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Autore: Itsamess    19/07/2018    1 recensioni
[Dio di illusioni ]
Credo di poter parlare a nome di tutti nel dire che nessuno di noi aveva particolarmente voglia di andare fino a Baltimora per conoscere quel professor Lecter. Non tanto perché ci disturbasse l’idea di affrontare un viaggio tanto lungo, quanto più perché la prospettiva di passare un intero weekend in compagnia di Julian significava portare avanti la nostra recita ben oltre la sua normale durata, e non sapevamo se il trucco sui nostri volti avrebbe retto o si sarebbe sciolto come la cera sulle ali di Icaro.
[Crossover Dio d'illusioni/Hannibal]
Genere: Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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This is the road to ruin and we are starting at the end
 
 

 
ὁμοβώμιος, ou

(chi abbia altare comune con un altro,
che prega insieme)
 
 

Le traduzioni da Eraclito ci venivano bene, ma fingere ci riusciva anche meglio.
 
Potevamo aver passato la notte insonne, fra bicchieri di gin e attacchi di panico sedati da una manciata di pillole, eppure quando ci presentavamo alla lezione di greco del professor Morrow era come se non fosse successo niente. Nessun omicidio, nessun segreto, nessun’indagine del FBI. Non so come ci riuscissimo. Credo che più di ogni altra cosa avessimo paura che se soltanto avessimo abbassato la guardia con Julian – che ci conosceva così bene e nutriva così tanto affetto per noi – lui sarebbe stato in grado di intuire il nostro segreto semplicemente guardandoci negli occhi.
 
Non era qualcosa che potessimo permetterci.
Ogni mattina indossavamo le nostre maschere, ci scrollavamo di dosso gli ultimi incubi della notte e tutti insieme bussavamo alla porta dello studio del professore.
Julian ci apriva sempre con un sorriso orgoglioso sulle labbra.
 
---
 
«…ed è per questo che lo stretto Eleusino si chiama così. Anche per oggi è tutto, ragazzi, e noi ci rivediamo domani mattina» concluse Julian, congedandoci con la stessa gentile condiscendenza di un reverendo al termine della messa. «Ricordatevi la traduzione di Saffo per settimana prossima, quaranta versi a testa, con commento.»
 
Stavamo tutti iniziando a raccogliere i nostri libri quando all’improvviso lo sentimmo aggiungere: «Oh, quasi dimenticavo… la lezione di domani dovrà essere rimandata. All’ultimo minuto mi è stato chiesto di partecipare ad una conferenza a Baltimora sul tema del rapporto fra padre e figlio nella Telemachia. Essendo un argomento che abbiamo trattato anche noi a lezione, mi farebbe molto piacere se voleste venire con me.»
 
Il volto di Francis assunse un’espressione perplessa: «Nel Maryland, professore?»
 
Julian arrossì, e fece un gesto con la mano come se volesse scacciare la futilità della domanda. «Si tratterebbe di poco più di una notte di viaggio… E poi avrei finalmente l’occasione di presentarvi un mio caro amico, il professor Lecter. Un uomo di rara eleganza e cultura. Se la memoria non mi inganna, le cene che organizza sono molto raffinate»
 
Credo di poter parlare a nome di tutti nel dire che nessuno di noi aveva particolarmente voglia di andare fino a Baltimora per conoscere quel professor Lecter. Non tanto perché ci disturbasse l’idea di affrontare un viaggio tanto lungo, quanto più perché la prospettiva di passare un intero weekend in compagnia di Julian significava portare avanti la nostra recita ben oltre la sua normale durata e non sapevamo se il trucco sui nostri volti avrebbe retto, o si sarebbe sciolto come la cera sulle ali di Icaro.
 
Fingere poteva riuscirci bene, ma alle nostre condizioni e ai nostri tempi. Ripensai ai fiori recisi e appassiti che avevo visto in casa dei gemelli, al gin invecchiato sulle labbra di Charles e alle lingue morte che parlavamo quotidianamente fra di noi: a guardarci, anche dall’esterno, non c’era in noi niente di vivo, niente di spontaneo. Non eravamo fatti per improvvisare. Solo per ripetere il copione di un spettacolo – che fosse a lieto fine o meno, dovevamo ancora capirlo.
 
