Fine o inizio?
Le strade di
Tokyo quella domenica di giugno erano invase da persone festanti di
tutte le
età.
C’era però una
ragazza che, chiusa nella sua stanza, quella mattina non aveva trovato
la forza
di alzarsi. Piangeva, soffocando le lacrime sul cuscino.
Il dottor
Agasa, con cui la ragazza viveva, aveva timidamente provato a bussare.
Non
aveva ricevuto risposta.
«Shiho, va
tutto bene?»
Il tono
preoccupato del dottore le fece male. Che sto facendo?
Così non farò che
ferire anche lui.
Si costrinse a
tirarsi su e si asciugò le lacrime con la manica del
pigiama. «Sì» rispose,
sforzandosi di mantenere stabile la voce. «Non ho sentito la
sveglia. Scenderò
tra poco, e sarà meglio che la sua colazione non contenga
troppi zuccheri».
Agasa emise un
sospiro di sollievo. La scusa di Shiho non reggeva – sapeva
benissimo che non
aveva bisogno di sveglie, si alzava sempre molto presto da sola
– ma almeno
sembrava essere abbastanza in sé da rispondergli,
addirittura da commentare la
sua alimentazione. «Ti aspetto».
Shiho si lavò e
vestì rapidamente. Raccolse i capelli, ben più
lunghi di come li portava un
tempo, in una treccia e uscì dalla stanza. Non era certa di
essere in grado di
affrontare il dottore.
Lo trovò in
cucina, seduto a tavola con una ciotola piena di frutta davanti. I
resti della
macedonia della sera prima.
In silenzio,
raggiunse i fornelli e preparò il caffè.
«Shiho, se vuoi
parlare…»
Ma lei non
voleva. «Mi dispiace» mormorò, sperando
che capisse.
L’uomo
sospirò.
Era difficile trovare le parole. La sua amata Shiho, cui voleva bene
come se
fosse stata sua figlia, non era mai stata molto espansiva, ma dal
fatidico
giorno di tre anni prima le cose erano solo peggiorate. Era stato un
periodo
complicato, per entrambi; lei aveva agito come un automa per mesi,
nonostante i
suoi tentativi di scuoterla.
Negli ultimi
due anni le cose erano un po’ migliorate, ma c’era
poco da fare:
nell’anniversario di quel giorno lei
tornava a chiudersi nel suo guscio,
a soffrire da sola.
Avrebbe voluto
che lei gli permettesse di condividere tutto quel dolore, anche
perché lui non
ne era certo immune, ma i suoi tentativi si erano sempre dimostrati
inutili.
Sapeva di non poterla costringere ad aprirsi.
«Ha chiamato
Sera-san. Voleva sapere se puoi uscire con lei oggi
pomeriggio».
La ragazza non
rispose. Finì il suo caffè tutto d’un
sorso, rischiando di ustionarsi la
lingua, e si alzò.
«Ho un impegno»
mormorò, dando uno sguardo all’orologio appeso al
muro della cucina. Erano già
le undici. «Non mi aspetti per pranzo».
«Dove…»
Il povero Agasa
non riuscì a finire; per Shiho recuperare la borsa ed uscire
di casa era stata
questione di pochi secondi.
L’uomo
sospirò.
Tu cosa faresti, Shinichi?
~
Shiho
s’inoltrò
nelle strade affollate della capitale senza pensarci due volte.
La sua
destinazione non era vicinissima, a piedi ci avrebbe messo almeno
mezz’ora, ma
non le importava – anzi, sarebbe stato meglio
così. Camminare era l’unica
attività che l’aiutasse a lasciare i pensieri
liberi di scorrere senza
soffermarcisi troppo.
Raggiunto il
cimitero non ebbe bisogno di chiedere informazioni. Conosceva a memoria
la
strada: le ci vollero meno di cinque minuti per raggiungere la lapide
che le
interessava.
Ci andava almeno
una volta a settimana, ma quel giorno era diverso; si sentiva peggio
del
solito.
Ignorò le
aquilegie che vi aveva lasciato durante l’ultima visita e
fissò lo sguardo sul
nome che vi era inciso. Le lacrime che aveva trattenuto fino a quel
momento
ripresero a scorrere, così come i ricordi.
«Ti
proteggerò,
te l’ho promesso».
Non sarebbe
dovuta andare così.
Non
riusciva a
crederci; dopo mesi di inseguimenti e sequestri, l’FBI stava
per mettere
definitivamente la parola fine all’Organizzazione.
