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Autore: swimmila    23/07/2018    14 recensioni
Non già per cambiarvi il destino. Solo per riempirlo di amore. Da quella benedetta sera.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Generale Jarjayes, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Parigi, Opéra-Comique, 21 Ottobre 1784 

 
La chanson di Blondel, echeggiante nell’aria.
Una bocca socchiusa di inedito diletto. Uno stupore candito nel nettare del piacere. Orecchie appagate di dedizione regale.
Il Generale Bouillé, un inclito gorgogliante di consumata fedeltà.
 
Orde di menti annebbiate e stomaci affamati. Bastoni rabbiosi a sfondare il tetto della carrozza accerchiata. Mani fetenti e callose a tirare per collo e capelli.
 
L’aria di Laurette, a scombuiare gli animi.
Il monocolo, a restituirgli bellezza. I sensi, a rimandargli delizia. La poltrona, rassicurante di regno.
Il Conte di Fersen, rapito di donna.
 
“Lasciatelo! Lui non è un nobile! André!”
“Oscar!”
La carrozza divelta. Le fiamme bramose. Visi sfigurati di eccitazione collettiva. Colpe sfumate di estraneazione di massa.
“André non è un nobile. Lasciatelo stare! André, André!”
 
“Oh Richard! Oh, mon Roi!”. Il troviero, ad inneggiare monarchico.
Di leone, il suo cuor pulsante. Nel mistero, quel diguazzar dell’anima. Di devozione, la sua seduta calda.
Il Generale Jarjayes, un’anodina inquietudine di padre.
 
L’istinto, a difendere il mio corpo. Il terrore, ad urlare il tuo nome. Le nostre braccia, le une a cercare le altre, separate di tumulto; percosse di rivolta; assaltate di rabbia popolare; sorprese di rivoluzione.
Nella mia testa solo te.
 
Un tripudio di liberazione, roboante nel vuoto. Una marcia solenne, eufonica d’orchestra.
Una divisa compìta a sfidare l’oscurità della galleria. Un sussurro, ad appressarsi ad un solo orecchio.
“Generale Bouillé, riferiscono di disordini nella periferia di Saint Antoine”
 
Una gragnuola di colpi sulla mia testa. Inciampo. Cado. Sbatto il viso. Dal mento un frastuono di selciato. Mi rialzo. Barcollo. Mi apro un varco. Mi agguantano. Cado ancora. È finita. Sono troppi. Neanche la più indomita delle forze può salvarsi in questo disperato tentativo di difesa solitaria. Mi assale una disperazione assoluta. Non può finire così. Non è possibile morire senza te al mio fianco. Non possono farci questo.
 
“Circa 200 persone, a Saint Antoine, hanno assaltato una carrozza che appartiene ad una famiglia nobile. Sembra che lo stemma sia un leone a due code che sorregge una spada”.
Di stessa divisa, il sussurro. Del Conte di Fersen, le orecchie.
 
Non resisterò ancora a lungo. Le mie forze stanno cedendo. Sento la rabbia montarmi dentro. Che cosa ti stanno facendo? Mio Dio, ti prego, no! Impazzisco nel saperti in pericolo. Vortico di ragione in delirio. Scoppio di cuore straziato.
Che cosa ti stanno facendo?.... Amore, amore!!
 
Una pioggia di applausi. Un tripudio conservatore. Un’ovazione scrosciante.
“Pare che la carrozza assaltata appartenga alla vostra famiglia”.
Di altra divisa, il sussurro. Del Generale Jarjayes, lo squarcio nel cuore.
 
Uno scuotimento furioso. Una voce sconosciuta. I miei occhi, a perforare le nebbie seducenti dell’incoscienza. Per un lunghissimo istante non riconosco l’uomo piegato su di me; così vicino da sfiorarmi di calore, così accorato da inalarmi paura. il suo è un viso che intuisco bello, ora orribilmente sfigurato di terrore. Sta urlando il mio nome con voce spezzata.
Padre! Voi!
La mia voce incerta a distendere il Vostro viso che torna per un attimo tenace e sicuro di barca alla fonda nella deriva di un mare spumoso di orrore. Poi, istantaneo, quel dolore sordo che ribolle dal profondo dell’anima; affiora alla superficie dei sensi; elude la censura del pensiero; sgorga istintivo in gola.
“E André! Non avete visto André?”
Non riconosco la mia voce. Non ascolto le Vostre parole …Ho dato ordine….Conte di Fersen….Non ricompongo di senso quei suoni che mi stanno trattenendo da te. Sono già protesa verso quegli echeggi di urla e galoppi. Mi bloccate con forza. Mi danno di voce.
“Lasciatemi andare. Lasciatemi andare! Che cosa ti hanno fatto, André. Che cosa ti hanno fatto? André!”
Le mie lacrime, a cadere copiose. Le mie urla, a spezzarsi di voce. Il mio amore, a vagire di vita.
 
