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Autore: Anya_tara    18/07/2018    1 recensioni
" ... Lo guardo allontanarsi, con quel suo passo fluido ingannevolmente tranquillo, e invece rapido e spedito. La strana sensazione che mi ha preso prima torna, mi prende nel petto, al cuore, facendomi provare un improvviso, intenso calore.
Chi sei davvero, Alejandro? Mi sembra di conoscerti da sempre, eppure di te non so niente ".
La strana coppia in una versione ancora più strana. Almeno secondo la sottoscritta.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Capricorn Shura, Leo Aiolia, Scorpion Milo, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Bene. Ci siamo.
Onestamente, sono nervoso. Da morire. Sto cercando di non pensare in modo troppo lucido a quello che sto facendo, e che in fondo è soltanto una cosa sensata, almeno dal punto di vista economico.
Il peggio deve ancora venire.
Suono, sforzandomi di non notare come mi stiano sudando le mani. Appena il cancello esterno si apre, entro e faccio i pochi scalini fino alla porta d’ingresso.
Oh, ma guarda. Il batacchio ha la forma di una testa di leone … okay, è un po’ pochino per sentirsi rassicurati, ma di certo è un segnale positivo. Sopra, il sedici è altrettanto beneaugurante. Lo sapevo già, però ora che lo vedo fa decisamente un’altra figura.
Spero valga anche per il mio possibile coinquilino.
Mentre salgo i due piani di scale – davvero orrende, coperte di moquette grigio topo, obbligatoria a quanto pare per attutire il rumore dei passi- tutti i pensieri che ho cercato eroicamente di reprimere fin qui mi affollano la mente. Per esorcizzarli busso forte, forse troppo, dacché la porta è già aperta, come realizzo subito dopo.
E qui comincio a rabbrividire sul serio.
E se fosse un travestito? Una checca isterica? Uno di quei fighetti che si vedono nelle serie tv e captano se uno è gay o meno in mezza occhiata?
Oddio no, davvero, non ci posso pensare. Lancio uno sguardo alle scale … forse sono ancora in tempo a sparire.
Ho procrastinato troppo. La porta si apre del tutto, e davanti a me c’è un giovane uomo bruno, alto all’incirca quanto me, con addosso un dolcevita nero e un paio di pantaloni della tuta grigio scuro. Porta degli occhiali dalla montatura leggera.
Oh, be’, se non altro, niente boa di piume di struzzo rosa shocking o pashmine verde acido. E già mi tranquillizzo un attimino.
Ma forse aspetta di venire rassicurato anche lui. << Ehm … ciao. Io sono … >>.
<< L’aspirante coinquilino. Piacere, Alejandro >>. Mi porge la mano, che prendo nella mia senza alcuna esitazione.
Ha una bella stretta calda, virile. Come la voce. Anche se non sorride, basta questo a farmi sentire benaccetto. E ovviamente, la curiosa casualità. << Ti chiami come me >>, osservo.
Gli occhi dietro le lenti hanno un guizzo, prima di restringersi in due fessure indagatrici. << Sì? >>.
<< Già. Mi chiamo … Alexandròs. Ma … puoi chiamarmi Leo. Mi chiamano tutti così >>. Mi rendo conto di essere stato precipitoso, e subito aggiungo: << Se … decidi che ti vado bene, chiaro >>.
Mi fissa per qualche istante, prima di annuire. Poi stende il braccio a prendere la mia valigia. Sto per avvertirlo ch’è pesante quando la solleva e la porta dentro, come fosse un fuscello.
Cavolo. Mi sento quasi una ragazzina, ad averla trascinata fin qui con le rotelle. << Ma non stare lì sulla porta. Vieni dentro >>.
Mi mordo un labbro prima che mi sfugga una risatina. Devo calmarmi, prima che mi bolli come psicopatico e mi butti fuori. Sono terrorizzato all’idea che mi scappi qualche battuta molto fuori luogo, e mi tradisca da solo in meno di un minuto. Non sono mai stato bravo a mentire, persino quando ne combinavo qualcuna delle mie finivo sempre con lo sgamarmi.
Però, ad essere sincero, visto così non dà affatto l’impressione di essere … be’, sì, insomma, dell’altra sponda. Anzi. Sembra molto serio, e non pare incoraggiare granchè la confidenza.
