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Autore: Mari Lace    15/07/2018    6 recensioni
Raccolta sperimentale di one-shot su coppie crack (e fanon). Verrete a scoprirle con me?
[Parlando di crack pairing, metto l'avvertimento OOC per sicurezza, ma l'idea sarebbe di non scivolarci.]
#1: Shiho/Saguru
«Non un altro Shinichi, per favore...»
Quando si rese conto di averlo detto ad alta voce era troppo tardi.

#3: Il ragazzo, con il gomito della giovane detective puntato alla gola ad impedirgli qualsiasi movimento, riuscì in qualche modo ad emettere una risata che, però, suonò alquanto forzata.
«È così che ringrazi il tuo salvatore? Non sei molto gentile», tentò.
{Sera/Kaito}
#5: Tu hai mantenuto la tua promessa… ma io non ho mantenuto la mia.
Death!character; Shiho/Rei
#7: Shinichi/Sonoko
«Usciamo?» ripete, soppesando quella parola. Suona così strana in bocca a lei. Sta pianificando il suo omicidio?
«Pensavi che ti avrei lasciato a deprimerti a casa? Che amica sarei? Su, muoversi!» ordina Sonoko. «Scemo» aggiunge, in uno sbuffo quasi affettuoso.

#8: Shiho Miyano/Ryusuke Higo
"Non c'è amore per i traditori, in questo mondo."
Genere: Fluff, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Eisuke Hondou, Kaito Kuroba/Kaito Kid, Ran Mori, Saguru Hakuba | Coppie: Shiho Miyano/Shinichi Kudo
Note: OOC, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Fine o inizio?


 

Le strade di Tokyo quella domenica di giugno erano invase da persone festanti di tutte le età.

C’era però una ragazza che, chiusa nella sua stanza, quella mattina non aveva trovato la forza di alzarsi. Piangeva, soffocando le lacrime sul cuscino.

Il dottor Agasa, con cui la ragazza viveva, aveva timidamente provato a bussare. Non aveva ricevuto risposta.

«Shiho, va tutto bene?»

Il tono preoccupato del dottore le fece male. Che sto facendo? Così non farò che ferire anche lui.

Si costrinse a tirarsi su e si asciugò le lacrime con la manica del pigiama. «Sì» rispose, sforzandosi di mantenere stabile la voce. «Non ho sentito la sveglia. Scenderò tra poco, e sarà meglio che la sua colazione non contenga troppi zuccheri».

Agasa emise un sospiro di sollievo. La scusa di Shiho non reggeva – sapeva benissimo che non aveva bisogno di sveglie, si alzava sempre molto presto da sola – ma almeno sembrava essere abbastanza in sé da rispondergli, addirittura da commentare la sua alimentazione. «Ti aspetto».

Shiho si lavò e vestì rapidamente. Raccolse i capelli, ben più lunghi di come li portava un tempo, in una treccia e uscì dalla stanza. Non era certa di essere in grado di affrontare il dottore.

Lo trovò in cucina, seduto a tavola con una ciotola piena di frutta davanti. I resti della macedonia della sera prima.

In silenzio, raggiunse i fornelli e preparò il caffè.

«Shiho, se vuoi parlare…»

Ma lei non voleva. «Mi dispiace» mormorò, sperando che capisse.

L’uomo sospirò. Era difficile trovare le parole. La sua amata Shiho, cui voleva bene come se fosse stata sua figlia, non era mai stata molto espansiva, ma dal fatidico giorno di tre anni prima le cose erano solo peggiorate. Era stato un periodo complicato, per entrambi; lei aveva agito come un automa per mesi, nonostante i suoi tentativi di scuoterla.

Negli ultimi due anni le cose erano un po’ migliorate, ma c’era poco da fare: nell’anniversario di quel giorno lei tornava a chiudersi nel suo guscio, a soffrire da sola.

Avrebbe voluto che lei gli permettesse di condividere tutto quel dolore, anche perché lui non ne era certo immune, ma i suoi tentativi si erano sempre dimostrati inutili. Sapeva di non poterla costringere ad aprirsi.

«Ha chiamato Sera-san. Voleva sapere se puoi uscire con lei oggi pomeriggio».

La ragazza non rispose. Finì il suo caffè tutto d’un sorso, rischiando di ustionarsi la lingua, e si alzò.

«Ho un impegno» mormorò, dando uno sguardo all’orologio appeso al muro della cucina. Erano già le undici. «Non mi aspetti per pranzo».

