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Autore: mcdreamyisnotdead    28/07/2018    0 recensioni
Storia depositata, soggetta a COPYRIGHT.
Roma, 2015.
Le porte di una prestigiosa Accademia di arti drammatiche si aprono, pronte ad accogliere giovani ragazzi con la disperata voglia di dare una svolta alla propria vita. Tra di loro c'è Luca, munito solo della sua chitarra e della sua incontrollabile parlantina, e poi c'è Viola, che ama volteggiare silenziosamente tra le note, per dimenticare di non essere la persona perfetta che avrebbe dovuto diventare.
Incuriosito dalla indole sfuggente della ballerina, Luca cerca di buttare giù quei muri che lei si ostina a costruire contro il mondo, scoprendo un forte senso di protezione nei suoi confronti. La scuola, però, non è che il punto di partenza di un viaggio che vede l'intrecciarsi di vite e di storie destinate a legarsi in maniera indissolubile.
Questo è un racconto di amicizia e di sogni, di vittorie e di sconfitte, di chi rincorre l'amore e di chi, invece, scappa da qualsiasi sentimento possa far vibrare le fibre di un'anima fragile, incurante che non sempre sia così semplice mettere al sicuro il cuore.
Genere: Comico, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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SEI ANNI PRIMA
Primo giorno
Luca
Aveva sempre adorato avere dei riflettori puntati addosso.
Luca Zanin, classe 1992. Da qualche istante aveva lasciato la grande aula magna assieme a quelli che sarebbero stati, per i successivi sei mesi, i suoi nuovi compagni di avventura. Una serie di bus colorati erano pronti ad attenderli fuori dalle porte dell'accademia, con direzione un residence tre stelle gentilmente finanziato dalle loro borse di studio. In preda alla più potente delle euforia, sentiva come se, in quel momento, nelle sue vene, non circolasse sangue ma solamente adrenalina. Salì sul pullman prendendo posto accanto a un ragazzo dai capelli di un rosa sfavillante. Si domandò per quale motivo tingersi la testa di un colore tanto improbabile. Lui, al contrario, esibiva un normalissimo taglio di capelli castano, che pettinava un po' come capitava a seconda di quanto fosse in ritardo la mattina. Era alto poco meno di quello che ci si aspetterebbe da un sex symbol, ma negli anni aveva imparato a compensare la scarsa statura con una inesauribile riserva di ego.
Si mise a fissare il tizio dai capelli rosa accanto a lui, dondolando appena un piede sotto il sedile, per poi sorridergli, indicando la chioma. «Come mai 'sto colore?» Prima o poi avrebbe dovuto imparare a tenere la lingua a bada. Prima o poi.
Il ragazzo arrossì appena e alzò le spalle. «Il mio parrucchiere m'aveva detto che è il colore dell'anno e che mi avrebbero notato sicuramente alle selezioni. Io credo che abbia bleffato solo per farmi pagare di più, però oh... entrare sono entrato. E poi, a dirla tutta, ho visto un'altra ragazza con le punte dei capelli così...» rispose tentando, quasi imbarazzato, di giustificarsi.
D'istinto, Luca gli sorrise. Chi prendeva decisioni assurde, guidato da motivazioni prive di un vero senso logico, andava d'accordo con lui a prescindere. Si strinsero la mano e fece quindi la conoscenza di Enzo, diciottenne di sangue romano con la sua stessa passione per il canto. Tra una chiacchiera e l'altra, Luca gettò uno sguardo ai grandi zaini stipati tra le braccia dei ragazzi, sicuramente supplemento alle ampie valigie ammassate in un camioncino che li seguiva in strada. Lui, in realtà, viaggiava leggero, sebbene principalmente per una sua mancanza di organizzazione: aveva preparato tutto all'ultimo, quando le lancette dell'orologio gli avevano ricordato che l'ora della partenza dalla stazione di Verona Porta Nuova incombeva. La cosa più ingombrante che portava con sé era la sua chitarra, con la quale suonava da anni e che ormai considerava una sorta di prolungamento del proprio braccio. Sorrise pensandoci, poi, incapace di restare tranquillo per più di venti secondi, iniziò a intonare una vecchia canzone dei Queen assieme al suo nuovo amico. Non fece caso agli sguardi palesemente irritati di qualche compagno. Il ventunesimo secolo offriva la possibilità di spingere nelle orecchie le cuffiette dell'IPod, per mettere a tacere un intorno disturbante.
Mosso da una rilassante sensazione di allegria, una volta sceso dal pullman si fermò qualche istante a contemplare il grande edificio che aveva di fronte. Lo aveva immaginato forse un pelo più moderno, ma alla fine poco importava. Sentì il telefono vibrare nella tasca dei jeans e lo estrasse veloce, osservando lo schermo rotto in cinque parti sul quale compariva il nome di sua madre. Provare ad affrontare una conversazione con lei si rivelò parecchio difficile: la donna diceva cose su cose e riuscire ad afferrare tutto era complicato, specie perché suo fratello stava probabilmente cercando di prenderle il telefono, urlandoci dentro a momenti alterni. Sua madre aveva sempre sostenuto la sua passione per il canto, forse per cercare di compensare il fatto che l'ex marito, invece, non l'aveva mai accettata in pieno. Si accese una sigaretta mentre continuava ad ascoltarla.