Meglio. Almeno non dovrò preoccuparmi troppo delle balle che dovrò rifilargli.
Chiudo la porta ed entro nel disimpgeno, minuscolo, che si affaccia su quello ch’è evidentemente il soggiorno. Bianco e grigio la fanno da padrone: un divano a tre posti, una parete attrezzata stracolma di libri, un tappeto grigio chiaro di quelli che sembrano un cane appena uscito dalla lavatrice con sopra un tavolino a vetri. In un angolo troneggia un pouf giallo, un tocco vivido accanto al camino. Anche i quadri sono in grigio e nero.
<< Qui c’è la cucina >>. M’introduce nel vano adiacente. E’ molto sobria, piuttosto piccola se ragguagliata agli standard di casa mia, ma pulitissima. Due piantine in vaso, una felce e un bambù sul davanzale della finestra ingentiliscono l’atmosfera, il resto spazia anche qui dal bianco al grigio in varie tonalità, dal perla al piombo.
<< Seguimi. Ti mostro il resto della casa >>, dice, posando il mio bagaglio accanto al tavolo.
Mi guida in un piccolo disimpegno con tre porte, due a battente e una a soffietto. La apre. << Questo è il bagno. E’ in comune, ma di solito io non ci metto più di un quarto d’ora a prepararmi, la mattina, quindi non dovremmo avere problemi >>. Dimensioni medie, piastrellato in bianco e nero. Una tenda copre l’angolo doccia, e sullo specchio del lavabo sono posate ordinatamente alcune bottigliette di prodotti personali. Nulla di eclatante, o meglio, nulla di differente da quelli che uso anch’io. << Preferisci sopra o sotto? >>, mi chiede a bruciapelo.
<< Come? >>.
Accenna al mobiletto dietro la porta, bianco anche lui << L’armadietto. Puoi prenderne metà. Preferisci sopra o sotto? >>.
<< Ehm … fa lo stesso >>.
Diamine. E’ già la seconda figura di merda in meno di cinque minuti. Devo smetterla, o mi fregherò subito.
<< Okay >>. Alza le spalle, uscendo e dirigendosi alla porta di fronte, aperta. << Questa è la tua camera >>. Un letto, due mensole, uno scrittoio con sopra una mezza libreria. Un armadio a due ante, e un comodino a due cassetti. Qui ci sono due cuscini rosso vivido, appoggiati su un lato del materasso nudo, proprio sotto la finestra a ponte.
La porta chiusa sull’altro lato dev’essere la sua camera. Non si offre di farmela vedere, ed è un sollievo: non c’è due senza tre, si dice, e ho come il presentimento che stavolta avrei fatto la figuraccia decisiva, quella che l’avrebbe costretto a tirar su me, e mettermi fuori, assieme alla mia valigia.
<< Ti dico subito che io lavoro. Quindi, non sarai costretto ad avermi troppo intorno >>, dice, invitandomi con un cenno della mano a posare lo zaino che mi portavo ancora in spalla, come un bimbo di terza elementare in gita scolastica.
<< Grazie. Cioè, non che non debba … averti troppo intorno >>, spiego, vagamente a disagio. Ho superato l’esame, sono promosso, niente “ti farò sapere”, “torna domani” o “ non penso che potremo vivere assieme “.
Eppure paradossalmente mi sento inquieto, anche più di prima. Il pensiero di dover … fingere, mentire a questo ragazzo, malgrado l’abbia appena conosciuto, mi fa sentire sporco, quasi.
Senza dubbio è la voce della mia coscienza. Perché l’idea di abitare con lui non mi infastidisce. Ora che ho visto da vicino com’è, come si comporta, credo di non dover alcuna difficoltà a conviverci. Non sarebbe diverso che abitare con un perfetto estraneo in generale.
Torniamo in cucina. << Ti va un caffè? O preferisci un tè? >>.
<< Un caffè va bene, grazie >>. Mi accomodo al tavolo, osservandolo mentre riempie la caffettiera. Ha delle belle mani, dalle dita eleganti e forti. << Di dov’è che sei? >>.
<< Kalliniki. Un paesino sperduto in mezzo ai monti della Grecia. Mille abitanti contando anche le capre, più o meno >>.
