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Autore: Chipped Cup    23/07/2018    4 recensioni
[ Mini Long di 6 capitoli | Johnlock | Victorian AU ]
Di ritorno dalla guerra in Afghanistan, John Watson si ritrova senza un lavoro né un posto dove vivere. Finisce così a servire la famiglia Holmes, prima come cameriere e, in seguito, come valletto personale del loro secondogenito, Sherlock, un uomo solitario, scorbutico e intrattabile, che sembra nutrire, però, una certa simpatia per l'ex soldato.
Genere: Angst, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Irene Adler, John Watson, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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John Watson



Cercasi

In una famiglia di Gentiluomini, 4 miglia da Londra, un cameriere già ben avviato a questo mestiere. Egli dovrà essere un uomo rispettabile e fidato, con un carattere molto buono e gentile. Intorno ai 30 anni di età. – Per nome e indirizzo, esporre richiesta alla redazione di questo giornale. (1)


John Watson rilesse per l'ennesima volta quelle poche righe della pagina di giornale che aveva strappato ormai da un paio di settimane, quando, reduce dalla guerra in Afghanistan, ancora in ospedale, aveva scorto quell'annuncio e non ci aveva pensato due volte prima di trovare il modo di mettersi in contatto con il redattore.

Aveva disperatamente bisogno di un lavoro, nonché di un luogo dove vivere; era stato ferito in battaglia e rimandato a casa, ma, ora che era guarito – fisicamente almeno, dato che gli era stato riscontrato anche un disturbo post traumatico – sapeva che non ci sarebbe voluto troppo tempo prima di essere cacciato via dall'ospedale per liberare il letto. Se fosse stato un giovane soldato alle prime esperienze non ci avrebbe pensato due volte e avrebbe fatto ritorno alla casa in cui era cresciuto, ma aveva passato quell'età ormai da tempo, nonché la trentina, e in più c'era suo padre che, ora come ora, non lo avrebbe mai fatto vivere sotto il suo stesso tetto, pensando che fosse un disonore l'abbandonare il campo di battaglia, seppure per una ferita che lo aveva costretto in convalescenza per settimane; avrebbe preferito saperlo morto, decisamente.

Eppure lui c'era tornato, mezzo morto, ma per suo padre, ex sottufficiale ormai in pensione, non aveva fatto la minima differenza, anzi, a dirla tutta non si era preso neanche il disturbo di passare a visitarlo. Se sua madre fosse stata ancora in vita, John si diceva spesso, sarebbe stato tutto diverso, ma la poveretta era morta di crepacuore quando sua sorella Harriet, poco più che diciassettenne all'epoca, si era fatta mettere incinta da un provincialotto senza il minimo carattere o personalità. Harry si era sempre ritrovata in mezzo ai guai, John era più piccolo di lei di sei anni, ma non c'era un singolo ricordo nella sua memoria privo dei suoi genitori disperati per il comportamento della giovane. Eppure era la preferita di Mr. Watson, la sua protetta, nessuno avrebbe mai saputo spiegarne il motivo. E John, comunque sia, sicuramente non avrebbe mai potuto chiedere aiuto alla sorella: lei, suo marito Claire (2) e il piccolo Hamish non se la passavano troppo bene già da soli, figuriamoci se avessero dovuto mantenere anche lui! No, non c'era un'altra alternativa, John doveva riuscire ad avere quel lavoro.

Il dottor Stamford, il suo medico nonché vecchio amico, lo aveva aiutato ad ottenere nome e indirizzo della famiglia in questione e quindi anche un colloquio. Ed ora eccolo, seduto in un vecchio vagone vuoto, accanto al finestrino di un treno partito ormai da un'oretta buona. Non faceva altro che rigirarsi quel pezzo di carta tra le mani, agitato e sconfortato, oramai conosceva quelle poche parole a memoria, ma proprio non riusciva a staccarvi sopra i suoi occhi.

I Watson erano una famiglia borghese non molto conosciuta ma rispettabile e rispettata da chiunque avesse avuto il piacere di conoscerla, che si era piano piano sgretolata dopo la morte di Mrs Watson. John avrebbe ricordato per tutta la sua vita sua madre come una donna gentile e premurosa, che aveva sempre voluto il meglio per i suoi figli. Desiderio che purtroppo non si era esaudito neanche lontanamente. Era bastata una singola occhiata al pancione di Harriet per farla cadere a terra svenuta, si era ammalata ed era morta poche settimane dopo. John era stato al suo capezzale costantemente, l'unico della famiglia ad averlo fatto, tra l'altro. Harriet e Claire si erano sposati un mese dopo e si erano trasferiti in città, in quella che era una catapecchia più di una casa; John si era arruolato ed era partito in guerra non appena compiuta la maggiore età, non sopportando più l'idea di dover vivere solo con suo padre. Una volta tornato, avrebbe preferito vivere per strada piuttosto che tornare in quella casa o anche solo chiedere aiuto a quell'uomo spregevole. Aveva imparato fin da subito a cavarsela da solo, il lavoro manuale non lo spaventava di certo.

Il problema nasceva ugualmente, però, difatti lui non aveva la minima esperienza come cameriere e, a quanto aveva capito, la famiglia Holmes era piuttosto potente, dovevano vivere in una grande casa e i loro domestici dovevano essere impeccabili, tutti, dal primo all'ultimo.

Non sarebbe mai stato preso, se lo sentiva, non faceva che ripeterselo, e forse era meglio cominciare a cercare qualche altro annuncio, un altro lavoro in una casa più piccola e in una famiglia meno impegnativa, magari. Immerso com'era nei suoi pensieri, si accorse solo alla fine che il treno aveva cominciato a perdere velocità e che la stazione cominciava a vedersi a vista d'occhio. Ci avrebbe pensato dopo, si disse.

Accartocciò il pezzo di giornale, se lo ficcò in tasca e afferrò il suo bagaglio a mano, che conteneva solamente qualche indumento e niente più. Uscito dalla stazione di Londra, fermò una carrozza, diede l'indirizzo di casa Holmes e si accomodò, pronto a tutto. Provò a godersi il viaggio tranquillo, ma non poteva fare a meno di notare come la carrozza passasse dall'andatura lenta ad una decisamente più veloce da un momento all'altro. Quando lo fece notare al cocchiere, questa parve stabilizzarsi una volta per tutte, peccato che, a quel punto, erano giunti a destinazione. O così, almeno, era quello che gli fu comunicato, lasciandolo perplesso. Si affacciò al finestrino dell'abitacolo, strizzò gli occhi un paio di volte e provò a cercare la minima traccia di un'abitazione, con il risultato che non riusciva a vedere nulla aldilà di un'immensa distesa verde e folti alberi maestosi.

«Vuol dire che la dimora degli Holmes è oltre questa boscaglia?» Domandò, allora, John piuttosto confuso e accigliato, rivolto ad un cocchiere, invece, visibilmente divertito dalla faccenda.

«Voglio dire che siamo già entrati nella loro umile dimora, signore, quello che vede è tutto di loro proprietà.»

L'ex soldato si ammutolì, la bocca spalancata per la sorpresa e gli occhi sbarrati. Era preparato ad una famiglia ricca, ma non avrebbe potuto neanche lontanamente immaginare che i loro beni fossero così tanto vasti. Tornò a sedersi composto, ormai era certo che non lo avrebbero mai accettato tra i domestici, forse neanche come sguattero. Dopo vari minuti, la sua attenzione fu rivolta al tetto di una casa bianca, bianchissima, che cominciava a comparire oltre gli alberi e i cespugli. Non potendo contenere la curiosità, si mosse subito per sporgersi, ancora, dal finestrino, come incantato dalla maestosità a cui stava andando in contro.

La dimora degli Holmes gli appariva gigantesca e imponente man mano che la carrozza le si avvicinava; mentre percorrevano il viottolo d'ingresso si disse mentalmente di levarsi quell'espressione da imbecille dalla faccia, o non ci sarebbe stato bisogno del minimo colloquio prima di rispedirlo da dove era venuto.

Scese dalla carrozza incerto, gli sembrava tutto così lontano dalla sua portata; pagò il brav'uomo per il viaggio e, valigia in una mano, bombetta nell'altra, restò qualche minuto fuori, nel cortile di casa, a rimirarla e a convincersi che tutto ciò fosse vero. Tre piani pieni zeppe di finestre che lasciavano presagire la presenza di parecchie camere – non invidiò minimamente le cameriere che dovevano pulirle tutte, ogni mattina, anche se queste non erano occupate da nessun ospite; stile georgiano, notò subito il tetto spiovente formato da mattoncini grigi e la veranda ben curata che portava alla porta d'ingresso. Gli era parso di vedere anche una serra, mentre arrivava, probabilmente Mrs. Holmes doveva essere un'appassionata, si disse.

«Desidera?» Talmente preso a rimirare la casa, non si era minimamente accorto dell'arrivo di un uomo sulla cinquantina, divisa nera con tanto di camicia bianca e di un bolero, capelli corti brizzolati e un viso dai tratti rilassati e gioviali, che in quel momento appariva serio per giuste cause.