«Dove…»

Il povero Agasa non riuscì a finire; per Shiho recuperare la borsa ed uscire di casa era stata questione di pochi secondi.

L’uomo sospirò. Tu cosa faresti, Shinichi?

~

Shiho s’inoltrò nelle strade affollate della capitale senza pensarci due volte.

La sua destinazione non era vicinissima, a piedi ci avrebbe messo almeno mezz’ora, ma non le importava – anzi, sarebbe stato meglio così. Camminare era l’unica attività che l’aiutasse a lasciare i pensieri liberi di scorrere senza soffermarcisi troppo.

Raggiunto il cimitero non ebbe bisogno di chiedere informazioni. Conosceva a memoria la strada: le ci vollero meno di cinque minuti per raggiungere la lapide che le interessava.

Ci andava almeno una volta a settimana, ma quel giorno era diverso; si sentiva peggio del solito.

Ignorò le aquilegie che vi aveva lasciato durante l’ultima visita e fissò lo sguardo sul nome che vi era inciso. Le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento ripresero a scorrere, così come i ricordi.

«Ti proteggerò, te l’ho promesso».

Non sarebbe dovuta andare così.

Non riusciva a crederci; dopo mesi di inseguimenti e sequestri, l’FBI stava per mettere definitivamente la parola fine all’Organizzazione.

L’edificio davanti a lei era la base in cui si erano rifugiati gli ultimi due membri ancora in libertà, Gin e Vermouth. I due che aveva temuto di più.

La zona era stata evacuata dai civili, erano stati fissati posti di blocco tutt’intorno.

L’agente Jodie era entrata poco prima, seguita da Conan e una decina di altri agenti.

Lei e Conan erano lì perché in quella base c’era anche un laboratorio, da cui avrebbe potuto finalmente ricavare tutti i dati necessari alla creazione di un antidoto definitivo.

Se solo quel giorno non fossero andati… Se solo non avesse ceduto al suo impulso…

Improvvisamente, era apparso Gin.

Come aveva fatto ad uscire dal palazzo senza che gli agenti se ne accorgessero?

Il consueto terrore assalì la scienziata: si paralizzò.

Tuttavia sapeva che se fosse semplicemente rimasta nell’auto dell’agente Jodie non sarebbe successo niente.

Lei vedeva l’assassino dal finestrino, ma lui non poteva vedere lei.

Si abbassò ancora di più, il battito a mille.

Poteva restare lì? Non avrebbe dovuto cercare di fermarlo?

Risuonò uno sparo, vide Gin cadere a terra.

Era stato ferito alle gambe.

Vederlo a terra, con una mano sulla ferita per tamponarla, la rassicurò leggermente.

Ma chi era stato a sparare?

Shiho alzò lo sguardo, e non poté credere ai suoi occhi.

A qualche metro da Gin c’era Dai Moroboshi.

Il suo terrore svanì di colpo.

Che ci faceva lui lì…?

Socchiuse lo sportello. I due uomini non se ne accorsero, troppo concentrati l’uno sull’altro.

«Akai».

Gin sputò quel semplice nome con un’incredibile quantità di disprezzo.

Il mondo di Ai andò in frantumi.

Dai… Akai?

Il fidanzato di sua sorella era un agente dell’FBI?

Tutto acquisì di colpo un senso.

L’avevano uccisa per questo.

Akemi era morta a causa di Dai… e ora lui era lì, a pochi metri da lei.

Stava persino sorridendo.

«È finita, Gin».

Ai non si accorse di essere scesa dalla macchina, né di aver raggiunto l’agente.

Lo fece e basta.

«Tu…»

L’agente dell’FBI abbassò lo sguardo su di lei.

«Non dovresti—»

Non finì mai la frase.

Ai fu riportata alla realtà da uno sparo, lo stesso che scaraventò Akai all’indietro.

Di nuovo cosciente della situazione, seppe che a sparare era stato Gin.

Si paralizzò sul posto, incapace di muoversi.

La risata roca di Gin l’agghiacciò.

«Puoi anche girarti, Sherry».

Come?!

«Riconoscerei il colore dei tuoi capelli in mezzo a mille altri. Sembra che ti debba un favore»

Cominciò a tremare violentemente, incapace di fare altro.

Si girò, con lentezza estrema, a osservare Gin.

Avrebbe voluto negare.

Non riuscì ad aprire bocca.

L’assassino si era tirato su alla meglio, ma doveva essere impossibilitato ad alzarsi, perché non l’aveva fatto.