In ogni caso,  l’ultima cosa di cui avevamo bisogno era di correre rischi inutili imbarcandoci in quell’assurda gita fuoriporta.
Sarebbe bastato inventare una scusa qualsiasi, del tipo che per l’indomani fosse fissata una prova scritta di francese, che era l’unica materia che non seguivamo con Julian. Mi schiarii la voce, pronto a spiegare al professore che ci dispiaceva, ma non saremmo potuti andare con lui, ma che gli facevamo comunque tanti auguri per il suo intervento alla conferenza, tuttavia Henry fu più veloce di me a parlare.
 
Senza nemmeno guardarci in faccia – perché i suoi occhi erano solo per Julian, e sempre lo sarebbero stati – annuì con reverenza e rispose: «Con piacere, professore. Ci saremo.»
 
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Prendemmo il treno quel giorno stesso, nel tardo pomeriggio, illudendoci che la strada ci sarebbe sembrata meno lunga se avessimo passato la maggior parte delle ore di viaggio dormendo, ma credo che nel nostro scompartimento l’unico a riposarsi realmente quella notte fu il professor Morrow. Per il resto, tutti noi vagammo in una sorta di inquieto dormiveglia increspato da dubbi e incubi.
 
I posti letto erano sei, esatti per noi. Fu un sollievo sapere di non dover dividere lo scompartimento con nessun estraneo. Io mi sistemai nella cuccetta di mezzo, nella direzione opposta a quella di marcia del treno, perché tanto ero certo che non sarei riuscito a prendere sonno comunque. Nella cuccetta sotto alla mia si era addormentato Francis, mentre in quella di fronte si trovava Camilla, i capelli sparsi sul cuscino come quelli di una modella preraffaelita, il volto reso ancora più pallido dal vago bagliore delle luci di sicurezza.
 
Era vicina, ma non abbastanza perché le potessi stringere la mano per infonderle un po’ di coraggio, nella tacita speranza che fosse lei ad infonderlo a me.
Vicina, ma non abbastanza da sussurrarle che sarebbe andato tutto bene e nessuno di noi sarebbe finito in prigione, perché non avevano abbastanza prove.
Vicina, ma mai abbastanza per essere realmente mia.
Mi sembrava di essere in un sogno – e forse stavo realmente sognando, ero così esausto – ma per un attimo ebbi la certezza che, se avessi sporto il braccio verso di lei e fossi riuscito a toccarla, Camilla si sarebbe trasformata in una pianta d’alloro sotto le mie dita.
Così rimasi immobile.
 
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La giornata seguente si svolse senza particolari intoppi.
L’intervento del professor Morrow era stato fissato per la tarda mattinata, ma la conferenza si protrasse per tutto il giorno e della città finimmo per vedere solo il Sagamor Pendry Hotel e la sua sala convegni. Non che ci dispiacesse, comunque, perché il tema della conferenza era stato molto interessante. I relatori si erano succeduti l’uno dopo l’altro al leggio, portando con sé svariati plichi di appunti dai quali leggere, eppure nessuno era stato all’altezza del professor Morrow.
 
Non credo di essere di parte nel dire che Julian era un ottimo oratore, memore delle norme di retorica elencate da Cicerone ed abile nel metterle in pratica. Ne avevamo avuto un assaggio durante le nostre lezioni, eppure vederlo alle prese con un pubblico più numeroso rafforzò questa impressione: di fronte a quella sconfinata platea, la voce di Julian si faceva più stentorea, e i gesti con cui accompagnava le proprie parole più definiti ed espressivi. Lanciai un’occhiata ad Henry, seduto accanto a me, ma lui non ricambiò il mio sguardo perché stava letteralmente pendendo dalle labbra del nostro professore, quasi si fosse trattato di uno spettacolo di magia e Julian gli avesse appena promesso di indovinare il seme della carta che gli aveva nascosto nella tasca mentre non stava guardando.
 
Era buffo pensare che in realtà eravamo noi a tenergli nascosto un trucco, e che il compagno di corso che avevamo fatto sparire nel giro di una notte non sarebbe ricomparso come una colomba dalla manica delle nostre giacche.
Prestigiatori dilettanti, avevamo iniziato un numero che non sapevamo come concludere.
Ma Julian questo non poteva saperlo.
 