«Salve» salutò John, portando la bombetta sotto l'ascella in modo da poter allungare la mano con fare amichevole «mi chiamo Watson, John Watson, per il lavoro da–»

«Il cameriere, certo» concluse quello, illuminandosi improvvisamente ed emettendo un grosso respiro profondo, che fece sbattere le palpebre all'ex soldato, sempre più perplesso. «Lestrade» affermò poi stringendogli la mano alla svelta, prima di indicargli un punto indefinito alla sua destra «passiamo dalla porta del retro, questa è utilizzata dai signori e i loro ospiti». Gli spiegò tranquillo prima di fargli strada, John annuì silenzioso e lo lasciò passare, seguendolo poi lentamente, lasciandosi scappare occhiate, lungo il tragitto, a destra e a manca. «Non l'aspettavamo, ad essere onesti – prego, per di qua» lo portò in una piccola stanzetta con posizionata proprio al centro una scrivania di legno e due sedute; non era molto arredata, era provvista di qualche scaffale contenente dei libri e un armadio – probabilmente per le uniformi.

John si sedette davanti a lui, poggiò la valigia ai suoi piedi e il cappello sulla scrivania. «Non mi aspettavate?» Gli fece eco, senza aver paura di mostrarsi confuso, questa volta. «Il dottor Stamford non vi ha parlato di me?» Lestrade annuì appena con il capo, non facendo altro se non aumentare la sua perplessità.

«Sì, ci ha detto tutto» replicò e, notando poi una sorta di luccichio preoccupato nei suoi occhi, si affrettò a continuare. «Il Signor Stamford e il Signor Holmes si conoscono da un paio di anni; Stamford è il medico fidato di questa famiglia, per qualsiasi evenienza ci rivolgiamo a lui. Stamford ci ha parlato del Signor John Watson – lei, ovviamente, ci ha già detto del suo trascorso come soldato e dei disturbi che il ritorno a casa ha riportato. Per il Signor Holmes non c'è il minimo problema e sarebbe lieto di accogliere un servitore del nostro Paese in questa casa.»

John strabuzzò gli occhi una, due, addirittura tre volte, facendo ridacchiare Mr. Lestrade sotto i baffi. Aveva capito male, o aveva appena ottenuto il lavoro? E senza nemmeno il minimo accenno di un colloquio? No, le cose dovevano essere due: o era tutto uno scherzo e si stavano divertendo a sue spese, o gli stava nascondendo qualcosa, qualcosa di spiacevole.

«Non mi fraintenda, Signor Lestrade, sarei più che felice di essere preso per questo lavoro, ma non sarei a posto con la coscienza se non le dicessi che non ho la benché minima esperienza come cameriere. Sono certo che il Dottor Stamford si è ben visto dall'omettere questo importante dettaglio, pensando di farmi un favore.»

Lestrade si grattò appena il capo, palesemente nervoso. Ecco, aveva toccato un nervo scoperto, allora c'era veramente qualcosa che puzzava di bruciato in quella faccenda. «Vede Signor Watson... le cose stanno così: questa non è una famiglia semplice. Le ho detto che non l'aspettavamo – anzi che non aspettavamo nessuno per un bel po' di tempo almeno, ed è la pura verità. I Signori Holmes, i figli intendo, e la Signorina Holmes mettono continuamente a dura prova i nervi di tutti: solo nell'ultimo mese abbiamo perso due camerieri e una cuoca. Scappano, tutti loro. Naturalmente nutro un profondo affetto per tutti e tre e se sto parlando di loro in questo modo è perché ne sono stato autorizzato dagli stessi Mr. e Mrs. Holmes, ma il punto è questo, Signor Watson, in questo momento probabilmente arriveremo ad accogliere perfino un senzatetto.»

«Grazie?» Replicò John, senza sapersi trattenere, non sapendo bene se ritenersi offeso, fortunato o spaventato. La verità era che si sentiva elettrizzato e decisamente curioso di conoscere quella famiglia. Era arrivato in quella casa in cerca di una sistemazione, ora cominciava a sentire di poter trovare dell'altro. Sicuramente qualche stimolo, qualcosa che potesse riaccendere quella fiamma che la guerra gli aveva spento e portato via per troppo tempo.

«Non era mia intenzione offenderla» si premurò Lestrade, rendendosi conto di non aver usato delle parole molto lusinghiere, anzi tutt'altro. «Davvero. Sono certo che in poche settimane sarà diventato un cameriere perfetto, magari anche prima» provò con un sorriso, John incurvò appena gli angoli della bocca verso l'alto. Meglio non andare a specificare che l'essere un cameriere perfetto non fosse mai rientrato nelle sue aspirazioni.

«Quindi –» cominciò a dire, piuttosto «quindi è tutto qui? Ho ottenuto il lavoro?»

Il Signor Lestrade annuì piano. «Esatto. Sempre se lo desidera ancora, dopo quello che le ho detto. E non sarà una passeggiata, mi creda: questa famiglia pretende ordine ed efficienza, è chiaro che se anche solo una delle due cose dovesse arrivare a mancare...»

«Verrei cacciato via, sì, mi sembra più che lecito.» Dichiarò l'ex soldato per niente preoccupato a tal proposito, quanto, invece, piuttosto emozionato all'idea di mettersi in gioco. Forse era semplicemente pazzo. Forse avrebbe davvero trovato il suo posto, in quella famiglia, che sembrava tutto fuorché normale. «Comunque sì, voglio ancora il lavoro, certo. Quando potrò cominciare?»

«Da questa sera stessa» gli rispose l'uomo, alzandosi in piedi improvvisamente per stringergli la mano e sancire così quel nuovo rapporto lavorativo. «Si tenga pronto a servire per la sua prima cena, Signor Watson.»


*


Lestrade gli aveva subito mostrato la sua stanza, in modo da permettergli di cambiarsi e sistemare le sue cose. Lo aveva portando verso un corridoio che gli parve immenso, in un primo momento, pieno zeppo di porte di legno scuro che andavano risaltando messe vicino alle pareti bianche. La sua stanza era una delle centrali, avrebbe detto la terza o forse quarta porta sulla destra; l'interno si rivelò più piccolo di quanto avesse immaginato: il letto, l'armadio, un comodino e una sedia riempivano completamente quella quattro mura. Lestrade lo lasciò solo, dopo avergli spiegato dove avrebbe trovato la cucina e avergli detto di fare con calma e di ambientarsi – John, comunque, notò l'apprensione con cui pronunciò certe parole, tanto da capire come avesse fatto meglio a cambiarsi in fretta e raggiungere l'uomo quanto prima.

Appoggiò la valigia sul letto, prima di riprenderla e spostarla così sulla sedia. Si sedette, quindi, sul letto, duro e scomodo, non avrebbe avuto comunque problemi a dormirci sopra, ne aveva passate di peggio. Mise la bombetta sulla valigia e si guardò finalmente intorno, le mani sulle ginocchia: si sentiva spossato da quegli ultimi eventi, il suo cervello gli impediva di collegare quel susseguirsi di avvenimenti, quasi non riusciva a credere a dove si trovava. Pensare che solo quella mattina si era detto di premurarsi di cercare un altro lavoro, convinto com'era di non essere all'altezza per quello.

Anche se, in effetti, non lo era, e presto lo avrebbero constatato tutti, Mr. e Mrs. Holmes in primis. Si sentì prendere improvvisamente dal panico: fra poche ore avrebbe servito la famiglia – a quanto aveva capito, erano in cinque, e non aveva la più pallida idea di cosa questo comportasse. Scattò in piedi e prese a cambiarsi in fretta e furia, indossando la divisa che aveva trovato ben riposta nell'armadio altrimenti vuoto, ben deciso a tornare a cercare Lestrade così da tempestarlo di domande.

In cucina vi aveva trovato gran parte della servitù ed erano state fatte così le varie presentazioni. Parvero tutti felici della sua presenza, ad eccezione del primo cameriere, il Signor Anderson, che non si fece troppi problemi a guardarlo di sottecchi per tutto il tempo, forse preoccupato che potesse soffiargli il posto da un giorno all'altro. Lestrade venne in suo aiuto, allontanandolo dal gruppo e impartendo l'ordine di preparare la cena, rimarcando il fatto che fossero in ritardo.

Gli spiegò tutto quello che l'essere un cameriere comportava, dettagliatamente, tanto che John fu costretto a cacciarsi indietro tutte le domande che avrebbe voluto porgli, perché aveva già risposto a tutte. Non sembrava un lavoro difficile, perciò parve rassicurarsi. Lestrade, poi, gli chiese quanto ne sapesse sulla disposizione della tavola, ovvero un bel niente; gli impartì una lezione veloce chiedendogli di imparare gli ordini della varie forchette, cucchiaini, bicchieri e quant'altro il prima possibile.

Apprese poi che la servitù fosse solita pranzare e cenare dopo l'aver servito i padroni (3), ma per lui, solo per quella volta era da intendersi, fecero una piccola eccezione, servendogli un po' di zuppa di farro con una fetta di pane, dato che non aveva mangiato niente per tutto il giorno.