«Ho sempre saputo che saresti tornata da me, Sherry».

Un brivido più forte degli altri scosse Shiho. Si chinò di fronte alla lapide, gli occhi all’altezza del nome.

«Ai! Allontanati da lui!»

La voce di Conan ruppe l’incantesimo.

Era appena apparso sulla soglia dell’edificio, la guardava sconvolto.

Riuscì a muovere un passo verso la macchina.

«Addio, Sherry».

Gin aveva premuto il grilletto.

Ai chiuse gli occhi d’istinto; sapeva che lui non avrebbe mancato il colpo.

Stava per finire tutto, presto avrebbe raggiunto Akemi…

Il proiettile non la raggiunse mai.

Sentì un liquido caldo colpirle la schiena.

Si girò al rallentatore, inorridendo di fronte all’origine del getto.

Conan era davanti a lei. Non le ci volle molto a comprendere che a colpirla era stato il suo sangue.

«No!»

Lui aveva mantenuto la sua promessa. L’aveva protetta, anche quando non avrebbe dovuto.

Dopo tutti i suoi discorsi sulla prudenza, aveva abbassato la guardia; si era esposta a Gin.

Aveva commesso un errore fatale, ma a pagare era stato lui.

«Promettimi…» era riuscito faticosamente a dire Kudo, dopo che lei l’aveva disteso sull’asfalto vicino alla macchina.

Ai stava cercando disperatamente di tamponargli la ferita con le mani.

«Non sforzarti. Andrà tutto bene».

Doveva andare bene. Gli altri agenti si erano precipitati su Gin praticamente subito dopo lo sparo, un secondo troppo tardi. L’avevano disarmato.

Ai aveva gridato a Jodie di chiamare un’ambulanza, e la donna l’aveva fatto.

«I dottori saranno qui tra poco… Devi resistere…»

Aveva il volto inondato di lacrime, che ricadevano sulle sue mani e si mischiavano al sangue del bambino.

«Perché l’hai fatto? Avresti dovuto lasciare che mi colpisse. È colpa mia»

Conan tossì, sputando un po’ di sangue.

«Ho promesso di proteggerti» mormorò.

Era un sorriso, quello sul suo volto?

«Sono felice di esserci riuscito. Se avessi lasciato morire anche te… non me lo sarei perdonato».

«Non parlare. Devi risparmiare le forze».

Lui non l’ascoltò.

«Ascoltami, Ai. Devi promettermi…» si bloccò con una smorfia di dolore. «…di continuare a vivere. Anche se non ce la facessi. Non devi arrenderti, o…»

Un altro attacco di tosse gli impedì di continuare.

Non parlò più, ma non servì.

Il suo sguardo sembrava gridare “Promettimelo!”, e Ai si trovò ad annuire disperata.

Come negarglielo?

Quando l’ambulanza arrivò, Conan aveva già chiuso gli occhi da diversi minuti; Ai stringeva disperata un lembo della sua maglietta, chiamando il suo nome.

"Tu hai mantenuto la tua promessa… ma io non ho mantenuto la mia."

Posò una mano sulla lapide, coprendo Kudo.

«Mi dispiace, Shinichi. Mi dispiace veramente…»

Aveva creato l’antidoto e l’aveva assunto, in un tentativo di adempiere quell’ultima promessa.

“Shinichi avrebbe voluto così”, le avevano detto, e in fondo sapeva che era vero.

Eppure tutto restava inevitabilmente sbagliato; quella vita non le apparteneva.

Il proiettile di Gin avrebbe dovuto prendere lei. Shinichi avrebbe dovuto riottenere il suo corpo e tornare da Ran.

Già, Ran…

Anche la sua vita era andata distrutta, quel giorno.

Shiho non era più riuscita a sostenerne lo sguardo. Era convinta che la karateka l’odiasse, e le dava piena ragione.

Rimase lì ferma a piangere davanti alla lapide per un po’.

Alla fine, svuotata, si rialzò. Non ritrovò subito l’equilibrio, dopo tutta quell’immobilità.

Voltandosi verso il cancello vide una figura che l’osservava a distanza.

Ancora lui.

«Vieni qui spesso» constatò l’uomo avvicinandosi.

Se voleva iniziare un discorso, difficilmente avrebbe potuto scegliere frase peggiore.

«Anche tu, a quanto pare» ribatté Shiho con voce dura. Era già la seconda volta che l’incontrava lì, quel mese.

