevano -temendo che vi dimorassero le Ombre dello Spiromorfo- ma nessuno aveva il coraggio o la voglia di chiamare le guardie e stanare quel tagliagole.
All’epoca mettersi in combutta con quel tipo era un modo certo per ottenere o una morte rapida o un bottino con i fiocchi, e lui era stato abbastanza ingenuo dal credere che avrebbe ottenuto soltanto la parte relativa al denaro. Il furto degli incensieri d’argento al Sacerdote dello Scorpione in visita al loro piccolo tempio era stato un successo senza precedenti, e l’essere stato invitato da Nasodizolfo nel suo covo personale per dividere per bene la refurtiva gli era sembrata una buona idea, specie perché nessun altro, giù tra i vicoli, poteva vantare un alleato così forte.
Avrebbe avuto il suo rispetto, anche se aveva i capelli rossi.
E, se non fosse stato per la sua prontezza di riflessi, avrebbe avuto anche una bella tomba proprio sul fondo delle miniere. “Un tipo che ha cercato di farmi la pelle”.
“Immagino non gli sia andata molto bene”.
Si era voltato giusto in tempo, insospettito da un lieve tonfo proprio alle sue spalle. Non c’era nemmeno una luce lì sotto, ma non aveva bisogno di vedere per evitare il sibilo di una lama proprio dove l’istante prima vi era stato il suo collo. Gli era andato addosso senza nemmeno pensare, realizzando troppo tardi di aver abboccato alla trappola come il più grande tra i cretini.
Dopo tanti anni non riusciva a capacitarsi di come fosse riuscito a strappargli il coltello dalla mano. Puro istinto di sopravvivenza, forse. “Non avevo mai ucciso nessuno prima di lui …”
“Lo dici come se ti dispiacesse”.
Axel si voltò verso il suo interlocutore.
Non aveva ben chiaro cosa ci facesse il corpo di Nasodizolfo proprio ai suoi piedi, ma per la prima volta gli parve di riconoscere una lieve nota di interesse nella voce della sua guida.
“Non è questione di dispiacersi” rispose “O io, o lui. E, per tua informazione, sono piuttosto attaccato alla mia pellaccia”.
Fece per dargli un calcio, ma lo stivale trovò soltanto il tappeto ed il marmo del pavimento; si scansò quanto bastava per guardarsi intorno, ma il cadavere era sparito come era apparso.
E, proprio quando stava per lanciare un’imprecazione in grado di rimbombare per tutto il corridoio a venire, si accorse che un muro era comparso davanti al suo naso impedendogli di proseguire.
Accelerò il respiro, chiedendosi se per caso quell’incubo non lo avesse causato qualche erba allucinogena del n. XI.
Vide il suo compagno di viaggio appoggiarsi ad una parete lungo la sinistra, dove una rampa di scale saliva verso l’alto, illuminata da torce. “Che cazzo di magia stai facendo?”
“Sei tu a costruire questo posto, Lea. Nemmeno io so con certezza dove vuoi davvero andare”.
Si guardò di nuovo indietro, cercando il cadavere. Il corridoio che aveva appena attraversato era immacolato, e le scale sembravano l’unica via possibile.
Si accorse di tremare quando mise i piedi sul primo gradino di pietra.
Nessuno poteva sapere di Nasodizolfo. Nemmeno il Superiore.
Salì la scala a chiocciola col cuore in gola. L’idea di fare marcia indietro e provare a sfuggire al suo accompagnatore non sembrava una scelta furba, specie perché non aveva idea di cosa fare anche ammesso che fosse riuscito a tornare tutto intero al salone con le statue. E provare a tramortire l’energumeno sotto la corazza non si prospettava più facile di battere il n. V in una gara di sollevamento pesi.
L’odore di cadavere gli fu addosso non appena superò l’ennesimo pianerottolo.
La sua guida era ferma sui gradini, osservando un corpo accasciato contro la parete con una spada piantata nell’addome. “Anche questa è opera tua?”
“Immagino tu sappia già la risposta” mormorò.
I lineamenti di quel fante, spariti dalla sua memoria fino a quel preciso momento, ritornarono a galla dopo più di cinque anni di oblio. Dettagli insignificanti che credeva di aver rimosso. “Comunque sì. Stavo scappando dalla prigione, e questo imbecille aveva provato a dare l’allarme” disse. Si ritrovò a scuotere la testa, quasi come a scrollarsi il ricordo di quella sera.
Era scappato dalla porta sul retro, ed il suono martellante del suo cuore aveva coperto il gorgoglio dell’uomo agonizzante. “Ma se hai deciso di giocarmi qualche scherzetto facendomi vedere la gente che ho ammazzato … temo che il divertimento sia finito. Non ho ucciso nessun altro”.
“E allora quelli come li spieghi?”
Le scale finirono.
Nel momento esatto in cui Axel superò l’ultima curva si ritrovò in una seconda area, molto simile a quella dei dormitori attraversati poco prima ma meglio illuminato, con candelieri di bella fattura appesi al soffitto ed una tela grande quanto una parete raffigurante due navi che fluttuavano in cielo sotto quella che sembrava una stella di cristallo.