Arrivata l'ora di cena, Lestrade chiamò lui e Anderson, rassicurò John di seguire l'uomo e di imitarlo in tutto e per tutto, gli consigliò di non prendere iniziative e soprattutto di non fare casini. Già, gli disse proprio così, John ebbe l'impressione che fosse un ammonimento, più che un consiglio.

Una volta entrato nella sala da pranzo, ancora prima di prendere il primo vassoio, lanciò subito un'occhiata alla tavola ben apparecchiata, osservando per la prima volta i suoi padroni: Mr. Holmes era seduto a capotavola, sembrava non dover avere più di settantanni: in quel momento stava conversando tranquillo con l'uomo alla sua destra – probabilmente il figlio maggiore; aveva uno sguardo bonario e tratti gentili, ben lontano dall'idea del padrone austero che si era fatto in quelle settimane – e in quelle ore. Idea che sembrava riflettersi completamente in quello che, quasi subito, scoprì essere Mycroft Holmes, il primogenito della famiglia, il cosiddetto erede.

Mycroft ascoltava, forse annoiato, le chiacchiere di suo padre, risultava serio, il suo viso contratto in un'espressione di repulsione e disgusto nei confronti di qualcosa – di tutto, avrebbe osato dire nelle settimane a venire.

Al fianco di Mycroft sedeva l'unica figlia degli Holmes, Eurus, i capelli scuri raccolti in quella che era l'acconciatura all'ultima moda, un vestito di seta rosso, forse troppo sfarzoso per un'occasione semplice come quella a cui si presentava. Stava cambiando l'ordine delle posate, alternando sguardi prima a sua madre e poi a suo padre, come a voler attirare la loro attenzione.

Dall'altro lato della tavola, sedeva Mrs. Holmes, una donna dall'aspetto decisamente più severo e autoritario di quello di suo marito, ma che si premurò di riservargli un piccolo sorriso rassicurante, una volta resasi conto dello sguardo che John le stava riservando – che stava riservando a tutti, per la verità. Colto in flagrante, sentì le punte delle orecchie cominciare ad arrossirsi, si girò subito quindi, abbassando gli occhi imbarazzato. Anderson, per fortuna, non si era accorto di nulla o, ne era certo, non avrebbe perso tempo a rimproverarlo davanti a tutti, solo per farsi beffe di lui e sentirsi in qualche modo potente.

Ma quell'uomo non rientrava minimamente nei suoi pensieri, al momento, la testa dell'ex soldato era tutta per quella seduta vuota, alla sinistra del Signor Holmes, che aveva fin da subito catturato la sua attenzione. Era evidente che appartenesse al secondogenito della famiglia, tuttavia continuava a chiedersi il motivo della sua assenza da tavola. Forse era impegnato in qualche viaggio, magari stava partecipando a una festa in compagnia dei suoi amici altolocati, o forse era scappato per incontrare una qualche signorina che aveva conquistato il suo cuore. Si stava decisamente facendo troppo trasportare dalla fantasia, doveva smetterla o avrebbe rischiato di rovesciare qualche portata a terra.

Si sbrigò a seguire Anderson, stando ben attento a tenersi ad una distanza minima di due passi: il primo da servire era, ovviamente, Mr. Holmes.

«Sherlock non ci farà l'onore di unirsi a noi neanche questa sera, caro?» Aveva appena finito di chiedere Mrs. Holmes, diretta forse a suo marito o magari a suo figlio. Sherlock, John memorizzò quel nome particolare nella sua testa, capendo subito di chi stessero parlando.

«No, mamma» il figlio maggiore fu grato di avere finalmente una scusa per interrompere la conversazione con suo padre, così non perse altro tempo e si girò alla svelta verso la donna «è impegnato con lo studio delle ceneri di tabacco, questa volta. Ne ha già trascritte, se non erro, quarantasette diverse.» Ceneri? John era confuso, ma cercava di non darlo a vedere, mantenendo un'espressione seria; Anderson si era appena avvicinato al Signor Holmes e adesso l'uomo si stava servendo.

«Ceneri, adesso?» Fece eco la Signora Holmes, con un sopracciglio alzato, sotto lo sguardo divertito della figlia che non aveva intenzione di perdersi neanche un passaggio di quel dialogo. «Mycroft, davvero, devi fare qualcosa. Non può rinchiudersi nella sua stanza per tutto il tempo senza mangiare né dormire – ricordate il mese scorso? Non ha lasciato la serra neanche per un singolo giorno e quando ne è uscito aveva un aspetto orribile.»

Mrs. Holmes pareva sinceramente preoccupata dalle condizioni del suo secondo figlio e John non poteva che darle ragione. Ceneri, serra, niente cibo e niente sonno. Studi, soltanto degli studi. Chi era Sherlock Holmes? Una specie di studioso? Le sue fantasticherie di poco prima erano state completamente spazzate via, ma la curiosità non era di certo diminuita, bensì aumentata.

«Oh, e così eccolo qui, il nuovo cameriere!» Sentì lo sguardo di tutti i presenti puntato su di sé, Mr. Holmes aveva interrotto ogni possibile discorso nel momento in cui Anderson si era spostato verso Mycroft e John aveva preso il suo posto, sporgendosi affinché l'uomo potesse prendere ciò che meglio gradiva dal vassoio d'argento. Ancora chinato con la schiena in avanti, abbozzò un sorriso imbarazzato verso il suo interlocutore, non sapendo bene cosa replicare: Lestrade non lo aveva preparato per una situazione del genere. «Watson, è esatto?»

«Sì, signore» esclamò in qualche modo sollevato «John Watson.» Percepì i gelidi occhietti del maggiore degli Holmes, fin troppo presi a studiarlo e ad esaminarlo, ben diverso dallo sguardo accattivante e curioso che gli stava lanciando Eurus: sembrava quasi stesse pensando a un modo per farlo fuori.

«Spero che si trovi bene, Signor Watson» affermò la Signora Holmes, a nome di tutti – o forse no, prima di riprendere in mano le redini del discorso. «Sono davvero preoccupata per Sherlock, approvo e appoggio ogni suo singolo studio e passione, ma deve smetterla di trascurarsi in questo modo. Non scende a mangiare da due giorni.»

«Sta bene, madre. Non ha bisogno di mangiare, ha bisogno solamente di concentrarsi» provò a rassicurarla la figlia, che aveva parlato per la prima volta da quando John era entrato nella sala. Sembrava che ammirasse sinceramente il fratello, o lo invidiasse, non riuscì a capire troppo bene dove finisse il primo sentimento e cominciasse l'altro.

«Sono proprio curiosa di vederlo concentrarsi mentre è svenuto per la fame» rincarò la donna, determinata com'era ad averla vinta. «Signor Lestrade!» Chiamò il maggiordomo che era rimasto nella stanza per tutto il tempo, a supervisionare. Questi si mosse rapido e composto verso la tavola. «Prima di cenare, può portare un vassoio con degli avanzi a quello sconsiderato di mio figlio e assicurarsi di vederlo mangiare qualcosa?»

Prima che l'uomo potesse rispondere affermativamente, Mycroft si mise in mezzo. «Può andarci il Signor Watson, mamma» dichiarò svogliato, mentre si apprestava a tagliare il pezzo di carne che aveva nel piatto. Sia John, che Anderson, che Lestrade rimasero muti a fissarlo. «Ha cenato prima del resto dei domestici» spiegò, o per meglio dire accennò, prima di cominciare a mangiare. John non poté fare a meno di chiedersi come diavolo facesse a saperlo.

«Allora è deciso» sentenziò, piuttosto, la madre, dopo avergli lanciato un'occhiata rapida «la prego, Mr. Watson, sia paziente. Le basterà aspettare che metta sotto i denti qualunque cosa, poi potrà lasciarlo stare.»

John annuì, per la verità ancora piuttosto dubbioso. Quella giornata si stava rivelando la più strana di tutta la sua vita, faticava davvero a restare al passo con tutto quello che gli capitava intorno. Finirono di servire e si allontanarono dalla tavola, John riuscì a sentire – mentre riempiva un vassoio di cibaria per Sherlock Holmes mettendoci sopra anche un calice di vino e un bicchiere d'acqua non conoscendo le sue preferenze – Miss Eurus apostrofare il fratello con un: «Devi costantemente metterti in mostra? Ce ne eravamo già tutti resi conto, sai?»

Lestrade gli spiegò velocemente come arrivare alle stanze del Signor Holmes, prima di avviarsi con Anderson verso l'ala della servitù. John teneva ben a mente le sue indicazioni, stando ben attento a non perdersi in quella grande casa – era solo il suo primo giorno, ma sarebbe stato ugualmente ridicolo.

Non si fermò ad ammirare quanto sfarzoso fosse quel lampadario o quanto pregiato quel mobile, i quadri rappresentanti gli attuali e i vecchi membri della famiglia non lo solleticarono neanche un po', salì le scale saltando qualche scalino qua e là, talmente desideroso di trovarsi faccia a faccia con quel misterioso Sherlock Holmes. Non avrebbe neanche saputo spiegare cosa o perché gli provocasse tanta curiosità, erano bastate poche parole sul suo conto per accendere quella miccia e ora non avrebbe saputo come spegnerla.