«Luca, era un accendino quello che ho sentito? Fumi ancora?» Il giovane alzò gli occhi al cielo, che diamine di udito possedeva quella donna?
«Ma', solo una ogni tanto.» Sì, certo. Sicché a lasciarla parlare poteva andare avanti anche per ore, le disse che li stavano chiamando per assegnare le camere e finalmente riuscì ad attaccare. Diede un tiro alla sigaretta, poi la buttò via, sebbene fosse ancora a metà.
Entrò all'interno del residence e si sentì ancora più piccolo di quanto già non fosse: la hall era immensa e piena di gente che andava e veniva. Un grande lampadario a forma di rosa illuminava malamente l'atmosfera e sembrava fuori contesto con l'arredamento retrò. Scorse la ragazza alla quale sicuramente si stava riferendo Enzo poco prima, quella con le punte dei capelli del suo stesso rosa. La osservò giusto il tempo da notarne gli occhi lucidi, immaginando la gioia che stesse provando per l'opportunità che era stata concessa loro. Lui stesso non vedeva l'ora fosse lunedì per iniziare le lezioni, il che era quasi paradossale, dal momento che aveva sempre studiato il minimo indispensabile a superare l'anno per il rotto della cuffia, passando gran parte del tempo che avrebbe dovuto dedicare allo studio in giro con una banda di amici tanto fanfaroni quanto simpatici. Questa volta era diverso, però. Ora aveva tra le mani la possibilità di abbandonare l'azienda di famiglia e far diventare la sua passione un mestiere, lasciando che il suo ego potesse finalmente trovarsi a suo agio, acclamato da una folla al di sotto di un palco. Cavoli, aveva già voglia di festeggiare. Decise di trascinarsi sino al bar, principalmente perché nello sguardo panoramico alla hall aveva subito notato che la barista era particolarmente carina. Bionda, procace, la sua risata risuonava in maniera ovattata nella sala e lo stava attirando come il canto di una sirena. Non che fosse difficile, attirare uno come Luca.
«Una birra, per favore» disse con un sorriso bonario mentre poggiava i gomiti sul bancone, interrompendo la biondina mentre era intenta a fare un caffè.
«Non posso servire alcolici ai ragazzi dell'accademia, a meno che non sia il weekend» rispose lei, senza nemmeno girare lo sguardo nella sua direzione.
Luca spalancò gli occhi scuri, sperando vivamente che scherzasse. «Credevo di aver vinto una borsa di studio per una prestigiosa Accademia di arti drammatiche, non un biglietto di sola andata per la prigione.»
«La vita è dura amico, facci l'abitudine.» La ragazza servì il caffè al cliente, prendendo la mancia che lui le allungò di nascosto e infilandola dentro il grembiulino rosso. Pulì le mani in uno strofinaccio, poi finalmente decise di incontrare lo sguardo del giovane cantante. Sorrise, vagamente maliziosa. «Veramente...», continuò «a volte, però, possiamo fare qualche eccezione. Questo è il mio bar, alla fine. E questa è l'ultima ora di un turno da dodici... a volte divento sbadata. Quindi magari sei fortunato...?»
«Luca, mi chiamo Luca!»
«Tania» disse lei, stappando una Ceres e versandogliela in un bicchiere di carta con sopra il marchio della Coca Cola.
-Viola
Viola guardò fuori dal finestrino, sbuffando. Le cuffie nelle orecchie pompavano una vecchia canzone dei Radiohead e avevano il solo scopo di isolare quanto più possibile il fastidioso vociare di persone già sin troppo esaltate, per i suoi gusti. In un rigoroso silenzio la giovane rifletteva. Un fugace pensiero volò ai suoi genitori; riusciva a immaginarli scuotere la testa delusi quando, davanti alla cena preparata dalla loro domestica spagnola, ripensavano alla figlia che anziché costruirsi un futuro, partiva per un’Accademia di Arti Drammatiche a Roma. Le labbra si incresparono in un lieve sorriso. Denise e Pietro Meneghini, implacabili avvocati di Milano, coppia indissolubile che viveva in una perfetta villa a tre piani in viale della Moscova, venivano nuovamente messi in ridicolo dalla loro figlia imperfetta.