Ma per quanto gli occhi fossero tentati di contemplare ancora un po’ il curioso dipinto, le parole della sua guida lo costrinsero a fissare avanti.
Un corpo carbonizzato, disteso sotto un’enorme finestra, mandava ancora uno spiraglio di fumo. Poco più avanti, verso il margine della stanza, un’altra sagoma sembrava aver fatto la stessa fine. Nonostante lo spettacolo, Axel trovò l’odore quasi rassicurante.
Le fiamme avevano consumato completamente la figura, impedendogli di capire anche solo se si trattasse di un uomo o una donna, e qualsiasi abito avesse avuto indosso era ormai un ammasso di cenere irriconoscibile. Sapeva benissimo -ed il n. I non si era mai stancato di ripeterglielo- quanto fosse pericoloso il proprio elemento, quanto potesse essere incontrollabile anche per un mago ad esso affine; lo aveva scelto anche per quello, perché nessuno avrebbe avuto troppa fantasia di attaccar briga con uno in grado di carbonizzarti all’istante ma … non aveva mai fatto una cosa simile. Certo, una delle prime volte che aveva iniziato a dominare le fiamme aveva bruciato la punta dei capelli di Xigbar, ma a parte i piccoli incidenti si era sempre reputato in grado di controllare il fuoco alla perfezione, anche meglio di un demone.
Quei corpi non avevano l’aria di essere vittime di “incidenti”.
“Non li ho uccisi io” mormorò. “Me ne ricorderei”.
“Non puoi ricordare quello che non hai ancora fatto, amico mio”.
“Mi stai dicendo che sono prigioniero di un sogno dove una strana allucinazione mi sta facendo vedere il futuro?”
Non aveva mai ascoltato molto le lunghe dissertazioni che il n. IV ogni tanto teneva sulla genesi della magia, ma ricordava abbastanza bene la parte in cui il noioso scienziato sottolineava il fatto che non vi fosse nessun artefatto, nessuna sfera magica, nessuna strana lettura di carte o fondi di bevande che potessero svelare il futuro. Nel loro mondo i sacerdoti veggenti pullulavano come le formiche, ma era stato chiaro persino a lui che si trattasse di un nugolo di ciarlatani. “Tutte stronzate”.
“Non sei tenuto a credermi. Ad essere sinceri l’elaborazione di eventi futuri è piuttosto rara, ma non per questo improponibile. È chiaro che la tua vita sia stata priva di importanza fino ad adesso, dunque il crocevia si trova per forza avanti nel futuro. Sei interessante, Lea”.
L’uomo aveva parlato con un tono neutro. “Muoviamoci. Attardarsi in un posto simile non è una buona idea”.
Uscirono da quell’androne, percorrendo un secondo livello di corridoi.
La luce del giorno era intensa come quando avevano intrapreso quell’esplorazione, e dopo un paio di sale Axel di accorse di aver perso del tutto il senso dell’orientamento. L’edificio si snodava in maniera all’apparenza normale, ben diversa dal corridoio senza fine del piano di sotto, eppure parte di lui continuava a gridare segnali di allarme.
In ogni luogo che visitava vi era almeno un corpo.
Aveva smesso di contarli dopo la dozzina.
Ad ogni passo cercava di fissarne i dettagli nella testa, eppure ad ogni salone, ad ogni loggia i particolari gli sfuggivano proprio come quelle figure che svanivano proprio dopo che le aveva superate.
Era qualcosa di più di un incubo.
Non sapeva come, ma era certo di essere sveglio.
Così come era chiaro che la sua guida avesse accelerato il passo: se prima era rimasto in disparte, osservandolo mentre cercava di trovare una via fuori di lì, adesso l’uomo in armatura proseguiva più spedito, senza proferire nessuna di quelle frasi sibilline che aveva sputato al momento del loro incontro. Axel si ritrovò costretto ad allungare il passo per stargli dietro, ed un paio di volte riuscì a ritrovarlo solo perché il rimbombo metallico della sua corazza era il modo più semplice per rintracciarlo. Si accorse di essere più stanco del previsto, ma l’idea di trovare un’uscita gli diede abbastanza forze da seguire l’altro per ancora due rampe di scale, scansando i corpi che si succedevano.
Più saliva e più era convinto che qualcosa lo stesse sospingendo. Qualunque cosa lo stesse aspettando al termine di quel dedalo stava stuzzicando la sua magia, perché il potere delle fiamme gli correva nelle vene, attratto da qualsiasi cosa vi fosse in cima. Per poco non andò a sbattere contro la sua guida quando quello si fermò di punto in bianco davanti ad una stanza su quello che sembrava davvero l’ultimo piano del monastero. La porta ampia, intagliata con la rappresentazione di un disco solare, non apparteneva certo alla stanza di un abitante qualsiasi. Ai lati, scolpite nel legno, la statua di un guerriero e quella di un mago sembravano invitarlo ad entrare.
“I miei complimenti, Lea. Sei arrivato” disse l’altro. Si era bloccato davanti all’ingresso, toccando il battente della maniglia come se anche lui lo vedesse per la prima volta.
“Il tuo vero futuro inizia qui”.
  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Crossover / Vai alla pagina dell'autore: Registe