Arrivato davanti la sua porta, picchiettò sul legno due volte con la mano libera ed aspettò l'invito ad entrare. Ma l'invito non arrivò. Aggrottò la fronte e poi si guardò intorno spaesato, si disse che, forse, aveva bussato troppo piano e l'uomo all'interno non aveva sentito il minimo rumore, così riprovò un'altra volta. Niente, tra l'altro, notò, dalla camera non arrivava il minimo suono.

John voltò la testa verso destra, poi verso sinistra, non sapendo bene cosa stesse cercando, forse un aiuto, o forse lo stesso Holmes. Fece per girare i tacchi e tornare verso le cucine, dicendosi che magari l'uomo aveva già lasciato la sua stanza e, vinto dalla fame, era sceso per prendersi qualcosa da mangiare. Ma poi le parole della Signora Holmes gli ritornarono alla memoria, riuscì a sentire la sua voce nonché la sua preoccupazione, provò un accenno di terrore: e se si fosse sentito male? Si girò immediatamente e si sbrigò ad entrare nella stanza.

Trovò subito Sherlock Holmes, fortunatamente vivo e vegeto, semplicemente seduto alla sua scrivania, curvo su un libro aperto. Sospirò e si diede dell'idiota da solo, prima di tossicchiare appena per informarlo della sua presenza. L'uomo, che gli dava le spalle, nell'udire quel suono rizzò la schiena e alzò il capo, ma non accennò minimamente a voltarsi, anzi, avvicinò un quaderno e cominciò a scribacchiarvi sopra.

«Signor Holmes, le ho portato la sua cena» provò ad informarlo John, sporgendosi appena per osservarlo meglio. Sherlock, che aveva voltato il viso per il tempo che bastava ad indicargli un posto dove poggiare il vassoio, era un uomo sulla trentina, sicuramente più piccolo di lui anche se di pochi anni, forse ne aveva 32 o 33; piuttosto magro, avrebbe osato dire quasi pelle e ossa e adesso capiva da dove nascevano tutte le preoccupazioni di sua madre, schiena dritta e un folto cespuglio di capelli ricci, neri e, dall'apparenza, indomabili. Posò il vassoio, ma quello parve non vederlo neanche; passarono vari minuti, prima che John si decise ad aprire bocca un'altra volta. «Non mangia?»

«Sono occupato, al momento» rispose velocemente, con una voce calda e profonda, concentrata ed eccitata, probabilmente, da un'imminente nuova scoperta.

«Ci vorrà ancora molto?»

Sherlock alzò gli occhi dalle sue annotazioni, non lo guardava in volto ma riusciva comunque a vederlo alzarli al cielo. «Sì, mi ci vorrà molto. Ore. Forse un'altra giornata di lavoro.»

«Ma sua madre mi ha gentilmente chiesto di restare qui ad assicurarmi che lei mangi qualcosa. Sa, si preoccupa e–»

«Non fa altro da anni» commentò sovrappensiero, aspro. Watson ingoiò saliva e strinse i pugni, deciso a non dargliela vinta.

«Beh, sono certo che non le toglierà troppo tempo, fermarsi per mettere un po' di cibo sotto i denti. Le ho portato anche dell'acqua, e del vino, se preferisc–» si era fatto avanti per indicargli il calice e, magari, avvicinarglielo, ma Holmes aveva voltato il capo nella sua direzione quel tanto che bastava per guardarlo con la coda dell'occhio.

«E perché mai dovrei preferire il vino?! Non vede cosa sto facendo? È troppo stupido per rendersi conto che ho bisogno di rimanere concentrato e focalizzato su questo studio?» John ammutolì, di nuovo, impegnato com'era a cercare di resistere alla tentazione di tirare un pugno in piena faccia del suo nuovo datore di lavoro, o quello che era. Ora cominciava a capire come mai i precedenti camerieri avevano tutti gettato la spugna, scappando il più presto possibile da quella casa. «E, a questo proposito, può benissimo andare via, adesso. Non riesco a pensare con la sua stupida faccia puntata addosso.»

«Può almeno mangiare qualcosa, qualsiasi cosa, prima, Signore?» Apostrofò il titolo con una punta d'ironia che di certo non sfuggì all'uomo; si pentì subito, mordendosi il labbro inferiore e preparandosi ad un rimprovero, che fortunatamente non arrivò. Sentì Sherlock sbuffare, prima di tornare a ignorarlo completamente mentre avvicinava verso di sé un piattino contenente quella che sembrava cenere. C'erano molti piattini sparsi nei vari angoli della stanza, constatò. «Signor Holmes, sono serio. Non lascerò questa stanza fino a quando non la vedrò afferrare anche solo una singola fetta di pane e mangiarla, perciò decida lei, potrei levarmi di torno subito oppure restare qui a importunarla con la mia stupida faccia per tutta la notte.»

Holmes non replicò, né mosse un singolo muscolo, eppure parve valutare le sue parole, cercare di capire se fosse serio o se stesse provando soltanto a mostrarsi risoluto. Alla fine cedette, allungò il braccio verso il vassoio e afferrò una piccola tortina al cioccolato che John doveva aver preso senza quasi pensarci, e se la portò alla bocca prendendone un morso. John rimase il tempo necessario per assicurarsi che la finisse, poi si riavvicinò alla scrivania, gli lasciò il bicchiere dell'acqua, riprese il vassoio e, dopo essersi congedato, lo lasciò solo.


*


Le prime ventiquattro ore all'interno di casa Holmes passarono piuttosto rapide, John riuscì per tutto il tempo a trovare il modo di tenersi occupato, non che ce ne fosse realmente bisogno tra Lestrade, che non smetteva di mandarlo da una parte all'altra delegandogli la maggior parte dei suoi compiti, e Miss Eurus che lo mandava a chiamare di continuo, facendosi portare talvolta un semplice bicchiere d'acqua o chiedendogli di spostare quel vaso di fiori dall'odore nauseante. John aveva il vago sospetto che nessuno di quei compiti gli spettasse davvero, ma a quanto pareva in quella famiglia erano tutti piuttosto eccentrici, perciò si disse che doveva solamente lasciar correre e farci l'abitudine.

Incrociò il Signor Holmes un paio di volte, nel giardino, impegnato a lanciare un bastone in modo che il suo cane, un bellissimo setter irlandese, potesse correre a riprenderlo. La Signora Holmes l'aveva vista solamente quella mattina, a colazione, poi era uscita con una carrozza, appena ricevuto un invito da parte di una sua vecchia amica per andare a prendere il tè. Mycroft lo aveva ritrovato più volte in biblioteca, sempre talmente preso dalla lettura che quasi pareva non accorgersi della sua presenza, eppure ogni volta, non appena John si girava, si sentiva come osservato.

Sherlock, invece, non lo vedeva dalla sera prima. Non sapeva cosa aspettarsi da lui, eppure si era ritrovato a sperare di vederlo comparire per la colazione. C'era stato qualcosa, in quel loro primo e strano incontro, che lo aveva tenuto sveglio per quasi tutta la notte: continuava a pensare alla sua camera completamente disordinata, a tutte quelle cianfrusaglie sparse per la scrivania, le coperte del letto disseminate di piattini contenenti ceneri dall'aspetto e dalla consistenza tutti diversi fra loro. E quel suo atteggiamento, così schivo e scontroso. Gli altri componenti della famiglia si erano dimostrati tutti gentili e, chi più chi meno, affabili, mentre Sherlock appariva così solitario e serio, eppure John era certo di aver visto un accenno di sorriso, quando si era imposto con le parole e lo aveva convinto a mangiare. Era quell'ombra di un sorriso a non avergli fatto chiudere occhio.

Si era ritrovato a parlare di lui con Miss Hooper, Molly, una delle cameriere in servizio da cinque mesi. Non gli aveva saputo dire molti particolari, confessò lei stessa di non averlo visto molto in giro, che era sempre impegnato in uno studio o in una ricerca diversa, provava sempre a tenersi impegnato, disse. Da come parlava, dagli occhi sognanti che non fu capace di nascondere, John intuì una certa infatuazione, perciò lasciò cadere l'argomento.

Mrs. Hudson, la governante, lo aveva riempito di domande, durante un'ora di riposo, stando ben attenta a non entrare troppo nel personale, cosa che John apprezzò. Anche la donna gli parlò un po' dei tre Holmes; era in servizio presso la famiglia da anni e li aveva visti crescere. Gli parlò di Mycroft e poi di Eurus che lei definì completamente agli antipodi, ma le domande di John, ancora una volta, giravano tutte intorno a Sherlock. La donna rivelò come si fosse affezionata prima al ragazzo e poi all'uomo, nel corso del tempo; sapeva che Sherlock si fidava completamente di lei, tanto che più volte le aveva chiesto consiglio. Si vantò di essere una delle poche persone all'interno della casa che Sherlock rispettava. Gli accennò anche ad un incidente passato che lo aveva cambiato profondamente, ma non volle aggiungere altro e, anzi, cercò una scusa per allontanarsi e interrompere la conversazione.

Comunque stavano le cose, John sapeva che l'unico che potesse rispondere alle sue domande su Sherlock Holmes, fosse Sherlock Holmes stesso, palesandosi magari, rivolgendogli frecciatine annoiate e antipatiche di tanto in tanto. E Sherlock lo fece, quella sera stessa.

