Dal diario di Tifa…
Quella
sera, sedemmo tutti insieme nella hall dell’albergo
del Gold Saucer, parlando di quello che ci aspettava
il giorno dopo, dei pericoli che, nascosti dall’oblio del tempo, ci osservavano
e ci attendevano nell’ombra. Sulle tracce di Sephiroth,
eravamo giunti fino a quel punto, combattendo mille nemici e affrontando mille pericoli, sorridendo e piangendo amare lacrime. Ma nessuno, nemmeno uno di loro avrebbe mai pianto le
lacrime, quelle terribili e atroci lacrime che piansi io in quell’ultima
e triste notte.
Gli altri
parlavano, discutevano, si scaldavano dibattendo su ciò che avremmo
dovuto fare l’indomani, su tattiche, mosse, percorsi da seguire. Ma io non
ascoltavo, io non volevo più ascoltare parole che parlavano di guerra, di
morte, di battaglie: c’era solo una persona con cui avrei
voluto parlare, e quella persona mi stava fissando proprio in quel momento.
Incontrai i
suoi occhi verdi per un solo istante, e mi accorsi che anche lei pensava
completamente ad altro, che anche a lei, in quel momento, non importava nulla
né della Black Materia, né della Shinra,
nemmeno della Promise Land. Forse anche lei capì che i nostri sguardi erano
identici: entrambe stavamo sognando la stessa cosa,
entrambe avevamo la mente fissa sullo stesso pensiero, dentro di noi ardeva il
medesimo desiderio, un fuoco caldo e dolce che però a me faceva più male di
mille lame. Sapevo. Sapevo tutto. Sapevo bene che, sebbene i nostri sogni
fossero uguali, solo il suo cuore avrebbe trovato conforto e pace, mentre il
mio sarebbe stato inghiottito da un male più grande di ogni
altro, più grande dell’oscurità, più grande perfino di Sephiroth.
Quando
decidemmo di andare tutti a letto e ci alzammo, la
vidi andare verso le scale. Poi, improvvisamente, si girò e mi sorrise,
distruggendo completamente quel poco di forza che ancora mi restava nell’anima.
Rimasi lì, immobile, mentre lei saliva verso il piano di sopra, con il ricordo
di un sorriso che mi aveva trafitta come una crudele
spada, un sorriso che non avrei rivisto mai più. Fu allora che me ne resi
conto, fu allora che capii quanto triste fosse il suo viso: era consapevole che
quella sarebbe stata l’ultima notte della sua vita. Lei sarebbe morta, ma se ne
sarebbe andata con quella felicità che io non avrei mai provato, la felicità
che avevo sognato fin da bambina e che ora mi era stata portata via in un
lampo, spazzata via come una nave dal mare in tempesta da quella ragazza che
non riuscivo né mai sarei riuscita ad odiare.
Loro si
amavano, si cercavano, desideravano l’uno il corpo
dell’altra, attratti da una forza invisibile che, nel suo percorso, aveva
sfiorato anche me senza però scegliermi, lasciandomi in bocca il sapore di un
amore non corrisposto. Non potevo farci niente, ma quando mi chiusi la porta
della stanza alle spalle il mio cuore esplose dentro di me, i miei occhi si
bagnarono di un pianto disperato e tutto il mio corpo fremette in preda ad uno
spasmo tanto doloroso che credetti di morire. Strinsi
i pugni forte, fino a quando i palmi delle mie mani
non sanguinarono, tingendo di rosso il logoro tappeto su cui ero caduta in
ginocchio.
E poi li
sentii: due respiri affannati che procedevano quasi all’unisono, respiri che
poi si trasformarono piano piano in dolci gemiti di
piacere. Fu come se la mia anima fosse attraversata da un vento gelido,
insopportabile, e presi a tremare di quel freddo che solo la solitudine sa portare. Forte più che mai, una fitta
lancinante prese a percuotermi il petto, mentre tutti i miei sogni mi
scorrevano davanti agli occhi per poi svanire come sfuggevoli spiriti, quegli
spiriti che spariscono alla prima brezza della sera.
Presi ad
immaginare a cosa stava accadendo nell’altra stanza… vidi lui prenderla tra le braccia, baciarle il collo e accarezzarle
la pelle candida, sfiorarle i morbidi seni con la lingua. Non potevo
sopportare, a malapena riuscivo a respirare: il mio stesso corpo sembrava
essersi fermato completamente, il mio cuore non batteva, il sangue non mi
scorreva più nelle vene, come congelato da quel gelo infernale. Fu come essere lì con loro, relegata in un misero angoletto, mentre lei lo accoglieva dentro di sé e lo
scaldava con ogni centimetro del proprio corpo, donandogli tutto l’amore che
aveva nell’anima. Le loro mani strette l’una nell’altra, le loro dita
incrociate in un tenero abbraccio, quel movimento così dolce ma allo stesso
modo così intenso che, ad ogni secondo, li univa sempre di più, stringendoli
insieme in una promessa che sarebbe durata per sempre.
E poi,
improvvisamente, quella stanza svanì e nella mia mente apparve un altro luogo,
un altro tempo. Due bambini, seduti uno di fianco all’altra, guardavano il
cielo stellato insieme, tenendosi per mano e sorridendo con gli occhi che
brillavano di sogni e speranze. Ricordavo tutto perfettamente, sentivo ancora
il fresco venticello di Nibelheim sulla faccia, e il
calore del corpo di Cloud vicino a me, che mi
guardava con un’espressione vagamente triste. Non sapevo nemmeno se fosse vero
o solo fantasia, ma era il mio più bel ricordo.
E così,
mentre in Aeris e Cloud,
travolti dalla passione, trascorrevano la loro ultima notte insieme, io rimasi
lì, inginocchiata su di un tappeto nella stanza a fianco, senza mai smettere di
piangere, cullata da dolci memorie, soffrendo oltre ogni limite del cuore
umano.