Il Vostro braccio sorregge l’urgenza dei miei passi tornati quasi fermi. Ripercorriamo a ritroso le macerie di questo incubo che ci ha ghermiti strappandoci l’un l’altra. Gli occhi sbarrati, dolenti nello sforzo di scorgere la tua figura, di scrutare all’orizzonte movenze di vita. Voi tacete al mio fianco. Assecondate la mia disperazione rendendo sicure le mie gambe.
Sei in ginocchio, in fondo alla via, un cappio a stringerti il collo.
Mi libero del Vostro abbraccio con un impeto che quasi mi fa cadere. Ti raggiungo correndo, incurante di questo fianco lancinante ad ogni respiro; di questa testa che scoppia di lividiccio e farneticamento; sollevata di questo sangue rappreso che tornerà a scorrermi liquido nelle vene.
Ti sorreggo per le spalle, ti chiamo mille volte, voglio udire la tua voce.
Trancio la vigliaccheria di questa corda che ti impedisce le braccia e ti graffia la gola. Il tuo nome, ripetuto all’infinito. La tua paura per me, a riprendere fiato. Le mie lacrime, incontenibili, irrorano le tue labbra spaccate di odio e arse di paura. Le tue braccia tremano attorno alle mie spalle scosse di sconosciuto spavento.
Mi dici che stai bene. Ti assicuro che non muoio. Mi sorridi con le poche forze che ti tengono in ginocchio. Ti asciugo un rivolo di sangue che piange sfinito da un sopracciglio tagliato. Le tue mani, ad assicurarsi di me. Le mie dita, a palpare di te.
Perdiamo la cognizione del tempo. Si alza la voce del vento. Danza in un vortice che da labirinti ctoni di miseria sobillata risale, avvolgente, in un turbinio che imprigiona e spazza testimonianze lacere di miseria e furore: polvere; lordura; mistura indefinita di povertà e incuria; afrore di uomo e puzzo di morte; urla di odio e un grido di amore. Ripulisce di palingenesi questo mio respiro mozzato del tuo nome. Questo tuo tremore sedato di visione.
Restiamo abbracciati di atterrito sollievo, sporchi di sangue nobile e plebeo fuso di furia accecata e violenza indistinta. Rimaniamo così per un tempo indefinito che solo Voi potete forse conoscere.
Solo Voi, padre. Ritto alle nostre spalle e muto di superfluo.
 
Una carrozza anonima in corsa verso casa.
Gli aveva rubato il cavallo, quel manipolo di assatanati rivoltosi. D’altra parte non aveva certo messo in conto di ritrovarlo, il Generale Jarjayes, il suo destriero, dopo averlo dato in pasto a quelle belve sovversive.
Aveva visto sua figlia, accerchiata per terra, e si era gettato, spezzandolo, in mezzo a quell’argine di corpi malfamati raggirati di propaganda eversiva. Ne aveva schiacciato uno, un miserabile mezzo storpio che aveva finito la sua lurida vita sotto gli zoccoli del suo cavallo. Era una furia. Aveva sguainato la spada e con quella e con i muscoli poderosi delle zampe dell’animale aveva mietuto più vittime possibile. Sua figlia, priva di sensi, ad imporgli precisione e attenzione nel manovrare il cavallo.
Quando gli avevano detto di una carrozza con lo stemma della sua famiglia assaltata a Parigi non aveva avuto dubbi. Prima di separarsi aveva impartito ordine secco al Conte di Fersen di occuparsi di André, mentre lui avrebbe pensato a Oscar.
La vedeva, prona, una macchia bionda di dignità. Quei bifolchi assetati di sangue gli impedivano di raggiungerla. Ad un tratto, da qualche parte, uno sparo. Un attimo di attonito silenzio. Poi, quegli zoticoni ignoranti, come pecore si erano accalcate, belando, verso chissà quale altro istigato obiettivo.
Era sceso quasi ruzzolando dal cavallo, si era precipitato su sua figlia e di peso l’aveva portata al riparo in un cunicolo fetido di rigagnoli e bestiale umanità.
Se non l’avesse udita con le proprie orecchie, urlare di nome e d’amore. Se non l’avesse vista coi propri occhi, volare su gambe sfinite.
Avevano fermato una carrozza modesta. Era scomoda, ma almeno non avrebbero dato nell’occhio. André era ridotto molto male. Oscillava fra stati di coscienza e perdita di sensi. Era stato ad un soffio dall’impiccagione. Una vera e propria esecuzione che solo l’intervento del Conte di Fersen aveva evitato.
“Spero che il Conte di Fersen sia riuscito a mettersi in salvo”.
Hai chiuso gli occhi, ma so che sei vigile. Lo so dal modo in cui respiri. Lo sento dai tuoi pensieri che mi avvolgono. Sento il calore non sfiorato delle nostre braccia vicine. Mi chiedo se anche tu percepisci il vorticare convulso dei miei pensieri. Se il mio sentire, caldo di dolcezza e bollente di paura, arrivi a coprire il tuo corpo ferito.
Voi, padre, seduto di fronte a noi a scrutarci teso. Le Vostre parole a riempire ad un tratto l’abitacolo. Ad insinuarsi, vaghe, in un tumulto di pensieri ed emozioni. Il conte di Fersen….in salvo”. Sento l’oblio imporsi alla mia coscienza. Sento la mia mano adagiarsi, perfetta, sul dorso della tua. Scivoliamo insieme in una pace senza volti e senza voci. Solo di calore di mani.
Se non li avesse osservati in silenzio, consolarsi del loro amore.
 