Lui e Anderson avevano, ormai, quasi finito di servire la famiglia, quando la porta della stanza si aprì lasciando passare l'uomo dall'aspetto più disordinato ma al tempo stesso elegante che John avesse mai visto. Lo riconobbe subito grazie alla chioma nera scompigliata. Ne approfittò per gettargli un'ulteriore occhiata: era decisamente alto e slanciato, magro, molto, come aveva constatato già la sera prima; indossava pantaloni neri di quelli che dovevano far parte di un completo da sera, una camicia bianca aperta sui due bottoni superiori che lasciava così intravedere il collo lungo e le ossa leggermente sporgenti. Sulla camicia, poi, con grande orrore dei Signori Holmes, di sua madre ma in particolar modo di suo fratello, portava una vestaglia da camera lunga e color beige.

«Sherlock! È così indecoroso, e il Signor Carter ti ha lasciato scendere conciato così?» Sherlock alzò gli occhi al cielo sentendo le parole di sua madre, sospirò e attraversò la stanza, seccato e, quasi, disgustato. Prese posto alla sinistra di suo padre, sistemò una forchetta che era stata appoggiata leggermente più in là del dovuto, prima di voltarsi a guardare la donna.

«Sono sceso soltanto per evitare di essere interrotto e infastidito da un altro dei tuoi camerieri, mamma. Finito di mangiare tornerò nella mia stanza a finire il mio studio, non c'è nessuna ragione di vestirsi in maniera pomposa per una manciata di minuti in cui sediamo insieme!» John osservò Mycroft alzare gli occhi al cielo, mentre la Signora Holmes prese a rimproverarlo e a intimargli di andare ad indossare qualcosa di più adeguato, ma Sherlock parve fingere che non esistesse neanche. Fu costretto a nascondere un sorrisetto divertito da quel quadretto, mentre seguiva Anderson così da poter servire il nuovo arrivato.

«Come va lo studio della cenere, Sherlock?» Gli domandò la sorella, che sembrava sinceramente interessata e affascinata.

«Bene, molto bene. Sono arrivato a trascrivere 187 diversi tipi di cenere, ma ho ancora molto altro lavoro da sbrig– e lei chi diavolo è?» John, che si era appena chinato per servirlo, si girò nella sua direzione quasi allo stesso tempo, ritrovandosi ad una distanza imbarazzante dal suo volto. Spalancò la bocca, sentì le guance imporporarsi appena, sperò che non si notasse grazie alle luci; Sherlock, dal canto suo non batté ciglio, scrutandolo con aria interrogativa, gli occhi – John poté specchiarcisi completamente dentro, di ghiaccio appena assottigliati, la bocca incurvata quasi a disegnare un cuore, leggermente socchiusa in modo pensoso. Chinò di poco il capo, questo non fece altro che mettere in risalto gli zigomi già di per sé abbastanza pronunciati. John si sentì mancare il respiro, rendendosi conto di non aver pronunciato una sola parola e di essere rimasto con un'espressione idiota in faccia per più di dieci secondi, ormai.

«Watson, signore, John Watson» si presentò incerto. Del resto si erano visti solamente la sera prima, non riusciva a capire dove nascesse la sorpresa dell'uomo. Oltre al fatto che... lui non lo aveva minimamente guardato, troppo occupato col suo lavoro. Doveva immaginarlo.

«E questo dovrebbe dirmi qualcosa?» Rincarò l'altro, piegando appena il capo all'indietro e guardandolo sarcastico. John lo guardò torvo senza rendersene conto.

«Sono il nuovo cameriere, signore» pronunciò con lo stesso tono ironico della sera prima, ricordandosi poi di essere alla presenza dell'intera famiglia, perciò si ridiede un tono, rizzando la schiena e portando il vassoio in alto, pronto ad allontanarsi. Notò che, fortunatamente, gli altri avevano cominciato a mangiare e sembravano non dare loro troppo conto. Almeno all'apparenza.

«Oh!» Esclamò Holmes, i suoi occhi si illuminarono di colpo; Mycroft alzò appena lo sguardo dal suo piatto. «Sì, ricordo. L'idiota che ha interrotto un lavoro che andava avanti da quasi quarantotto ore» John improvvisò un sorrisetto ironico, per niente ferito dall'offesa. «Beh, in questo caso, può portare la sua stupida faccia da un'altra parte, Signor Watson, mi sono servito a sufficienza.»

«Signore» si congedò Watson, mimando un inchino, prima di allontanarsi, le labbra incurvate verso l'alto. Anche Sherlock sorrideva lievemente, osservandolo di sottecchi mentre si incamminava fuori dalla stanza, passando sotto gli occhi di uno sconcertato Lestrade.


*


Da quella sera, vide Sherlock Holmes presentarsi a colazione e a cena a giorni alterni, prima, quotidianamente, poi. Non mangiava molto, c'erano giornate in cui non toccava minimamente cibo e non apriva bocca; in quelle giornate tutti avevano imparato a lasciarlo in pace, nessuno osava nemmeno sfiorarlo: l'uomo se ne rimaneva seduto a tavola, in silenzio, gli occhi chiusi e le mani giunte a mo' di preghiera sotto il mento. In quelle occasioni, l'intera stanza era immersa nella pace più totale, nessuno emetteva il minimo fiato. John amava particolarmente quella solennità che veniva a crearsi, i genitori parevano assecondare il figlio che a sua volta assecondava loro facendogli il dono della sua presenza, Mycroft sembrava non farci caso, Eurus, invece, ne era infastidita.

Per due settimane quelle furono le uniche occasioni in cui poté vedere Sherlock Holmes, e parlargli. Non che si dicessero troppe parole: Sherlock, per la maggior parte, trovava nuove offese da rivolgergli e lui gli rispondeva a tono, al limite del rispetto, ovviamente, per non rischiare di essere cacciato via. La realtà era che nessuno gli diceva niente o lo ammoniva, forse contenti di avere finalmente qualcuno nel personale che non temesse Sherlock e che non gliela desse troppo vinta.

Proprio quando John aveva cominciato ad ambientarsi, i Signori Holmes invitarono vari amici a cena, per un totale di cinque famiglie. La cucina era disseminata di piatti e pietanze, persone che correvano avanti e indietro senza sosta né una meta, la cuoca che cominciava ad imprecare contro chiunque le si avvicinasse, Lestrade che, irrequieto, continuava a ripetere che gli ospiti sarebbero arrivati a momenti e questo non faceva che innervosire e agitare tutti quanti. La cena fu poi servita, in perfetto orario e in maniera impeccabile: per i domestici fu una vera liberazione. I signori, dopo la cena, si allontanarono per discutere di affari, le donne si raggrupparono poco più in là per spettegolare – Mrs Holmes e sua figlia apparivano più che annoiate dall'argomento –, i camerieri furono quindi congedati.

John stava avviandosi insieme agli altri, quando notò la figura di Sherlock Holmes, avvolto in un pesante cappotto nero, tentare di sgattaiolare via, stando ben attento ad emettere il minimo rumore. John rimase qualche secondo ad osservarlo divertito, prima di decidersi a seguirlo, mantenendo una sorta di distanza di sicurezza, così non farsi scorgere. Lo vide fermarsi in un angolo isolato nel retro della casa, tirare fuori dalla tasca della giacca una sigaretta, guardarsi intorno probabilmente per assicurarsi che non ci fosse nessuno, accenderla e portarsela alle labbra, soddisfatto.

«Quelle la uccideranno!» Esclamò allora Watson, uscendo finalmente fuori e prendendolo di sorpresa – o così almeno pensava. Quando l'ebbe raggiunto, notò l'espressione divertita dell'uomo e si accigliò.

«Cominciavo a domandarmi quando si sarebbe deciso a rivelarsi, Signor Watson. Ma lei pensava di impressionarmi, a quanto pare, peccato che mi sia accorto di essere seguito e che, tra l'altro, il suo passo pesante e trascinato l'abbia tradita subito.»

«Il mio passo non è pesante!» Ribatté l'uomo, forse troppo velocemente – aveva il passo pesante? No, non lo aveva mai avuto. O sì? Maledizione. Sherlock spostò lo sguardo per nascondere l'accenno di una risata. «Cosa ci fa qui, Signor Holmes?» Domandò poi, ricomponendosi un minimo, non potendo trattenere la sua curiosità ancora a lungo.

«Mia madre non approva» rispose semplicemente, portando la sigaretta in alto, mostrandola come se fosse un trofeo, qualcosa di cui andare fieri, prima di poggiarla nuovamente sulle labbra, inspirare e cacciare fuori il fumo. Ne tirò fuori, poi, un'altra, sempre dalla stessa tasca, porgendogliela.

«Oh no, la ringrazio ma ci tengo alla mia salute» ribadì con un cenno del capo.

«Femminuccia» lo apostrofò l'altro, quasi in un sussurro, non abbastanza basso per non essere udito.

«Medico» lo corresse; Sherlock si voltò a fissarlo, questa volta sbigottito. «O lo sarei diventato se avessi finito gli studi.»

«Cos'è accaduto?»