Lui le sorrise innocentemente. Mosse ancora qualche passo verso di lei e le porse qualcosa.

Un fazzoletto.

Shiho lo fissò in silenzio.

«Se vai in giro così farai preoccupare più di una persona. Non che sia un male, ma ho pensato preferissi evitare».

La sua faccia doveva essere un disastro; Shiho accettò il fazzoletto.

«Grazie» mormorò.

«Non c’è di che» disse quello che ora conosceva come l’agente Rei Furuya. «Sei qui per lui, vero? Come sempre».

Lei non rispose. Iniziò ad eliminare le tracce lasciate dal pianto aiutandosi con lo specchietto del portacipria che aveva in borsa.

Rei rimase ad osservarla in silenzio finché non ebbe finito. Gli ripassò il fazzoletto.

«Puoi tenerlo».

Shiho l’infilò in borsa senza replicare.

«Era oggi, vero?»

S’irrigidì a quella domanda. Prese a fissare i sassi ai suoi piedi. «Sì».

«Ma per te è come se fosse successo ieri».

Rialzò di scatto lo sguardo, portandolo su di lui. «Se anche fosse?» domandò con una venatura d’aggressività neanche troppo velata.

«So cosa si prova, Shiho».

«Non credo proprio».

L’agente fece un sorriso amaro. «Quante persone pensi che abbia visto morire, nel mio lavoro? Quanti colleghi ho visto cadere nel corso di un’operazione?»

Shiho strinse i pugni. Non era la prima volta che Furuya aveva la pessima idea di rivolgerle la parola, ma era la prima che affrontava quell’argomento.

Durante i loro precedenti scontri al cimitero aveva sempre parlato d’altro, forse nel tentativo di distrarla.

«Quanti di questi colleghi si sono sacrificati per te, agente?» domandò retorica. «Quanti sono morti per un tuo errore? Quanti di loro avrebbero potuto salvarsi se tu semplicemente non avessi fatto niente?»

Tremava di nuovo, ma stavolta era per la rabbia.

«Capisco. Non riesci ad affrontare la situazione, quindi ti limiti a prenderti tutte le colpe».

La mano di Shiho si mosse da sola, nel colpire la guancia sinistra di Rei. Non ne ricavò molta soddisfazione.

«Che ne vuoi sapere tu? Chi ti credi di essere?»

«Un mio collega è morto per me». Lo disse normalmente, senza inflessioni particolari. «Voleva proteggermi. Anche Kudo lo voleva, o sbaglio?»

Sentirglielo affermare le procurò un’altra fitta. Non aveva voglia di parlare con lui, né con nessun altro, e non capiva dove volesse arrivare. Lo superò, decisa ad andarsene.

«È stata una sua scelta».

Shiho si bloccò all’istante.

Rei si era girato verso di lei – che continuò a dargli le spalle –, e seguitò a parlare.

«Puoi biasimarti quanto vuoi, non cambierà niente. Si è preso un proiettile per te, ma non sei tu che hai deciso di usarlo come scudo. Ha potuto scegliere».

«È stata una scelta stupida» sibilò Shiho, serrando i pugni con forza. Si voltò e fissò con rabbia – o era disprezzo? – l’agente. «E se non avessi commesso uno stupido errore, non ci sarebbe stato bisogno di scegliere».

«Se, se… Se Gin non avesse sparato, lui non sarebbe morto» commentò Rei impassibile.

Sentendo quel nome, il volto della scienziata divenne una maschera di rabbia.

«Era ovvio che mi avrebbe sparato. Se non fossi stata così—»

Rei la fermò con un cenno. «Qualsiasi “se” è inutile, Shiho. È andata così, punto. Devi fartene una ragione».

Stava passando il limite; nemmeno il dottor Agasa osava dirle cosa dovesse fare, che cosa gli faceva pensare di averne l’autorità?

«Non vedo perché la cosa ti interessi tanto».

«Una volta una donna si è offerta di mettere un cerotto sul mio orgoglio, se fosse rimasto ferito. Ero solo un bambino, ma ricordo che quelle parole inaspettate mi rassicurarono incredibilmente».

«Buon per te» commentò fredda Shiho. «Non ha nulla a che vedere con me».

«Quella donna era Elena Miyano».

Fu come un fulmine a ciel sereno per la scienziata; non si aspettava niente in particolare, ma certo non che venisse tirata in ballo sua madre.

Mille domande si affollarono nella sua mente, ma non ne lasciò uscire nessuna.