Di solito tutti sorridono a questa battuta. Lui invece no. Annuisce e basta. << Parli bene inglese >>.
<< Grazie. In realtà non è tutto merito mio, però. La famiglia di mia madre  >>. Accende il fornello, prende due tazzine e i piattini di semplice ceramica smaltata, la zuccheriera, due cucchiaini,  mette tutto sul tavolo e si volta incrociando le braccia appoggiandosi al lavandino con la schiena.  
No, non si può definire certo un tipo espansivo. E’ chiaro che me l’ha chiesto per pura cortesia, ed è anche abbastanza evidente il fatto che non dovrò aspettarmi domande sulla mia vita intima.
Grazie a Dio. << Tu … sei di qui? >>. Anche se ha un nome straniero, potrebbe benissimo essere figlio di immigrati. Oppure a sua mamma piaceva l’idea di dargli un tocco esotico, così.
Fa un cenno di diniego con la testa, e un tiepido raggio di sole si posa sulla sommità. Accidenti. Non credevo esistessero dei capelli così neri, e lucidi, senza esser tinti. Neri come l’ala di un corvo, in contrasto con la carnagione pallida.
Se non altro, s’intona all’arredamento. << Toledo. Ma vivo qui da quasi un anno, ormai >>.
Mi sforzo di non ricominciare a blaterare a vanvera. Non credo gl’importerebbe sapere che stavo giustappunto imparando lo spagnolo, perché l’Erasmus che avevo in mente di prendere era a Barcellona.
Come ho già detto, non incoraggia la confidenza.
Inoltre non sarebbe sano mettermi in piazza così. Rischierei di iniziare a spiegare come, quando e perché ho cambiato idea, e mi conosco. Potrei farmi sfuggire qualcosa, e addio sogni di gloria.
Così mi limito a fare un’osservazione indolore. << Anche tu … parli bene inglese >>.
<< Grazie >>. Occupandosi della caffettiera, domanda: << Cos’è che studi? >>.
<< Economia >>.
<< Uhm >>.
<< Tu? >>.
<< Filosofia medievale >>.
<< Sembra … interessante >>.
<< Non sono in molti a pensarlo >>, ribatte lui, in tono neutro.
<< Be’, di sicuro io non ci capirei un granché. E già questo la rende … interessante >>.
Si gira a guardarmi per qualche istante, e mi domando se non abbia detto una sciocchezza. Tipo, aver buttato lì “interessante” al posto di “astrusa, incomprensibile e assolutamente inutile”.
Spero tanto di no. Non sarebbe un buon inizio.
Il caffè, seppur non alla greca, ci mette comunque un bel po’ ad essere pronto, a differenza dell’espresso fatto con la macchinetta.
E il silenzio incoraggia la mia stupida boccaccia. << Senti, ma … posso chiederti una cosa? >>.
<< Certo >>.
<< Perché … hai richiesto … un coinquilino esplicitamente … omosessuale? >>.
<< Mah, per varie ragioni >>, fa lui, alzando le spalle. Dev’essere un gesto che compie spesso, quasi per scemare importanza alle parole che introduce. << Ho avuto diversi coinquilini, e non è mai andata bene. I ragazzi etero all’inizio ci scherzano, fanno gli uomini di mondo ma quando s’imbattono in un uomo che esce dalla tua camera al mattino s’imbarazzano e cominciano a temere chissà cosa. Le ragazze invece dopo un po’ si ficcano in testa di provare a guarirti, quasi fosse una malattia >>. Fa una smorfia, che mette in risalto la fossetta sul mento. << Ma credo che questo lo sappia anche tu >>.
Ecco. L’inciampo. << In realtà .. io non ho ancora fatto outing. Non lo sa nessuno >>.
Lui tace. Spegne il fornello, e versa il caffè. << Ti capisco. Non è facile, purtroppo. Ci si sente sempre come se si stesse deludendo qualcuno >>. Lascia la moka sul lavandino e si siede anche lui, prendendo la tazzina. La sua espressione è distante. Mi chiedo se non ho toccato un punto sensibile, senza volerlo.
<< Tu sei figlio unico? >>.
<< No, ho un fratello >>.