«Mi sono arruolato in guerra» rivelò, prima di volgere la testa da un'altra parte, evasivo. Sherlock colse il segnale e non indagò oltre. Per qualche minuto regnò il silenzio tra loro, un silenzio strano ma piacevole; ogni tanto si guardavano intorno, o magari guardavano il cielo o si scrutavano di sottecchi credendo che l'altro non se ne accorgesse. «Comunque» mormorò John ad un tratto, come risvegliatosi da una specie di sogno «questo è il posto dove la servitù viene a fumare. Se non vuole farlo sapere in giro, le consiglio di trovarsene un altro, signore. Mai pensato all'albero dietro la serra?» Holmes alzò un sopracciglio lasciando intendere di non avere la più pallida idea di quello che stava dicendo. «Glielo mostro.» Si fece strada incamminandosi in quella serata tranquilla priva di nuvole, Sherlock lo seguiva silenzioso e curioso, alle sue spalle. Si arrestarono un centinaio di metri dopo la grande serra di famiglia, davanti un grande albero circondato di folti cespugli. «Non viene mai nessuno qui, io stesso l'ho scoperto per puro caso: è completamente nascosto dalla serra, vede?»

Sherlock si guardò intorno, osservò il posto, poi la serra, poi ancora la casa alle loro spalle, abbastanza lontana. «Come ho fatto a non vederlo in tutti questi anni?!»

«Perché è un idiota» si rese subito conto di ciò che aveva appena detto e si sentì andare a fuoco; guardò Holmes allarmato, ma quello pareva divertito, molto divertito, tanto che accennò anche una lieve risata che rilassò e contagiò lo stesso John.

Era diverso, quell'Holmes, diverso da ogni singola persona che avesse mai incontrato in tutta la sua vita. John ci pensò per tutta la notte, ancora una volta non chiuse occhio, la risata calda del suo signore impressa nel cervello. Andava avanti a ripetizione, senza sosta, cercava di pensare ad altro, ma con scarsi risultati. Non riusciva a smettere di pensare a lui, e questo andava avanti ormai da settimane; da che ne avesse memoria mai nessuno gli aveva fatto quell'effetto.

Lo incuriosiva, così si ripeteva, ma la verità era che lo attirava magnetico come un pesce all'amo. E ne era terrorizzato, totalmente, e confuso. Non capiva cosa stesse succedendo, cosa gli stesse facendo. Ogni mattina si svegliava e si vestiva assaporando il momento in cui gli avrebbe servito la colazione; una mattina le loro mani si erano sfiorate, per pura casualità, non avrebbe mai saputo dire come, e il suo cuore aveva perso un battito.

Aveva paura di sapere cosa gli stesse succedendo, aveva il terrore di ammetterlo anche solo a se stesso. Perché non poteva essere, sapeva come suonasse sbagliato, e ripugnante. Ed era realmente così, poi, no? Era sbagliato cercare un contatto con quello che, non solo era il suo padrone, ma anche una persona del suo stesso sesso. Era sbagliato sentirsi come ammagliato, fissarlo in continuazione e sentirsi stranamente felice ogni volta che quello ricambiava il suo sguardo. Era sbagliato cercare di catturare la sua attenzione, mettendosi in mostra per il suo carattere e modi di fare. Era sbagliato anche solo conquistare il suo sorriso.

Era sbagliato. Davvero? Continuava a domandarselo, ma non era ancora riuscito a darsi una risposta. Non capiva dove nascesse il male, il ribrezzo, da una cosa che poteva solamente portare del bene. Ed era proprio quel pensiero a tenerlo sveglio la notte, più di tutti. E ogni notte si addormentava, alla fine sfinito, imponendosi di darsi una controllata, di rimanere freddo e cercare di non mostrarsi coinvolto, ma ogni mattina falliva miseramente e si ritrovava a girargli intorno come un cagnolino. E quel che era peggio, era che Sherlock Holmes pareva apprezzare, esserne divertito e, quasi, conquistato.

Era una situazione ridicola, forse. John si sentiva ridicolo.

E le cose non andarono migliorando, o forse lo fecero, dipendeva dal punto di vista con cui si sceglieva di giudicare. Il Signor Carter, il valletto personale di Sherlock, sfinito e portato, forse, all'esaurimento, diede le dimissioni qualche giorno dopo la grande cena. I Signori Holmes erano esasperati, il Signor Anderson al contrario se ne andava in giro con aria di importanza: erano anni che aspirava al ruolo di valletto, ben più importante e rispettabile di quello del cameriere, e quella era la sua occasione per fare il grande salto. Camminò vittorioso per un paio d'ore, fino a quando Lestrade interruppe i suoi sogni di gloria, lasciando tutti quanti sgomenti.

«Watson» annunciò «il Signor Holmes ha chiesto espressamente di lei.»

Qualche istante dopo, John si ritrovò nella stanza di Sherlock, in piedi di fronte a lui che, seduto e mezzo girato verso di lui e mezzo verso la scrivania, stava finendo di leggere un libro, la mano sinistra aperta in alto, un ammonimento a non disturbarlo, non ancora.

«Allora» cominciò a dire, ad un certo punto, gli occhi ancora fissi sulla pagina «partiamo dai problemi: i baffi» alzò la testa, chiudendo il libro con un colpo, andando a posare il suo sguardo su John per la prima volta da quando era entrato nella sua stanza.

«Come?» Domandò l'altro, non seguendo il suo discorso.

«I suoi baffi. Esigo che se li tolga alla svelta. Infastidiscono la vista di tutti, distolgono l'attenzione e, in più, la invecchiano almeno di sette anni.»

John si ritrovò a spalancare la bocca senza volerlo e ad aggrottare la fronte, si domandò se fosse serio o se stesse scherzando. Sherlock rimase impassibile, le ciglia sbatterono piano. «Nessuno è infastidito dai miei baffi, signore!»

«Oh, sì invece.»

«E di certo non mi invecchiano.»

«Glielo garantisco.»

«Ma–»

«Signor Watson» sospirò Holmes, esasperato – lui, lui era esasperato! «Il mio non era un suggerimento, era un ordine. In quanto mio valletto personale sarà obbligato a passare gran parte del tempo in mia compagnia, e io, nella mia di gran parte del tempo, ho bisogno di concentrarmi nelle mie ricerche e nei miei esperimenti e non posso farlo con quei... cosi fissi su di me.» Lo spiegò con naturalezza, come se fosse una cosa normalissima.

Stentava a crederci, John. Niente di quella conversazione aveva un briciolo di senso. «Signor Holmes... ero venuto qui per tutt'altro motivo, a dire il vero: sono onorato di essere stato chiamato per tale compito, ma credo di essere costretto a rinunciare. Non sono preparato per un lavoro del genere, signore, so a malapena fare il cameriere! Credo che Anderson sarebbe più indicato e–»

«Anderson è un idiota» proruppe l'altro, mimando un gesto della mano e mostrandosi infastidito al solo pensiero dell'uomo «e poi occorre una certa intimità, e fiducia, tra valletto e signore e di certo Anderson non è degno della mia.»

«Credevo di essere anche io un idiota, signore» mormorò John ironico, cercando in tutti i modi di ignorare la parola intimità. Sherlock non voleva davvero dirlo, o almeno non voleva lasciar intendere niente del genere, nella sua testa aveva tutt'altro significato, e lui doveva smetterla di trattenere il fiato per determinate cose (e quello era anche uno dei motivi per cui non voleva accettare il lavoro).

«Oh, non lei Watson. La sua faccia. E, mi creda se glielo dico, gran parte della colpa ce l'hanno i suoi baffi.» John, nonostante tutto, rise.

«Non c'è proprio niente che io possa dire o fare che me li faccia tenere, vero?»

Holmes gli sorrise. «Vedo che ha afferrato il concetto.»

«Signor Holmes?» L'uomo era tornato a girarsi verso la sua scrivania, aveva già afferrato il libro che stava leggendo poco prima, ma mormorò ugualmente un soffocato “Mh?” John tirò fuori l'aria che stava trattenendo. «Perché proprio io?» Sherlock alzò gli occhi su di lui, gli lanciò uno sguardo intenso, i ricci che gli cadevano sulla fronte. I suoi occhi di ghiaccio lo esaminarono per qualche istante, si sentì osservato in ogni centimetro del suo corpo. Lo vide aprire leggermente la bocca, ma vide anche le parole morirgli in gola, ingoiare saliva e tornare con lo sguardo sulle pagine del libro.

«Può andare, Signor Watson. La farò chiamare se avrò bisogno di qualcosa.»


*


«È ridicolo!» Esalò Holmes, di punto in bianco, cominciando a gesticolare rendendo così impossibile al buon Watson anche solamente tentare di vestirlo per la cena. «E soprattutto inutile, a cosa può mai servirmi sapere una cosa del genere?»

«Come sarebbe a dire “a cosa può mai servire”?!» Rincarò l'altro, con un sospiro impaziente, dopo aver alzato gli occhi al cielo. «Signor Holmes, stiamo parlando del – la prego, stia fermo! – del sistema solare!»