L’edificio
davanti a lei era la base in cui si erano rifugiati gli ultimi due
membri
ancora in libertà, Gin e Vermouth. I due che aveva temuto di
più.
La
zona era
stata evacuata dai civili, erano stati fissati posti di blocco
tutt’intorno.
L’agente
Jodie
era entrata poco prima, seguita da Conan e una decina di altri agenti.
Lei
e Conan
erano lì perché in quella base c’era
anche un laboratorio, da cui avrebbe
potuto finalmente ricavare tutti i dati necessari alla creazione di un
antidoto
definitivo.
Se solo quel
giorno non fossero andati… Se solo non avesse ceduto al suo
impulso…
Improvvisamente,
era apparso Gin.
Come
aveva
fatto ad uscire dal palazzo senza che gli agenti se ne accorgessero?
Il
consueto
terrore assalì la scienziata: si paralizzò.
Tuttavia
sapeva
che se fosse semplicemente rimasta nell’auto
dell’agente Jodie non sarebbe
successo niente.
Lei
vedeva
l’assassino dal finestrino, ma lui non poteva vedere lei.
Si
abbassò
ancora di più, il battito a mille.
Poteva
restare
lì? Non avrebbe dovuto cercare di fermarlo?
Risuonò
uno
sparo, vide Gin cadere a terra.
Era
stato
ferito alle gambe.
Vederlo
a
terra, con una mano sulla ferita per tamponarla, la
rassicurò leggermente.
Ma
chi era
stato a sparare?
Shiho
alzò lo
sguardo, e non poté credere ai suoi occhi.
A
qualche metro
da Gin c’era Dai Moroboshi.
Il
suo terrore
svanì di colpo.
Che
ci faceva
lui lì…?
Socchiuse
lo
sportello. I due uomini non se ne accorsero, troppo concentrati
l’uno
sull’altro.
«Akai».
Gin
sputò quel
semplice nome con un’incredibile quantità di
disprezzo.
Il
mondo di Ai
andò in frantumi.
Dai…
Akai?
Il
fidanzato di
sua sorella era un agente dell’FBI?
Tutto
acquisì
di colpo un senso.
L’avevano
uccisa per questo.
Akemi
era morta
a causa di Dai… e ora lui era lì, a pochi metri
da lei.
Stava
persino
sorridendo.
«È
finita, Gin».
Ai
non si
accorse di essere scesa dalla macchina, né di aver raggiunto
l’agente.
Lo
fece e
basta.
«Tu…»
L’agente
dell’FBI abbassò lo sguardo su di lei.
«Non
dovresti—»
Non
finì mai la
frase.
Ai
fu riportata
alla realtà da uno sparo, lo stesso che
scaraventò Akai all’indietro.
Di
nuovo
cosciente della situazione, seppe che a
sparare era stato Gin.
Si
paralizzò
sul posto, incapace di muoversi.
La
risata roca
di Gin l’agghiacciò.
«Puoi
anche
girarti, Sherry».
Come?!
«Riconoscerei
il colore dei tuoi capelli in mezzo a mille altri. Sembra che ti debba
un
favore»
Cominciò
a
tremare violentemente, incapace di fare altro.
Si
girò, con
lentezza estrema, a osservare Gin.
Avrebbe
voluto
negare.
Non
riuscì ad
aprire bocca.
L’assassino
si
era tirato su alla meglio, ma doveva essere impossibilitato ad alzarsi,
perché
non l’aveva fatto.
«Ho
sempre
saputo che saresti tornata da me, Sherry».
Un brivido più
forte degli altri scosse Shiho. Si chinò di fronte alla
lapide, gli occhi
all’altezza del nome.
«Ai!
Allontanati da lui!»
La
voce di
Conan ruppe l’incantesimo.
Era
appena
apparso sulla soglia dell’edificio, la guardava sconvolto.
Riuscì
a
muovere un passo verso la macchina.
«Addio,
Sherry».
Gin
aveva
premuto il grilletto.
Ai
chiuse gli
occhi d’istinto; sapeva che lui non avrebbe mancato il colpo.
Stava
per
finire tutto, presto avrebbe raggiunto Akemi…
Il
proiettile
non la raggiunse mai.
Sentì
un
liquido caldo colpirle la schiena.
Si
girò al rallentatore,
inorridendo di fronte all’origine del getto.