Viola ripensò a come da sempre avesse scombinato i loro piani: come un miracolo di Natale, era nata la notte più magica dell'anno di ventuno anni prima. Due chili e ottantasette, due polmoni forti e potenti, di quelli che sin dal primo pianto lasciano intendere che dormire la notte non sarebbe stato più così semplice. Venuta al mondo con il piede sbagliato, rovinando la preghiera di sua sorella durante cena di Natale con la sua scalpitante voglia di nascere. Minuta, due grandi occhi verdi e capelli scuri che sua madre non era mai riuscita a tenere realmente in ordine, tanto erano ribelli. Fin da giovanissima aveva capito la fissazione dei genitori per la perfezione: lo aveva inteso nella sua stanza precisamente quadrata, non un centimetro di più o di meno, le pareti lilla dipinte con cura maniacale, i mobili bianco perlato accuratamente scelti in abbinamento. Quell’impeccabilità l’aveva fatta sentire sbagliata sin dal primo istante, ma si era presto adattata a quella quella soffocante abitudine di pretendere niente di meno del cento per cento, in ogni occasione; fosse una cena di famiglia o un party organizzato in uno dei locali più in di Milano. Si era abituata davvero a quella esistenza, a quel camminare sempre sulla fragile fune della perfezione, come un equilibrista alle prime armi.
Qualcuno iniziò ad intonare una canzone dei Queen, sovrastando il suono della musica in rotazione nelle sue orecchie. Viola alzò il cappuccio della felpa nera e coprì i capelli, spettinati come loro solito, alzando il volume del suo Ipod. Una brusca frenata dell’autista la fece sbattere improvvisamente contro il vetro al quale era appoggiata. Un secondo flashback, potente e soffocante. Una soleggiata mattina di febbraio. Una sé stessa di appena cinque anni pigiava con le manine sulla testa, nella speranza di far appiattire i capelli alla nuca. Il vicino era passato portando a passeggio il labrador. Li aveva salutati con quel suo fare simpatico, che faceva sempre sorridere Viola. Una giornata come mille. Una di quelle un po' noiose forse. E poi…e poi nulla, era come se quel giorno l'equilibrio del mondo si fosse spostato. Era stato allora che una dolce bambina dai capelli imbizzarriti aveva capito di essere diversa. Aveva impiegato anni a cercare di isolare sé stessa da ciò che era successo, intrappolando la sua anima dietro muri invisibili che ergeva contro chiunque provasse ad avvicinarsi a lei.
Viola portò le dita affusolate sulle tempie, sforzandosi di indirizzare altrove i propri pensieri. Non aveva senso imprigionarsi in simili paranoie, non quel giorno. Non ora che finalmente il suo più grande sogno pareva essere qualcosa di più di un’entità invisibile da infilare in un cassetto. I suoi genitori l’avevano iscritta a danza all’età di sei anni, affinché apprendesse disciplina e un'impostazione elegante. Ma per Viola era sempre stato qualcosa di più: l'unico mondo in cui si sentiva a proprio agio, impeccabile. Dove il pezzo del puzzle si incastrava in maniera perfetta con quello al suo lato. Dove non era difficile rimanere in equilibrio su quella fune, che pareva ondeggiare sotto le sue gambe come scossa dal più potente dei venti. Ricordava perfettamente le continue lotte con i suoi genitori, che le imponevano di lasciare il corso di danza per concentrarsi maggiormente sugli studi.
«Tu non pagarmi più le lezioni di danza, io smetto di studiare, mamma.»
«Finchè vivrai sotto questo tetto non spetta a te decidere cosa puoi o non puoi fare, Viola.» Il volto sempre composto di Denise Meneghini si mostrava paonazzo, volgendo lo sguardo al marito. Lasciava sempre a lui il compito di gridare.
«Ok, allora dovrai assumere una sosia per andare a scuola a fare interrogazioni al posto mio. Ve lo ripeto: niente danza e io vado a fare scena muta davanti al professore. Non mi importa.»
Il pullman arrivò finalmente a destinazione. Attese che tutti facessero a gara per chi scendeva prima dalla vettura, come bambini appena usciti dalle scuole elementari. Scese per ultima e frugò subito nello zainetto alla ricerca della sua immancabile reflex, comprata per i corsi che seguiva all’Accademia di belle arti, indirizzo fotografia. Osservò quindi l’enorme edificio di fronte a sé. Un’ampia facciata con un’insegna forse un po’ datata li informava che era lì che avrebbero vissuto per i mesi a venire. Sembrava una di quelle strutture vecchio stile, con persiane verde petrolio e piccoli balconi dallo stile bohemienne che stonavano un po’, nel centro di una frenetica Roma.
Viola sospirò a fondo. Leggera, si sentiva leggera. Spogliata di quella sua solita pesante oppressione. Era lì solo per un motivo: danzare e vincere un contratto che le avrebbe garantito indipendenza economica e di andarsene il più lontano possibile dalla sua famiglia e dalla loro asfissiante richiesta di perfezione. Voleva un'occasione per ricominciare da sé stessa. Un’occasione per iniziare a vivere.
   
 
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