«Ebbene, Signor Watson. Per quanto può riguardarmi, la Terra può essere anche piatta, o girare in senso antiorario a giorni alterni. Mi dica, cosa le cambia saperlo?» Domandò, fermo nelle sue idee, seguendo il suo valletto con lo sguardo, mentre si allontanava per prendergli la giacca nera.

«A cosa può mai servire conoscere 240 tipi diversi di cenere?» Chiese allora l'altro, cercando in tutti i modi di nascondere un sorrisetto sarcastico, peccato si trovasse proprio davanti allo specchio sul quale si stava rimirando Holmes, impossibile non notarlo.

«Signore» sibilò; era un classico: in quei due mesi, gli aveva sempre concesso una certa confidenza, ma ogni volta che si ritrovava con le spalle al muro, per non dargliela vinta si appellava al suo titolo. «E, comunque, 243» aggiunse poi, quasi offeso.

«Non c'è bisogno che mi chiami “signore”, signore» (4) affermò Watson, in un primo momento. I due si osservarono in silenzio attraverso lo specchio per qualche istante, le mani di John sulle braccia di Sherlock, quelle del moro sulla giacca. Le labbra di entrambi cominciarono a incurvarsi verso l'alto, gli occhi illuminati da un sentimento di pace, serenità, gioia. Scoppiarono a ridere poco dopo, complici, come due persone che si conoscevano da tutta una vita quando, a conti fatti, fino a tre mesi prima ignoravano completamente l'esistenza dell'altro.

«Lei è incredibile, Watson» commentò Holmes, ancora ridacchiando. Abbassò gli occhi per sistemarsi il papillon bianco, mentre il valletto mormorava un basso “capelli”, così da intimarlo a girarsi per farglieli sistemare. Era stato difficile, quasi un'impresa impossibile, convincerlo anche solo a farglieli toccare: si era dimostrato molto vanitoso, in quel breve periodo di tempo, cosa che John non avrebbe mai pensato la prima volta che lo aveva visto, con quell'aspetto così disordinato; e in più era estremamente geloso dei suoi capelli, anche se non lo avrebbe mai ammesso con anima viva, benché meno con lui.

Sherlock ubbidì, voltandosi subito, mantenendo uno sguardo basso – John aveva notato come non osasse guardarlo negli occhi, durante quell'operazione, o la vestizione in generale, supponeva perché non andasse pazzo per il contatto fisico. Anche John faceva di tutto per evitare il suo sguardo, le aveva provate tutte pur di allontanare quella morsa nello stomaco che provava ogni volta che gli si trovava vicino. Sherlock, almeno, pareva non rendersene conto.

Sherlock abbassò il capo, John portò entrambe le mani nei suoi ricci, cominciando a sistemarglieli come meglio poteva. Ancora una volta, sentì Holmes trattenere il fiato, mentre il suo cuore, il cuore di Watson, martellava come un ossesso. Nella mente cercava immagini per distrarsi, ma subito qualsiasi pensiero si focalizzava sul respiro di Holmes, sulla sua pelle, sul suo profumo. Si morse un labbro, maledicendosi per l'ennesima volta. Non poteva avere certi pensieri, non poteva e basta, era proibito, se qualcuno avesse avuto il minimo sospetto lo avrebbero prima licenziato e poi fatto arrestare.

Quella sera la casa era piena di ospiti; Sherlock e John scesero insieme, prima di separarsi, a malincuore. Holmes si avvicinò alla sorella, John se ne stette in disparte e fu poi raggiunto da Molly Hooper.

«Siete diventati amici» constatò la ragazza, con un sorriso timido sul volto. John si voltò a guardarla, poi tornò con gli occhi su Sherlock: stava parlando con una delle amiche di Miss Eurus, non sapeva il suo nome. Erano stati lasciati soli, come a favorire un dialogo più intimo, o forse erano stati proprio loro ad allontanarsi dal gruppo per parlare in santa pace? Si era perso quel momento per colpa della Hooper.

«Sì può dire così, sì» le rispose semplicemente, alla fine, sperando così di tagliare qualsiasi tipo di conversazione. Molly, comunque, rimase al suo fianco, ma non se ne curò; la donna che se ne stava con Holmes, mora e dai boccoli che ricadevano lungo la schiena, indossava un abito viola scuro, un colore che le donava molto e risaltava la sua carnagione; era decisamente molto bella, la donna più bella della sala, avrebbe osato dire, e sembrava essere abbastanza in confidenza con Holmes.

Molly intercettò il suo sguardo. «Sono molto belli insieme, vero?» Sentenziò, mordendosi il labbro, pensierosa. John la guardò confuso, a malapena l'aveva ascoltata. La ragazza arrossì imbarazzata. «Il Signor Sherlock e Miss Hawkins (5)» Miss Hawkins, John memorizzò quel nome, mentre tornava a studiarla. Doveva aver appena fatto una battuta, la vide parlare rapida e poi cominciare a ridere, prima di nascondersi la bocca dietro le labbra con fare elegante. Anche Sherlock si mise a ridere, piano, Watson avrebbe scommesso che si stesse sforzando per non apparire maleducato. Sorrise a quel pensiero, sorrise guardando quegli occhi socchiudersi appena, quelle labbra fini incurvarsi verso l'alto, il capo inclinato leggermente da un lato, qualche rughetta disegnata intorno ad occhi e bocca. Lo stomaco gli si attorcigliò: era davvero bellissimo.

«Lei è bellissima» espresse ad alta voce, rivolto verso la cameriera. Proprio in quel momento, Sherlock alzò lo sguardo verso di loro: Molly arrossì ancora più di prima, abbassò gli occhi e cominciò a muoversi nervosa su se stessa, non sapendo se fosse meglio scappare o far finta di nulla, adesso che era stata beccata a spiarli; John, invece, non si mosse di un solo passo e ricambiò il suo sguardo, deciso e sicuro di sé, le mani dietro la schiena, dritta, la testa alta. Sherlock non lasciò andare i suoi occhi per un solo istante, lo guardava profondo, le iridi colorate di verde. Sembrava sfidarlo e John era deciso a non dargliela vinta, pur non sapendo bene cosa ci fosse effettivamente in gioco. Alla fine, Holmes cedette, ammiccò e poi riportò l'attenzione alla donna che aveva davanti.

Era completamente rapito, Watson, stregato. Era senza alcun dubbio l'uomo più intelligente che avesse mai incontrato, nonostante alcune lacune che dimostrava avere in fatto di cultura generale – John amava farglielo notare di continuo così per vederlo innervosirsi. Le conversazioni con lui lo stimolavano come poche altre cose al mondo, anche se spesso e volentieri lo facevano sentire come un perfetto idiota – e Sherlock non perdeva occasione di ricordarglielo. Eppure sentiva che il suo padrone ricambiava la sua stessa stima, anche se non avrebbe mai saputo dire perché. Si reputava uno sciocco, in confronto a lui. Uno stupido, una persona ordinaria che diventava tesa e rigida non appena i suoi occhi incontravano quelli del suo signore. O gli capitava di sfiorarlo, fatto per niente raro date le condizioni attuali. Probabilmente qualcuno con un po' più di cervello avrebbe lasciato il lavoro, nonché la casa, allontanandosi così da quel sentimento vietato che sentiva diventare più forte giorno dopo giorno e che lo stava uccidendo e indebolendo. Più la loro chimica aumentava, più la loro amicizia si rinforzava, più John si sentiva morire. E forse ne sarebbe davvero morto, un giorno.

Eppure non riusciva a stargli lontano. Non poteva. Anzi, non voleva in alcun modo spezzare quel legame. Si diceva che era stato il destino a metterli sulla stessa strada e non voleva in alcun modo ignorarlo o voltargli le spalle. La sua coscienza, nonostante tutto, non finiva più di ammonirlo; John chiudeva gli occhi e non l'ascoltava.

«È stata una serata piacevole, signore?» Era entrato da poco nella stanza di Sherlock, per prepararlo per la notte. L'uomo gli dava le spalle, era rivolto verso la finestra e pareva pensieroso.

«Mh?» Mormorò, ridestandosi una volta udita la sua voce. «Affatto. Una delle solite, noiose, serate organizzate dai miei genitori. Volevano farmi partecipare alla sciarada e me la sono data a gambe.»

John non poté trattenere una risata, guadagnandosi un'occhiataccia: l'immagine di Sherlock impegnato a mimare oggetti o persone non poteva non essere divertente. «Avranno tutti sentito la sua mancanza, signore, specialmente Miss Hawkins» osservò, non riuscendo a trattenersi dal pronunciare il nome di quella donna. L'ultima cosa che voleva era sentire Sherlock tessere le sue lodi, d'altra parte non poteva fare a meno di saperne di più, scoprire cosa l'uomo pensasse davvero di lei, capire quanto fossero intimi.

«Cosa?» Domandò, piuttosto, Holmes, che ormai si era voltato verso di lui e lo guardava perplesso.

«Miss Hawkins» ripeté Watson, chiedendosi se aveva appena toccato un tassello proibito «io ho... vi ho visti passare gran parte della serata insieme, signore» confessò, grattandosi il capo.