Confesso che spesso, durante le lezioni di greco, mi soffermavo ad osservare l’espressione attenta che si dipingeva sul volto di Henry ogni volta che Julian apriva bocca, e senza volerlo mi sfiorava un pensiero. Il pensiero che, nonostante tutto quell’affetto, nonostante quell’ammirazione che evidentemente nutriva per il nostro professore, Henry non si era confidato con Julian, lo aveva fatto con me.
Il suo segreto era stato un dono che non avevo mai chiesto, ma che una volta fattomi non potevo più restituire.
 
Alla fine della conferenza, facemmo una breve sosta in hotel per fare una doccia ed indossare degli altri abiti, anche perché il professor Morrow ci aveva ripetuto più volte che si trattava di una cena formale, perché che il professor Lecter guardava molto alle apparenze e non tollerava la maleducazione.
 
«Non affrontate l’argomento della politica, né quello del sistema carcerario americano. Oh, e se qualcuno di voi fosse vegetariano…» chiuse gli occhi con gravità, come se ci avesse appena chiesto se avessimo tendenze omosessuali, o altri costumi silenziosamente condannati dalla società «Non c’è nulla di male in questo, ovviamente, ma per stasera evitate di farne parola, per favore.»
 
Io e Francis ci scambiammo un’occhiata divertita, ma annuimmo comunque per rassicurare il professor Morrow.
Si prospettava una serata divertente, a casa di un gastronomo suscettibile con la fissa per le buone maniere.
Forse quel viaggio in Maryland non era stato un’idea così terribile.
 
 
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Durante il tragitto in taxi, Julian ed Henry, seduti sul sedile posteriore, continuarono a discutere animatamente della conferenza di quella mattina, ma io non avevo la concentrazione necessaria per seguire i loro discorsi. Il viaggio in treno mi aveva lasciato spossato, e neanche durante la sosta in albergo ero riuscito realmente a riposarmi, perché trovarmi in camera con Francis ed Henry e dover condividere con loro uno spazio così ristretto mi aveva messo a disagio.
 
Non aveva senso, ovviamente, perché li conoscevo da mesi, e avevo addirittura vissuto a casa di Henry per un certo periodo – ma immagino fossi soltanto deluso di non essere finito in camera con Camilla. Non riuscivo a smettere di pensare al modo in cui mi aveva guardato, sul treno, chiedendomi se dietro a quello sguardo ci fosse qualcosa di più o se avrebbe guardato nello stesso modo anche Henry.
 
«Eccoci, siamo arrivati, riconosco il viale… può lasciarci qui, grazie» commentò il professor Morrow. Estrasse dal portafoglio un paio di banconote e le porse al tassista, senza neanche chiedergli quanto fosse venuta a costare la corsa.
 
L’abitazione del professore amico di Julian era un’immensa magione in mattoni, con ampie finestre e con un porticato a colonne di gusto neoclassico a decorare la facciata. Era lì che il professor Lecter ci stava aspettando.
 
Era vestito in modo elegante, con un completo color grigio antracite, una camicia leggermente più chiara e una cravatta di broccato blu. Ammetto che me l’ero immaginato più anziano, coetaneo di Julian, invece l’uomo di fronte a noi non poteva avere più di cinquant’anni.
 
«Hannibal!» esclamò Julian, visibilmente commosso, un attimo prima di stringere l’uomo in un abbraccio. In quel momento, anche il taxi di Francis e dei gemelli si fermò sul vialetto, e i miei tre amici scesero dalla vettura.
 
«Ragazzi, vi presento il professor Lecter!» esclamò il professor Morrow.
 
L’uomo sorrise.
«La classe di greco… che onore potervi finalmente conoscere. Julian mi ha parlato spesso di voi!»
 
Se fosse stato lì con noi, Bunny a quel punto avrebbe risposto qualcosa come Solo cose belle, spero! perché se c’era una cosa che gli riusciva bene era di spezzare la tensione con una battuta, anche una poco divertente.
 
Era in momenti come quelli che mi accorgevo di sentire la sua mancanza, ma mentirei se dicessi che provavo un minimo di senso di colpa, perché non era così. Nessuno di noi provava rimorso per quello che avevamo fatto. Anche se fossimo potuti tornare indietro nel tempo alla notte dell’omicidio, sono certo che non avremmo cambiato di una virgola il corso, inevitabile, degli eventi.
Gli eroi delle tragedie non si oppongono al destino.
Lo compiono, e ne accettano le conseguenze.
 
Sentir chiamare il mio nome mi riscosse dai miei pensieri.
«… il signor Richard Papen, il signor Henry Winter,» stava iniziando ad elencare il professor Morrow «il signor Francis Abernathy, e i due gemelli Macaulay, Charles e Camilla.»
 