Rei si avvicinò e le poggiò una mano sulla spalla. Lei sussultò al tocco, ma non reagì.

In quel momento non ne era in grado.

«Te lo ripeto: so cosa si prova. Tenerti tutto per te non ti renderà più forte. Continuare a isolarti significa vanificare il sacrificio del tuo amico: così è come se foste morti tutti e due».

«Non…» la debole protesta di Shiho fu troncata sul nascere.

Rei si allontanò di un passo, infilò una mano in tasca, pochi secondi dopo l’estrasse e le porse qualcosa.

Un foglio di carta. Senza sapere bene perché, con un gesto meccanico Shiho l’accettò.

«Quando sarai pronta ad andare avanti e vorrai parlarne, cercami a quell’indirizzo. Ci sarò».

Le si accostò, pronto a superarla, ma fu bloccato dalla voce della ragazza.

«Andare avanti» aveva mormorato infatti Shiho con voce tremante. Si girò verso di lui, di nuovo.

Le lacrime avevano ripreso a rigarle il volto.

«Pensi davvero che possa andare avanti come se niente fosse?» gli urlò contro con rabbia. «Menzionando mia madre mi hai sorpresa, ma questo non cambia niente. Ammesso anche che tu l’abbia conosciuta, per me sei un estraneo. Non so perché ti sei messo in testa di aggiustare la mia vita, non mi interessa. Andare avanti» le tremò la voce e dovette fermarsi. «Andare avanti» riprese, «sarebbe come tradire Shinichi. Non importa cos’abbia pensato mentre si poneva tra me e il proiettile… nel momento in cui ha smesso di respirare, per me è tutto finito».

Boccheggiò; le sue emozioni non avevano avuto una forma definita, finché non le aveva pronunciate. Le faceva uno strano effetto. Guardò Rei con sguardo triste. «Ho provato a fare come voleva, sono andata avanti. Il mio corpo ne è la prova. Non ha funzionato, perché semplicemente non è possibile».

Lui le rivolse un’occhiata delusa. «Sei finita con i suoi respiri, dici?»

Era sarcasmo quello? Shiho non riuscì a stabilirlo. Non capiva neanche perché fosse rimasto lì ad ascoltare i suoi sfoghi; “Va’ via, sono un caso perso”, avrebbe voluto dirgli. Ma in fondo, in una parte di sé di cui non ammetteva l’esistenza nemmeno con sé stessa, che qualcuno le tendesse una mano in tutta quell’oscurità le faceva piacere. Poco importava che questo qualcuno fosse un arrogante agente della polizia segreta.

Tutto il resto di Shiho, tuttavia, respingeva quell’offerta. Non me la merito. Lui non tornerà. È tutto finito.

«È proprio quando si crede che sia tutto finito, che tutto comincia».

Quella semplice frase scosse Shiho nel profondo.

Avrebbe voluto ribattere qualcosa, qualsiasi cosa – non ci riuscì.

La speranza celata nel suo cuore da anni aspettava solo quelle parole; stavolta non le sarebbe stato facile sopirla.

«Guardami, Shiho».

Una volta tanto, non mise in discussione il tono perentorio del suo interlocutore. Non ne era in condizione.

Il suo sguardo freddo, deciso, la colpì.

«Non sei pronta?» le chiese Rei, scrutandola. «Va bene. Puoi farlo un po’ alla volta. Muovi un passo alla volta, ma muoviti».

Shiho scosse la testa: così non andava bene.

Perché doveva succedere proprio quel giorno, no, in quel momento?

Era più emotiva, più fragile del solito. Non era in grado di affrontare quella conversazione.

Incapace di muoversi, di correre via, di fuggire dalla luce che le si era improvvisamente presentata davanti, Shiho restò lì ad attendere il colpo di grazia.

Le arrivò solo quando trovò il coraggio di guardarlo negli occhi.

«L’importante è non rimanere mai immobili».

~

Agasa non avrebbe saputo dire perché, ma quando Shiho, a sera inoltrata, rientrò, lo percepì chiaramente: era successo qualcosa.

Lei non parlò e lui non chiese niente, ma incrociando il suo sguardo la sua impressione divenne certezza.

Non era più la stessa ragazza di quella mattina. Era diversa persino dall’Ai che aveva conosciuto prima della morte di Shinichi.

Nei suoi occhi c’era una nuova luce.

Qualsiasi cosa le fosse successa, il dottore non ebbe dubbi: le avrebbe cambiato la vita.

 

  
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