«Ma davvero?» Mugugnò Holmes, pensoso, forse più a se stesso. «Capisco» aggiunse poi, penetrandolo con lo sguardo; John deglutì. «Miss Hawkins è una bella donna, suppongo, non ho potuto fare a meno di notare il modo in cui la stavate guardando, Signor Watson.»

Il valletto batté le ciglia, spiazzato. «Non era lei che stavo guardando – voglio dire...» si bloccò, si morse la lingua, prese a insultarsi mentalmente. Cosa diamine gli diceva la testa? Confessare così apertamente come non aveva perso di vista Holmes per tutto il tempo? Mossa decisamente sbagliata. Cercò le parole giuste per giustificarsi, una scusa valida che avrebbe cancellato certe insinuazioni velate, ma non riuscì a trovare nulla. Sherlock, dal canto suo, non aveva mai smesso di guardarlo serio, aveva a stento battuto ciglia. John avrebbe voluto saper interpretare quello sguardo, ma l'altro pareva essersi ben nascosto dietro un muro impenetrabile.

Alla fine cominciò a svestirsi, per la notte; si levò la giacca e John si portò in avanti in automatico, per aiutarlo e per riporla al suo posto. «La verità è che questa serata è stata architettata per farmi passare del tempo con Miss Hawkins» confessò poi, intavolando una conversazione che John avrebbe fatto volentieri a meno di sentire «ovviamente mio fratello Mycroft, essendo il maggiore, è quello obbligato a trovare una donna in modo da assicurare degli eredi e portare avanti il nome degli Holmes – ed è già promesso a Miss Smallwood, se ha avuto modo di notarla, questa sera» John restò in silenzio, ammettendo così di non aver minimamente avuto l'occasione di osservare qualsiasi donna girasse intorno a Mycroft Holmes, e francamente poco gli importava. Posò la giacca di Sherlock e gli si portò davanti, l'uomo aveva cominciato a slacciarsi il papillon, John gli abbassò le mani e prese a farlo al suo posto. «Ma mia madre gradirebbe ugualmente vedermi sposato, magari padre di famiglia. Ho l'età giusta, sostiene. È per questo che si ostina ad organizzare queste serate, affinché io trovi una donna, una pretendente, una moglie.»

Watson restò con il papillon in mano, Holmes si zittì, non aggiungendo altro. John si domandò il motivo di quella discussione, cercava di capire perché si stesse sfogando proprio con lui, perché proprio di questo. Voleva un supporto? Qualcuno che gli dicesse di buttarsi? Qualcuno che assecondasse la madre o qualcuno che gli dicesse di fregarsene, di non sposarsi mai? «E lei l'ha trovata?» Domandò invece, balbettando appena. «Una moglie intendo, o meglio, una donna interessante?»

Holmes lo scrutò quasi in fondo all'anima, gli occhi, adesso azzurri, brillavano di una fiamma disarmante, spaventosa quasi, violenta. John si sentì mancare il fiato, pensò di poter soffocare da un momento all'altro. Il cuore gli batteva così forte che temette che Sherlock potesse sentirlo. «Mogli, spasimanti – donne... no, non sono davvero la mia area.»

Il papillon scivolò a terra, John quasi spalancò la bocca, fermandosi giusto in tempo. Le gambe cominciarono a tremargli, all'improvviso. La voce di Sherlock era bassa, quasi un sussurro, calda e morbida. Aveva capito al volo l'allusione, oppure aveva frainteso ogni cosa? Doveva chiedere una conferma? Sherlock se lo aspettava? Oppure lo stava semplicemente testando, mettendo alla prova? Gli occhi del moro passarono dai suoi occhi alle sue labbra, ci si soffermarono per vari secondi, John si sentì come svenire, la stanza cominciò a girare. Si era portato avanti, o era stato lui ad accorciare la distanza? Oppure erano sempre stati così vicini? Sentiva il respiro di Holmes sulla sua faccia, era una sensazione strana, piacevole, unica, terrificante.

Se qualcuno fosse entrato, in quel momento, e li avrebbe trovati così vicini... ma no, loro non stavano facendo niente di male, nessuno avrebbe potuto dire nulla, erano solamente due gentiluomini che parlavano fra loro. E poi, nessuno si sarebbe mai azzardato ad entrare senza bussare. Senza contare che l'unico che solitamente si portava nella sua stanza a quell'ora della sera era lui e lui soltanto. Nessuno avrebbe potuto disturbarli, praticamente.

«Watson?» Il suo nome lo colpì feroce in pieno viso; Sherlock pareva preoccupato, ansioso, forse da una mancata reazione. Alzò la mano e gli prese il braccio, per ridestarlo dai suoi pensieri. John si sentì come attraversato da un brivido, da una scarica di adrenalina che lo attraversava da parte a parte. Spense la mente ed ascoltò l'istinto. Si portò in avanti, afferrò Holmes per il colletto bianco della camicia e lo obbligò ad abbassarsi, a posare le labbra sulle sue. Le tastò, le assaporò, erano morbide, delicate; le avvertì aprirsi appena, parevano assecondarlo, rispondere arrendevoli, desiderose e bramose. Sentì tutta la tensione dissolversi e scivolare via, sentì un nodo nello stomaco sciogliersi e cominciare ad abbandonarlo.

Ma poi Holmes lo afferrò per le spalle, il nodo tornò a ricomporsi e la paura a riempirgli la mente. Lo allontanò violentemente, lo spintonò via guardandolo rabbioso. Ma non c'era solo rabbia, tra i suoi occhi, per un secondo, una misera frazione di secondo, John parve scorgere della preoccupazione, dell'ansia, forse addirittura del dispiacere. Si sentì completamente disarmato, agitato, smarrito. Aveva agito nella maniera più stupida e sbagliata, aveva incasinato tutto, ogni legame ed ogni rapporto. Avvertì qualcosa spezzarsi in lui.

«Signor Holmes–» provò a dire qualcosa, accennò a scusarsi, affannato, ma l'altro lo interruppe.

«Cosa diavolo le è passato per la mente?!» Urlò furibondo, i suoi occhi parevano lanciare fuoco. «Risponda!» Si era portato in avanti e John era arretrato istintivamente, arrivando a toccare il muro, ma Sherlock lo aveva afferrato per la camicia, costringendolo a sollevarsi sulle punte. «Ha la minima idea – si rende conto di quello che... no, certo che no. È troppo stupido, troppo stupido per arrivarci» sbraitò, lasciandolo andare poco dopo prima di indicargli la porta.

«Signore, io...» provò a parlare, doveva almeno riuscire a scusarsi. Anche se non avrebbe voluto farlo, perché la verità era che non gli dispiaceva per niente. La verità era che avrebbe voluto baciarlo fin da quando l'aveva conosciuto.

«Esca immediatamente da questa stanza» gli diede le spalle, i palmi aperti poggiati contro la scrivania di legno, la testa basta e gli occhi chiusi «se ne vada, Watson, non mi costringa a buttarla fuori con la forza!»

John ingoiò saliva, colpito in pieno dalla sua voce aggressiva e brutale. «Sì, signore» mormorò, sussurrò, vergognoso. Lo lasciò solo, uscendo dalla camera da letto con la sensazione, la paura, di non poterlo rivedere mai più. Aveva osato troppo, quella sera, era andato contro le regole, contro la legge, contro natura e contro quella stupida morale di cui tutti parlavano.

E adesso ne avrebbe affrontato le conseguenze.



  1. È un vero annuncio risalente proprio all'epoca vittoriana, ovviamente l'ho un po' modificato per adattarlo a John (xXx)

  1. Claire starebbe per Clara (no, davvero?!), ho sempre pensato che fosse un nome esclusivamente femminile, invece ho scoperto che va bene anche per gli uomini (e niente, volevo condividere le mie stupide scoperte)

  2. Ho cercato di informarmi come meglio potevo, non ho trovato molte cose su questo punto perché andava secondo esigenza della famiglia: in alcune case, la servitù mangiava prima dei loro padroni, in altre dopo (e magari i signori concedevano di servirsi con i pochi avanzi)

  3. Non ho saputo resistere, citazione da Harry Potter e il Principe Mezzosangue (libro, of course)

  4. Per chi non l'ha capito, Miss Hawkins è nient'altri che Janine


Angolo dell'autrice: Chi mi segue su twitter avrà visto, di tanto in tanto, i miei scleri per questa storia. Ci lavoro da un anno (credo fosse agosto, quando ho cominciato a scriverla), si è rivelato piuttosto impegnativo portarla a termine (soprattutto grazie a word che mi ha cancellato una quindicina di pagine dell'ultimo capitolo, qualche mese fa). Non ho molto da dirvi, so che, forse, questo capitolo può sembrarsi frettoloso (il primo bacio così, subito alla prima pagina, è abbastanza inusuale) ma tante cose dovranno capitare, davvero tante, concedetemi un pochino pochino della vostra fiducia.
Spero davvero che non vi faccia troppo schifo, personalmente avevo aspettative più alte sul risultato, ma ora come ora non sono pienamente soddisfatta! Posterò ogni lunedì, più o meno a quest'ora :)
Grazie in anticipo a tutti coloro che leggeranno, sentitevi liberi di lasciare un parere, positivo o negativo!
Un bacio,
  
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