Il professor Lecter strinse la mano ad ognuno di noi, una stretta vigorosa ma non dolorosa, come se avesse calibrato alla perfezione la propria forza fisica. Non potei fare a meno di notare i suoi occhi, che erano di un castano tanto intenso da ricordarmi  il mogano del mobilio a casa dei gemelli. Avevano uno strano luccichio, al loro interno, simile a quello riflesso dalla lama di un coltello, ma sul momento non riuscii bene a comprendere a cosa fosse dovuto.
 
Hannibal continuò  il giro delle presentazioni.
Quando toccò a Camilla, chinò la testa in segno di rispetto, e le baciò il dorso della mano, sussurrando: «Incantato… volete seguirmi all’interno? È già tutto pronto per la cena.»
 
C’era qualcosa, nel gusto decadente con cui era arredata la casa, che mi ricordava l’appartamento di Charles e Camilla. Teste di animali imbalsamati erano appesi alle pareti, le tende erano di un tessuto pesante e dal gusto barocco. Se però la casa dei gemelli sembrava riempita di oggetti acquistati in blocco da un rigattiere, quella del professor Lecter era molto più studiata ed ordinata. I libri sugli scaffali, notai, erano disposti in ordine alfabetico, e la tavola era stata apparecchiata con una tale cura da sembrare il set di un servizio fotografico di Martha Stewart.
 
Prendemmo tutti posto, lasciando i posti d’onore a capotavola al professor Morrow e al professor Lecter. Mi accorsi che era apparecchiato per una persona in più e quasi inconsciamente alzai lo sguardo sugli altri, per vedere se anche loro l’avevano notato.
Camilla era completamente sbiancata, e fissava con orrore il posto vuoto di fronte a lei.
Henry stava cercando di non farci caso, ma le sue mani, ferme sulle ginocchia, erano chiuse a pugno.
 
Stavamo tutti pensando la stessa cosa.
Il professor Lecter aveva apparecchiato anche per Bunny.

Probabilmente Julian gli aveva sempre parlato di noi come dei suoi sei promettenti e brillanti studenti, e ovviamente non lo aveva chiamato per avvisarlo che uno di loro era morto. A lungo mi ero chiesto in che forma si sarebbe presentata la nostra punizione, ma mai avrei pensato che saremmo stati costretti a cenare con il fantasma del nostro personale Banquo.
 
Il professor Lecter dovette notare i nostri sguardi, perché subito aggiunse: «Oh, Will ci raggiungerà a minuti. Ha avuto un’emergenza con uno dei suoi cani, mi ha detto che possiamo cominciare a mangiare anche senza di lui.»
 
Allora era questo Will, e non Bunny, il convitato che stavamo aspettando.
Tirai un sospiro di sollievo, anche se dentro di me sapevo che era solo questione di tempo: forse in quell’occasione avevamo scampato la nostra punizione, ma la volta successiva non saremmo stati così fortunati.
 
Lo sguardo di Camilla sul treno me lo aveva confermato, perché nei suoi occhi avevo letto quella stessa certezza che nessuno di noi osava pronunciare ad altra voce, ma che ci teneva svegli la notte.
La certezza che, in ogni tragedia greca, il colpevole sia sempre punito.
Legato ad una roccia mentre un’aquila gli strappa di intestini, accecato per sua propria mano dopo aver assistito al suicidio della madre, ucciso dalla moglie al ritorno a casa o pugnalato da ventitré coltellate da quelli che credeva suoi amici.
 
Speravo solo che, di tutte le punizioni possibili, nessuna mi sarebbe stata inflitta dai miei.
 

 
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Eravamo a metà della prima portata – Soupe à l’oignons  con contorno di ratatouille e crostini di pane nero – quando lo vedemmo entrare. Si trattava di un uomo dai lineamenti scolpiti, e una mascella definita appena ombreggiata da un velo di barba. Non che abbia fatto particolare attenzione alla cosa, ma il tipo era di bell’aspetto. Aveva un fisico asciutto, ma niente affatto gracile. Portava i capelli abbastanza lunghi e scarmigliati, ed era vestito con una semplice camicia di flanella e dei jeans che avevano visto tempi migliori. Mi chiesi perché per lui non valesse la regola del abito formale, ma da come si accese lo sguardo del professor Lecter quando lo vide varcare la porta capii che la familiarità che fra i due uomini doveva avere da tempo oltrepassato ogni stupida nozione di etichetta.
 