<< Io ho una sorella, di tre anni più piccola >>. Beve il caffè in un solo sorso, quasi fosse uno shottino. Senza averlo zuccherato. << Be’, io vado al lavoro. Se hai fame c’è qualcosa in frigo, serviti pure. In genere ognuno ha la sua spesa personale, ma finché non ti sarai un po’ ambientato puoi usufruire di quel che c’è >>.
Il tono è piatto, metodico, come se parlasse un manuale d’istruzioni. Ma la voce vitale, unita all’attimo di poco fa, mi permette d’intuire che la sua è soltanto una difesa dal mondo esterno.
<< Grazie. E … dov’è che lavori? >>.
<< In un bar >>. Si tira su, prende la giacca posata sulla spalliera della sedia, la tracolla del computer.
<< Per … quelli come noi? >>.
<< Intendi dire studenti? Oppure … >>.
<< No! Cioè, insomma … >>.
<< E’ un bar normale >>.
<< Oh, ehm … bene >>. 
<< Questa è la tua copia delle chiavi, portone e porta d’ingresso. Domani passiamo dalla padrona di casa per sistemare le faccende burocratiche, contratto e tutta la manfrina relativa. L’affitto è il primo del mese. Hai un conto? >>.
<< Sì >>.
<< Bene. Non voglio impicciarmi degli affari tuoi, ma se ti serve un lavoro posso vedere in giro se ci sono delle offerte convenienti. Con la tua conoscenza della lingua, non dovrebbe essere un problema >>.
<< Grazie, Alejandro >>.
<< Per qualsiasi cosa … questo è il mio numero di cellulare. Se non si tratta di un’urgenza del tipo è esploso un tubo in bagno, o sei rimasto incastrato in una finestra, ti pregherei che m’inviassi un messaggio, piuttosto che chiamare. Il mio capo non è un tipo ossessivo, ma preferisco evitare se possibile. Questa è la mia e-mail, e la password per il wi-fi. Se hai voglia di qualcosa, a duecento metri sulla destra c’è un negozio di alimentari, e poco oltre una farmacia. Tu fumi? >>.
<< Veramente … sì >>.
<< Non c’è problema, l’essenziale è che non lo fai in casa. C’è un terrazzino con un paio di sdraio, puoi usare quello. Se devi prenderti le sigarette, scendi da qui dietro e prosegui per qualche centinaio di metri, verso quel grande grattacielo in costruzione, l’Atlas. Poco oltre il Tesco, il supermercato, c’è una tabaccheria. Non so quanto tu ti sia ambientato, ma se devi spostarti, giusto di fronte, a qualche metro di distanza c’è la fermata dell’autobus, e se prosegui sulla destra trovi la metro. Tutto chiaro? Hai qualche altra domanda? >>.
Mi sento spaesato. E’ di una precisione … clinica, a dir poco. Sembra un medico che dia le prescrizioni ad un paziente.
Non quanto in realtà io abbia capito di quello che ha detto, ma se sono sopravvissuto fin qui, penso di potercela fare. quanto meno, ci spero. << Ehm … no >>.
<< Okay, allora. Scusa se non ti tengo compagnia >>.
<< Ma no. Figurati. Grazie di tutto, Alejandro >>.
Lui annuisce, prende le chiavi. << Ci vediamo >>.
<< Ciao >>.
Si ferma sulla soglia. Si volta un istante, lanciandomi uno sguardo da sopra la spalla. << Ah, e … Leo? >>.
<< Sì? >>, scatto senza volerlo. Ho quasi il terrore che mi abbia già smascherato, e stia per dirmi qualcosa di spiacevole.
Invece stira un mezzo sorriso. Che rafforza l’impressione di essergli andato a genio, oltre al fatto che … probabilmente non lo fa molto spesso. << Benvenuto >>.
 
Angolino di Anya: allora, credo ormai si sia capito che non è mia intenzione fare di questa storia un’altra Nemesis; è una storia leggera, senza troppi approfondimenti, stringata al massimo. Ho cambiato il titolo perché ho ripescato in rete il testo di “Point of View” di BD Boulevard, un brano che secondo me si adatta piuttosto bene alle circostanze di cui si narra qui.
Come sempre, per critiche e commenti a disposizione4,
Anya
   
 
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