Mi è andata meglio di quanto pensassi. Una volta ripulite le ferite, sono rimasti solo lividi e ammaccature. Tu, invece, hai diverse costole incrinate e una brutta contusione in testa che ti obbligherà ad un lungo periodo di riposo. Maledetti. Che cosa gli avete fatto?
Aspetto che Marie si ritiri con permesso, prima di smettere di fingere di bere la sua premura di cioccolata calda. Non voglio berla senza di te. E tu non ci sei.
Che cosa ti stanno facendo, amore?
Che cosa sta succedendo, André? Che cos’è, dalla maledetta sera di ieri, questo indugio del mio sguardo su di te? Questo bruciore liquido di struggimento a sospendermi il respiro?
Sento i tuoi passi, finalmente. Quanto ci ha messo il dottore a finire le medicazioni?
“Ho saputo adesso che ieri sera il Conte di Fersen ha raggiunto sano e salvo i suoi appartamenti”.
Che cos’è questa paura ormai indelebile di perderti? Questo mio bisogno di sapere solo di te?
“Mi fa piacere. Vuoi un po’ di cioccolata, André?”
“No, ti ringrazio Oscar, sono un po’ stanco. Col tuo permesso, vado a dormire.”
Non ce l’hai il mio permesso. Resta qui con me a bere cioccolata e a parlarmi di dolcezza di voce. A guardarmi di tenerezza di sguardo. Sorridermi di bellezza di labbra.
“Buonanotte, André.”
Ti lascio andare, stasera. Ma domani.
Domani.
Suonerò il pianoforte mentre tu sorseggi di vino e di note.
Domani.
Uniremo i nostri bicchieri e le nostre labbra in un brindisi di anime.
Domani.
Non avrai scuse.
Domani, amore.
 