«Scusate il ritardo,» esordì in un tono che sembrava sincero «ma venendo qui ho trovato un cane sulla trentanovesima, era ridotto ad uno scheletro…»
 
«Will nutre un grande amore per gli animali, i cani soprattutto» spiegò il professor Lecter «Questo deve essere il quindicesimo randagio che adotta»
 
«Diciassettesimo» lo corresse Will, con un sorriso «comunque vi chiedo ancora scusa per il ritardo. Sono lieto di poterla finalmente conoscere, professor Morrow. Lei, e i suoi studenti, ovviamente.»
Si sedette al posto che avevamo creduto essere per Bunny, alla destra del Hannibal e alla sinistra di Francis, che da quando era entrato non gli aveva staccato gli occhi di dosso.
 
«Il mio amico e collega Will Graham.» annunciò il professor Lecter ponendogli una mano sulla spalla «Il signor Graham collabora con l’FBI e grazie alle sue straordinarie doti investigative ha contribuito alla cattura di numerosi criminali»
 
Il mio cuore perse un battito.
Di tutte le professioni che quel tipo poteva svolgere, proprio il consulente investigativo. Avevamo lasciato il New England con la speranza di non vedere nessun poliziotto per almeno un paio di giorni, e invece eccoci a dividere un tortino di verdure con lui.
Charles, dall’altro lato del tavolo, si allentò il nodo alla cravatta con ostentata nonchalance.
 
«Hannibal esagera» aggiunse Will con modestia, abbassando lo sguardo «Faccio soltanto il mio lavoro.»
 
Mi augurai che a quel punto l’argomento FBI fosse definitivamente chiuso, ma il professor Morrow era di altro avviso.
«E in che cosa consiste, esattamente? Deve essere una professione affascinante.»
 
«Lavoro per lo più sulla scena del crimine… raccolgo indizi, studio il profilo psicologico del sospettato, il suo modus operandi e i suoi possibili moventi… e poi cerco di ricostruire come si sia svolto il delitto» concluse l'uomo stringendosi nelle spalle.
 
«Will è dotato di una straordinari empatia cognitiva. È in grado di comprendere e sperimentare su se stesso i pensieri e le motivazioni altrui. È solo assumendo una prospettiva differente che le cose assumono tridimensionalità, proprio come un occhio solo non è in grado di cogliere la profondità degli oggetti.»
 
«Empatia cognitiva» ripeté lentamente Julian, che doveva essere rimasto affascinato dal concetto di un’immedesimazione che non si basasse sui sentimenti ma sull’intelletto «Aristotele ne sarebbe rimasto molto colpito, perché questo permette di leggere in modo completamente nuovo la nozione di catarsi… La sua teoria era che, assistendo ad atti di violenza, la reazione di empatia avrebbe fatto sì che al termine della rappresentazione lo spettatore si sentisse in qualche modo purificato dai sentimenti di pietà e di paura, perché conscio che tale violenza fosse solo fittizia, o che comunque fosse stata rivolta verso altri»

Conoscevo già la teoria della catarsi dai miei precedenti studi, eppure solo in quel momento mi sembrò di coglierla appieno. Chissà che forse Aristotele non avesse trovato, senza saperlo, una spiegazione alla mia completa mancanza di senso di colpa. Forse, proprio perché io e gli altri avevamo progettato l’omicidio con la stessa cura maniacale con la quale si organizza uno spettacolo teatrale, la morte di Bunny non era stata 
per noi niente più che una cupa messa in scena.
Forse era per questo che non sentivo nulla.
 
Intanto, il professor Morrow stava continuando a discutere di Aristotele, e della positività della tragedia sulla psiche umana.
Stavo iniziando a pensare che l’intero scopo della cena, per lui e il professor Lecter, fosse fare a gara per dimostrare chi ne sapeva di più di arte e storia.
Will, Henry, Francis, i gemelli ed io eravamo stati invitati solo in qualità di platea.
 
«Assistere ad una violenza controllata, perché ormai trascorsa e non più in grado di minacciarci, può essere di grande aiuto a razionalizzare le nostre paure» spiegò Julian, sorseggiando dal suo calice di vino bianco italiano «Lei deve essere un uomo molto equilibrato, signor Graham.»
 