Conan
era
davanti a lei. Non le ci volle molto a comprendere che a colpirla era
stato il
suo sangue.
«No!»
Lui aveva
mantenuto la sua promessa. L’aveva protetta, anche quando non
avrebbe dovuto.
Dopo tutti i
suoi discorsi sulla prudenza, aveva abbassato la guardia; si era
esposta a Gin.
Aveva commesso
un errore fatale, ma a pagare era stato lui.
«Promettimi…»
era riuscito faticosamente a dire Kudo, dopo che lei l’aveva
disteso
sull’asfalto vicino alla macchina.
Ai
stava
cercando disperatamente di tamponargli la ferita con le mani.
«Non
sforzarti.
Andrà tutto bene».
Doveva
andare
bene. Gli altri agenti si erano precipitati su Gin praticamente subito
dopo lo
sparo, un secondo troppo tardi. L’avevano disarmato.
Ai
aveva
gridato a Jodie di chiamare un’ambulanza, e la donna
l’aveva fatto.
«I
dottori
saranno qui tra poco… Devi resistere…»
Aveva
il volto
inondato di lacrime, che ricadevano sulle sue mani e si mischiavano al
sangue
del bambino.
«Perché
l’hai
fatto? Avresti dovuto lasciare che mi colpisse. È colpa
mia»
Conan
tossì,
sputando un po’ di sangue.
«Ho
promesso di
proteggerti» mormorò.
Era
un sorriso,
quello sul suo volto?
«Sono
felice di
esserci riuscito. Se avessi lasciato morire anche te… non me
lo sarei
perdonato».
«Non
parlare.
Devi risparmiare le forze».
Lui
non
l’ascoltò.
«Ascoltami,
Ai.
Devi promettermi…» si bloccò con una
smorfia di dolore. «…di continuare a
vivere. Anche se non ce la facessi. Non devi arrenderti,
o…»
Un
altro
attacco di tosse gli impedì di continuare.
Non
parlò più,
ma non servì.
Il
suo sguardo
sembrava gridare “Promettimelo!”, e Ai si
trovò ad annuire disperata.
Come
negarglielo?
Quando
l’ambulanza arrivò, Conan aveva già
chiuso gli occhi da diversi minuti; Ai
stringeva disperata un lembo della sua maglietta, chiamando il suo nome.
"Tu hai
mantenuto la tua promessa… ma io non ho mantenuto la mia."
Posò una mano
sulla lapide, coprendo Kudo.
«Mi dispiace,
Shinichi. Mi dispiace veramente…»
Aveva creato
l’antidoto e l’aveva assunto, in un tentativo di
adempiere quell’ultima
promessa.
“Shinichi
avrebbe voluto così”, le avevano detto, e in fondo
sapeva che era vero.
Eppure tutto
restava inevitabilmente sbagliato; quella vita non le apparteneva.
Il proiettile
di Gin avrebbe dovuto prendere lei. Shinichi
avrebbe dovuto riottenere
il suo corpo e tornare da Ran.
Già, Ran…
Anche la sua
vita era andata distrutta, quel giorno.
Shiho non era
più riuscita a sostenerne lo sguardo. Era convinta che la
karateka l’odiasse, e
le dava piena ragione.
Rimase lì ferma
a piangere davanti alla lapide per un po’.
Alla fine,
svuotata, si rialzò. Non ritrovò subito
l’equilibrio, dopo tutta
quell’immobilità.
Voltandosi
verso il cancello vide una figura che l’osservava a distanza.
Ancora lui.
«Vieni qui
spesso» constatò l’uomo avvicinandosi.
Se voleva
iniziare un discorso, difficilmente avrebbe potuto scegliere frase
peggiore.
«Anche tu, a
quanto pare» ribatté Shiho con voce dura. Era
già la seconda volta che
l’incontrava lì, quel mese.
Lui le sorrise
innocentemente. Mosse ancora qualche passo verso di lei e le porse
qualcosa.
Un fazzoletto.
Shiho lo fissò
in silenzio.
«Se vai in giro
così farai preoccupare più di una persona. Non
che sia un male, ma ho pensato
preferissi evitare».
La sua faccia
doveva essere un disastro; Shiho accettò il fazzoletto.
«Grazie»
mormorò.
«Non
c’è di
che» disse quello che ora conosceva come l’agente
Rei Furuya. «Sei qui per lui,
vero? Come sempre».