Le pesanti tende azzurre ad oscurare studio e anima.
Le pareti della stanza, foderate di ciliegio come il legno intarsiato dello scrittoio, riflettevano la fantasia furtiva dei riflessi ribelli che eludevano la sorveglianza delle cortine accostate. Assorbivano, segrete, il dialogo convulso fra un Generale e un genitore.
Il ritratto di suo padre, intuito con gli occhi della memoria in quell’oscurità ostinata, ad osservarlo severo dalla sua dimora di parete.
Un aspirare profondo. Un paio di volute di fumo azzurrognolo. Un’increspatura nella fronte, un tiraggio insoddisfacente. Il reiterarsi di una liturgia lenta e meticolosa: vuoto di pipa; pieno di tabacco; pressa di miscela. Una prima boccata e un’altra ancora. Un’insinuazione di piacere a calmargli un istante i pensieri.
Un bussare leggero. Un’attesa reverenziale, al di là della porta. Le tende tirate e la luce del sole.
“Vieni a sederti qui, Oscar.”
Una dissonanza, di voce e di sguardo. Fermezza nell’una. Tremore nell’altro. Mi siedo. Qualcosa, in Voi, emana un disagio che non si lascia definire, eppure palpabile e concreto. Poi, la Vostra pipa barcolla nell’aria. La mano sorregge il peso di un viso che cede. Il mio fiato inchinato di pensieri spiazzati.
Si affanna a tirare di pipa e a sbuffare di fumo, il Generale Jarjayes. Per poter maledire miasmi e giustificarsi di occhi irritati. Ma il ricordo di quel linciaggio è un marchio ancora troppo fresco per non sfrigolare di carne bruciata.
Mai Vi avevo visto piangere. Eppure sono lacrime, quelle. Gocce di uomo che arpionano il contegno delle palpebre per non rotolare di confessione.
“Vorrei…vorrei che tu lasciassi l’uniforme, Oscar.”
Voleva tornare a dormire, da quella maledetta notte. Voleva soffiare contro quei nembi gravidi di raccapriccianti promesse che sentiva tuonare all’orizzonte.
“Non rimpiango le scelte che ho fatto, gli insegnamenti che ti ho dato. E tu, Oscar, in tutti questi anni mi hai riempito di orgoglio. Ma quella sera…..” Quella maledetta sera “….per la prima volta ho provato una paura insana, assoluta, indomabile. Ho creduto di perderti.”
Una pausa spezzata. Una mano veloce. Un fazzoletto umido di pietà e passione. Se non lo avesse travolto, l’alito nauseabondo di quelle fauci mostruose.
So di cosa parlate. E’ la stessa paura che non mi fa prendere sonno; che mi spinge nel buio per accertarmi che sei nel tuo letto. Un terrore diaccio che viene da dentro, non un pericolo che incombe da fuori.
“La Francia sta cambiando, Oscar. Presto avremo davanti momenti difficili.”
Di nuovo asciutta, la determinazione nei Vostri occhi. Ancora silenziosi, i pensieri che mi rimescolano l’anima.
“Voglio che tu ti tolga quell’uniforme, Oscar, e che cominci a vivere la tua vita di donna.”
Se non l’avesse vista, quella donna in quegli occhi.
“Sono sicuro che è piena Versailles di uomini innamorati della mia bellissima figlia. Sceglieremo quello che farà innamorare te.”
Se non lo avesse udito, quell’uomo in quella voce.
“Vi sposerete e potrete ritirarvi nella villa di famiglia in Normandia, se lo desiderate.”
Se non l’avesse colta, di dolcezza quella mano.
“Che cosa ne dici, Oscar?”
Non siete abituato a parlare di amore. Il Vostro disagio si mescola col mio.
“Ritengo di doverVi ringraziare, padre. L’educazione maschile che mi avete impartito mi ha concesso di vivere una vita che non è alla portata delle altre donne. Mi avete risparmiato i tormenti imposti ad un destino femminile.”
Non sono capace a vivere di donna. La mia gratitudine ad affrancarVi di ansia.
“Se la Francia avrà momenti difficili da affrontare, il mio posto, padre, è in prima fila, come mi avete insegnato.”
Non conosco altra vita che in questa divisa. Le mie cicatrici a guardarVi negli occhi.
“Comunque, l’uniforme che indosso non mi ha certo fatto dimenticare che sono una donna. Infatti, padre, non mi ha impedito di innamorarmi di un uomo”.
Lo conosceva già quell’uomo. Lo aveva visto quella sera. Nei passi di sua figlia, incerti di forze ma robusti di speranza. Era in quel pianto libero di corde, già intrecciato di promessa.
“E dimmi, Oscar. Quest’uomo….è lui che vorresti sposare? ”
Se non lo avesse sentito pulsare. Quel cuore di padre ammutinato di Generale.
“E’ il solo uomo che io posso amare in vita mia, padre”
Non c’è altro amore in questo mio cuore.
“E sia. Domani ne parleremo meglio. E mi dirai di lui.”
Uno sguardo d’intesa. Una danza di cuori. Il tuo nome in comune nei nostri pensieri.
Domani. Di amore e di luce del sole.
 
Nota dell’autrice
Questa storia avrebbe preso chissà quale direzione se nel frattempo che scrivevo Reesejordan non avesse pubblicato “L’addio di Marte”. Una tentazione irresistibile di sfrondare di dubbi e rimpianti il dolore del tuo Generale, amica mia. E’ bastato sostituirlo a Fersen. Il resto è opera di questo padre straordinario.
Ilaria
   
 
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