A quelle parole, notai chiaramente la bocca di Will piegarsi in un sorriso, ma lui lo mascherò in fretta portandosi il tovagliolo alle labbra.
E sì che non aveva ancora mangiato nulla.
«Potremmo dire così, sì.» concesse Will «Ma in fondo cos’è l’equilibrio se non un filo di seta teso sopra al baratro?»
 
Ripensai alla gita al lago, e al modo in cui Camilla saltellava ridendo da una pietra all’altra. Aveva spalancato le braccia, le lunghe maniche bianche simili ad ali intorno a lei, e trattenuto il fiato. Al tempo, mi era sembrata una figura divina o mitologica, in grado di camminare sul filo dell’acqua come per miracolo, ma ora mi rendevo conto che, aprendo le braccia, Camilla aveva tentato di restare in equilibrio.
(Non c’era riuscita. Dieci minuti dopo nel piede le era finita quella maledetta scheggia di vetro, e Camilla aveva zoppicato per settimane)
 
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La conversazione proseguì, fra sfoggi di cultura, esibizioni al clavicembalo e citazioni in latino. Non mi sarei stupito di scoprire che Julian e il professor Lecter si fossero incontrati ad una qualche conferenza o mostra d’arte, perché entrambi sembravano condividere la stessa morbida ossessione per il bello che pochi mesi prima avrei ammesso anche io.
 
Cominciavo a sentirmi nauseato dalla cena, non tanto perché non fosse di mio gusto ma perché mi era difficile godermi i piatti quando ero seduto allo stesso tavolo di un consulente del FBI e di un’illustre psicologo. Mi metteva a disagio stare loro così vicino. Mi sentivo vulnerabile. Esposto, come se Will e Hannibal fossero in possesso del cifrario necessario a decrittare il nostro segreto.
 
Chiesi il permesso di alzarmi da tavola per andare a prendere una boccata d’aria, dando la colpa al troppo vino, anche se Charles aveva, come sempre, bevuto più di tutti noi messi insieme.
 
Passai qualche minuto sul portico, ad osservare il tramonto purpureo che stava incendiando il cielo sopra alla magione del professor Lecter. Henry l’avrebbe certamente interpretato come un segno, ma io ero così stanco di vedere sangue ovunque. Un cielo può essere rosso e basta.
Un cielo può essere rosso e basta, mi ripetei rientrando.
 
Stavo tornando verso la sala da pranzo quando sentii delle voci sconosciute provenire dalla cucina. Si trattava del professor Lecter e del suo collega del FBI.
Non so perché mi fermai ad origliare la loro conversazione... forse volevo capire perché stessero sussurrando, invece di tenere un tono di voce normale. Forse ero semplicemente curioso.
 
«Interessante scelta degli ospiti, stasera.»
 
«Tutti i miei ospiti sono interessanti, Will»
 
«Sai cosa intendo.»
 
Hannibal non rispose subito, ma quando lo fece sentii l’ombra di un sorriso nella sua voce.
«Ero certo che lo avresti capito, fra simili ci si riconosce.»
 
Pensai di aver sentito male.
Simili? Cosa potevamo avere in comune con lui? Il professor Morrow gli assomigliava molto, per via della sua sconfinata cultura e del suo amore per l’arte, ma io e gli altri…
 
Un attimo dopo, Hannibal rimase a parlare, il suono delle parole intervallato dal secco suono di un coltello. Probabilmente stavano tagliando della frutta da accompagnare al dolce.
«Gli assassini hanno sempre un luccichio particolare, negli occhi, simile a quello che distingue chi è vergine da chi non lo è. Non si è più gli stessi dopo un atto fisico particolarmente violento, sia esso commesso o subito. In questo, il sesso e l’omicidio non sono poi così differenti.»
 
Mi sentii la gola secca.
Come avevano scoperto il nostro segreto, e soprattutto, cosa avevano intenzione di fare adesso che lo conoscevano?
Lo avrebbero detto a Julian? Ci avrebbero denunciati alla polizia?
Cercai di fare mente locale per ricordare se il Maryland aveva la pena di morte, e se saremmo stati condannati da una giuria qui o nel New England, ma non ne sapevo molto di diritto penale.
 