Lei non
rispose. Iniziò ad eliminare le tracce lasciate dal pianto
aiutandosi con lo
specchietto del portacipria che aveva in borsa.
Rei rimase ad
osservarla in silenzio finché non ebbe finito. Gli
ripassò il fazzoletto.
«Puoi tenerlo».
Shiho l’infilò
in borsa senza replicare.
«Era oggi,
vero?»
S’irrigidì a
quella domanda. Prese a fissare i sassi ai suoi piedi.
«Sì».
«Ma per te è
come se fosse successo ieri».
Rialzò di scatto
lo sguardo, portandolo su di lui. «Se anche fosse?»
domandò con una venatura
d’aggressività neanche troppo velata.
«So cosa si
prova, Shiho».
«Non credo
proprio».
L’agente fece
un sorriso amaro. «Quante persone pensi che abbia visto
morire, nel mio lavoro?
Quanti colleghi ho visto cadere nel corso di
un’operazione?»
Shiho strinse i
pugni. Non era la prima volta che Furuya aveva la pessima idea di
rivolgerle la
parola, ma era la prima che affrontava quell’argomento.
Durante i loro
precedenti scontri al cimitero aveva sempre parlato
d’altro, forse nel
tentativo di distrarla.
«Quanti di
questi colleghi si sono sacrificati per te, agente?»
domandò retorica. «Quanti
sono morti per un tuo errore? Quanti di loro
avrebbero potuto salvarsi
se tu semplicemente non avessi fatto niente?»
Tremava di
nuovo, ma stavolta era per la rabbia.
«Capisco. Non
riesci ad affrontare la situazione, quindi ti limiti a prenderti tutte
le
colpe».
La mano di
Shiho si mosse da sola, nel colpire la guancia sinistra di Rei. Non ne
ricavò
molta soddisfazione.
«Che ne vuoi
sapere tu? Chi ti credi di essere?»
«Un mio collega
è morto per me». Lo disse normalmente, senza
inflessioni particolari. «Voleva
proteggermi. Anche Kudo lo voleva, o sbaglio?»
Sentirglielo
affermare le procurò un’altra fitta. Non aveva
voglia di parlare con lui, né
con nessun altro, e non capiva dove volesse arrivare. Lo
superò, decisa ad
andarsene.
«È stata una
sua scelta».
Shiho si bloccò
all’istante.
Rei si era
girato verso di lei – che continuò a dargli le
spalle –, e seguitò a parlare.
«Puoi
biasimarti quanto vuoi, non cambierà niente. Si è
preso un proiettile per te,
ma non sei tu che hai deciso di usarlo come scudo. Ha potuto
scegliere».
«È stata una
scelta stupida» sibilò Shiho, serrando i pugni con
forza. Si voltò e fissò con
rabbia – o era disprezzo? – l’agente.
«E se non avessi commesso uno stupido
errore, non ci sarebbe stato bisogno di scegliere».
«Se, se… Se
Gin
non avesse sparato, lui non sarebbe morto»
commentò Rei impassibile.
Sentendo quel
nome, il volto della scienziata divenne una maschera di rabbia.
«Era ovvio che
mi avrebbe sparato. Se non fossi stata
così—»
Rei la fermò
con un cenno. «Qualsiasi “se”
è inutile, Shiho. È andata così,
punto. Devi
fartene una ragione».
Stava passando
il limite; nemmeno il dottor Agasa osava dirle cosa dovesse fare,
che
cosa gli faceva pensare di averne l’autorità?
«Non vedo
perché la cosa ti interessi tanto».
«Una volta una
donna si è offerta di mettere un cerotto sul mio orgoglio,
se fosse rimasto
ferito. Ero solo un bambino, ma ricordo che quelle parole inaspettate
mi
rassicurarono incredibilmente».
«Buon per te»
commentò fredda Shiho. «Non ha nulla a che vedere
con me».
«Quella donna
era Elena Miyano».
Fu come un
fulmine a ciel sereno per la scienziata; non si aspettava niente in
particolare, ma certo non che venisse tirata in ballo sua madre.
Mille domande
si affollarono nella sua mente, ma non ne lasciò uscire
nessuna.
Rei si avvicinò
e le poggiò una mano sulla spalla. Lei sussultò
al tocco, ma non reagì.
In quel momento
non ne era in grado.
«Te lo ripeto:
so cosa si prova. Tenerti tutto per te non ti renderà
più forte. Continuare a
isolarti significa vanificare il sacrificio del tuo amico:
così è come se foste
morti tutti e due».