All’improvviso mi resi conto che né Will, né Hannibal avrebbero mosso un dito.
A guardarli, lì ad affettare fragole e a discutere di sesso e omicidi, sembravano perfettamente a proprio agio con l’idea di avere una mezza dozzina di assassini seduti al loro tavolo.
Per un attimo pensai che si trattasse di una forma di deformazione professionale – dopotutto collaboravano entrambi con l’FBI, dovevano avere conosciuto moltissimi criminali – ma poi ripensai ad una frase che aveva pronunciato Hannibal.
 
Fra simili ci si riconosce
 
I greci avevano svariate parole per indicare questo semplice concetto, ma la mia preferita era sempre stata ὁμοβώμιος, che è letteralmente colui che prega allo stesso altare.

Colui che prega lo stesso Dio.
Era allo stesso dio di illusioni che pregavamo, io, Henry, Hannibal, tutti noi.
Un dio che richiedeva sacrifici di sangue, tingeva il cielo di un rosso purpureo e in cambio ci donava il privilegio di non sentire il benché minimo senso di colpa.
 
Fu in quel momento che ricordai il luccichio che avevo intravisto negli occhi di Hannibal, sulla veranda.
Lo stesso luccichio che, sono certo, lui doveva avere visto nei miei.
 
«Cosa hai intenzione di fare?» sentii domandare Will, con una sfumatura di noia nella voce.
 
«Quello che facciamo sempre, William.» rispose Hannibal «Goderci la cena, e intrattenere i nostri ospiti con della buona conversazione.»
 
---
 
Erano tornati in sala da pranzo con una bottiglia dall’aria piuttosto antica, ed una ciotola di cristallo colma di fragole, mentre io finsi di essere appena rientrato dal portico.
La conversazione riprese da dove evidentemente si era interrotta, ma dopo ciò che avevo accidentalmente sentito non mi andava molto di chiacchierare.
 
«…se non erro a Hampden si studia la storia delle religioni, no?» stava dicendo Hannibal «L’altro giorno ero a cena con un amico, teologo di professione, e ci siamo trovati a discutere su una questione che al college non trova abbastanza spazio, a mio parere»
 
Julian sollevò un sopracciglio, interessato.
 
«Qual è il Dio più crudele?»
 
La domanda cadde nel vuoto, anche perché era tutta la sera che la conversazione rimbalzava esclusivamente fra Hannibal e Julian, come se i due si fossero ininterrottamente passati il metaforico scettro che nella βουλή conferiva il diritto di parlare.
 
Julian ci esortò con un cenno del capo: «Suvvia, non siamo a lezione… Nessuno vi assegnerà un brutto voto in base alle vostre risposte. Anzi, chi darà la risposta migliore potrà saltare la traduzione di Saffo che vi ho assegnato per giovedì prossimo.»
 
Competizione.
Non ebbi nemmeno bisogno di guardare Henry per sapere che i suoi occhi si erano accesi di adrenalina. Era tutta la sera che stava aspettando un’occasione per impressionare Julian, e finalmente gliene veniva fornita una su un piatto d’argento. Ora restava solo da vedere quale risposta avrebbe fornito.
 
«Ares.» rispose senza particolare entusiasmo Francis, che evidentemente non aveva molta voglia di argomentare la sua risposta.
 
«Gli dei della tradizione Maya. » abbozzai io, memore di una lezione di storia in cui il professor Morrow ci aveva parlato dei sacrifici umani, giusto prima dell’ora di pranzo.
 
Henry si schiarì la voce, e sentenziò: «Mi sembra ovvio. Il Dio più crudele è quello della tradizione giudaico-cristiana. Basta pensare alle piaghe d’Egitto, al Diluvio Universale, o anche al supplizio imposto al suo stesso figlio... le pagine dell’Antico Testamento grondano sangue.»
 
Julian apparve particolarmente colpito dalla risposta, ma del resto non era un segreto che nutrisse una particolare predilezione per Henry. Era un dato di fatto talmente palese che nessuno di noi aveva mai provato a farlo presente.
 
Pensai che la questione fosse definitivamente chiusa con la vittoria di Henry, ma all’improvviso Charles, che per tutta la serata non aveva detto nulla, mormorò: «Mnemòsine»
 
«Mnemòsine, la dea della memoria…» tradusse Julian a beneficio dei non classicisti «Risposta interessante»
 
Risposta potenzialmente incriminante, pensai io.
Henry dovette essere della mia stessa idea, perché si allungò a tirargli un calcio sotto al tavolo.

Camilla si voltò a guardare suo fratello, improvvisamente pallida, ma lui non ci fece caso. Il suo sguardo era fisso sul calice che aveva di fronte a sè. 
«Ricordare è un condanna» spiegò lentamente Charles «sia che si tratti del ricordo di qualcosa di bello, che del ricordo di qualcosa di… meno bello. Nel primo caso, la memoria ci ricorda ciò che abbiamo perso, perché un ricordo è sempre collocato nel passato, mentre nel secondo caso siamo costretti a rivivere all’infinito ciò che abbiamo provato.»
 
Non potei fare a meno di pensare alla notte nel bosco, e a come Camilla con un mezzo sorriso gli aveva raccontato di non ricordare che flash e echi di voci, come se quella loro amnesia collettiva fosse stato il dono che Dioniso aveva scelto di fare loro. Sul momento aveva pensato che fosse pazza, e che al posto suo avrei voluto sapere la verità sul baccanale, ma ora non ne ero più tanto sicuro.
 
«A quanto pare abbiamo il nostro vincitore» sentenziò Julian, ma lo sguardo di Charles rimase perso nel vuoto. «Non sei d’accordo, Hannibal?»
 
«Un’argomentazione davvero brillante, non c’è che dire. Ma in generale trovo che tutti i tuoi studenti abbiano centrato il punto. Gli dei non sono migliori degli esseri umani. Dall’adulterio commesso da Afrodite, alla lussuria di Zeus, al rancore di Efesto... la mitologia classica insegna. Gli dei hanno passioni, e difetti, e ossessioni, proprio come gli esseri umani. E se gli dei sono come noi…»
 
«… noi possiamo essere dei» concluse Henry, poco prima di aggiungere «Almeno in linea teorica, ovviamente.»
 
«Proporrei un brindisi» annunciò allora Hannibal.
Stappò la bottiglia d’aria recuperata in cucina e si fece aiutare da Francis per versare da bere a tutti.
 
Levammo i calici all’unisono.
Per un attimo pensai che stessimo per brindare alla vita eterna come facevamo sempre nelle cene con il professor Morrow, ma Hannibal era di diverso avviso.
 
«Ai giovani dei che ho avuto il piacere di avere ospiti.» annunciò «Dans la vie on ne fait pas ce que l’on veut, mais on est responsable de ce que l’on est»
 
La citazione francese risuonò vuota alle orecchie di Julian – che dal punto di vista glottologico si interessava solo alle lingue morte, con l’ammirevole eccezione dell’inglese che usava per farci lezione – ma noi studenti la comprendemmo chiaramente. 
Sartre.
Nella vita non si fa ciò che si vuole, ma si è responsabili di ciò che si è.
 
Henry, che in quel momento stava bevendo, rischiò di strozzarsi con il vino.
 
Hannibal cercò di celare il proprio piacere nell’aver colpito esattamente nel punto giusto e casualmente domandò: «La cena è stata di suo gradimento, signor Winter?»
 
«Sì» mentì Henry. Ormai avevo imparato a leggere le sue espressioni, ed era evidente ne fosse rimasto nauseato. «Molto particolare, come scelta di vino.»
 
«Non riconosco l’annata» aggiunse Julian «1962?»
 
«Oh, non è vino puro, in realtà. È una mescita personale che riservo solo ai miei ospiti più altolocati.»
 
Julian annuì, sorridendo.
 «Certo, in accordo alla tradizione greca, che vedeva come un segno di ὕβϱις quello di bere vino puro… che tocco di classe, dottor Lecter.»
 
Hannibal alzò il calice in segno di rispetto.
Il vino al suo interno era denso e scuro come sangue.
«Solo il meglio per la classe di greco.»
 






Angolo autrice

Ho finito di leggere The Secret History la settimana scorsa e me ne sono completamente innamorata, da qui il mio misero tentativo di contribuire al fandom italiano dedicato a questo libro.
Mentre lo leggevo, non potevo fare a meno di pensare che come atmosfere mi ricordasse molto How to get away with murder e Hannibal. Il primo crossover esiste già, ed è esilarante (potete leggerlo ">qui ), il secondo l'ho scritto io - e non è esattamente una commedia.
Spero vi possa essere comunque piaciuto =)
Grazie di essere arrivati fin qui, e un consueto abbraccio.

Itsamess

PS: titolo dei Fall Out Boy, perchè se non uso lyrics emo in questo caso non so quando dovrei farlo
  
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