«Non…»
la
debole protesta di Shiho fu troncata sul nascere.
Rei si
allontanò di un passo, infilò una mano in tasca,
pochi secondi dopo l’estrasse
e le porse qualcosa.
Un foglio di
carta. Senza sapere bene perché, con un gesto meccanico
Shiho l’accettò.
«Quando sarai
pronta ad andare avanti e vorrai parlarne, cercami a
quell’indirizzo. Ci sarò».
Le si accostò,
pronto a superarla, ma fu bloccato dalla voce della ragazza.
«Andare avanti»
aveva mormorato infatti Shiho con voce tremante. Si girò
verso di lui, di
nuovo.
Le lacrime
avevano ripreso a rigarle il volto.
«Pensi davvero
che possa andare avanti come se niente fosse?» gli
urlò contro con rabbia.
«Menzionando mia madre mi hai sorpresa, ma questo non cambia
niente. Ammesso
anche che tu l’abbia conosciuta, per me sei un estraneo. Non
so perché ti sei
messo in testa di aggiustare la mia vita, non mi interessa. Andare
avanti» le
tremò la voce e dovette fermarsi. «Andare
avanti» riprese, «sarebbe come
tradire Shinichi. Non importa cos’abbia pensato mentre si
poneva tra me e il
proiettile… nel momento in cui ha smesso di respirare, per
me è tutto finito».
Boccheggiò; le
sue emozioni non avevano avuto una forma definita, finché
non le aveva pronunciate.
Le faceva uno strano effetto. Guardò Rei con sguardo triste.
«Ho provato a fare
come voleva, sono andata avanti. Il mio corpo ne
è la prova. Non ha
funzionato, perché semplicemente non è
possibile».
Lui le rivolse
un’occhiata delusa. «Sei finita con i suoi respiri,
dici?»
Era sarcasmo
quello? Shiho non riuscì a stabilirlo. Non capiva neanche
perché fosse rimasto
lì ad ascoltare i suoi sfoghi; “Va’ via,
sono un caso perso”, avrebbe voluto
dirgli. Ma in fondo, in una parte di sé di cui non ammetteva
l’esistenza
nemmeno con sé stessa, che qualcuno le tendesse una mano in
tutta
quell’oscurità le faceva piacere. Poco importava
che questo qualcuno fosse un
arrogante agente della polizia segreta.
Tutto il resto
di Shiho, tuttavia, respingeva quell’offerta. Non
me la merito. Lui non
tornerà. È tutto finito.
«È proprio
quando si crede che sia tutto finito, che tutto comincia».
Quella semplice
frase scosse Shiho nel profondo.
Avrebbe voluto
ribattere qualcosa, qualsiasi cosa – non ci riuscì.
La speranza
celata nel suo cuore da anni aspettava solo quelle parole; stavolta non
le
sarebbe stato facile sopirla.
«Guardami,
Shiho».
Una volta
tanto, non mise in discussione il tono perentorio del suo
interlocutore. Non ne
era in condizione.
Il suo sguardo
freddo, deciso, la colpì.
«Non sei
pronta?» le chiese Rei, scrutandola. «Va bene. Puoi
farlo un po’ alla volta.
Muovi un passo alla volta, ma muoviti».
Shiho scosse la
testa: così non andava bene.
Perché doveva
succedere proprio quel giorno, no, in quel momento?
Era più
emotiva, più fragile del solito. Non era in grado di
affrontare quella
conversazione.
Incapace di
muoversi, di correre via, di fuggire dalla luce che le si era
improvvisamente
presentata davanti, Shiho restò lì ad attendere
il colpo di grazia.
Le arrivò solo
quando trovò il coraggio di guardarlo negli occhi.
«L’importante
è
non rimanere mai immobili».
~
Agasa non
avrebbe saputo dire perché, ma quando
Shiho, a sera inoltrata, rientrò,
lo percepì chiaramente: era successo qualcosa.
Lei non parlò e
lui non chiese niente, ma incrociando il suo sguardo la sua impressione
divenne
certezza.
Non era più la
stessa ragazza di quella mattina. Era diversa persino dall’Ai
che aveva
conosciuto prima della morte di Shinichi.
Nei suoi occhi c’era
una nuova luce.
Qualsiasi cosa
le fosse successa, il dottore non ebbe dubbi: le avrebbe cambiato la
vita.