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Autore: Adeia Di Elferas    28/07/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Fracassa stava seguendo Ranuccio da Marciano ad Arezzo, ma aveva avuto l'accortezza di far sapere alla Sforza di non essere intenzionato del tutto ad abbandonarla, e che, in caso di necessità, sarebbe tornato dritto e filato a Forlì a darle man forte. Nel frattempo, aveva aggiunto, lasciava quel compito a Giovanni Pirovano che, a suo dire, pareva impaziente di tornare al fianco della Tigre al solo scopo di difenderla dai veneziani.

Caterina stava vivendo momenti difficili, sia perché le lamentele scritte con una certa insistenza al Moro non stavano dando frutti, sia perché nessun messo del Doga pareva intenzionato a incontrarla.

Aveva preso, quasi di impulso, la grave decisione di rimandare Ottaviano dai suoi soldati nel pisano. Il ragazzo, contrariamente a quanto si era aspettata, non aveva fatto una piega e aveva accettato di partire il giorno stesso della decisione della madre.

La Leonessa, a quel punto, aveva già cominciato a ragionare sul da farsi e aveva preparato un paio di piani di riserva, nel caso in cui suo figlio si fosse dimostrato ancora una volta inadatto alla situazione. Anche se gli aveva detto chiaramente di non mettersi in ridicolo e di non scendere in campo, salvo che ve ne fosse stato un reale, bisogno, avrebbe comunque preferito saperlo con accanto qualcuno di davvero valido, com'era stato pochi mesi prima il suo Giovanni.

A sommarsi all'inquietudine portata da quella nuova partenza, la Contessa si trovava ancora immersa in una serie di paludi diplomatiche da cui non sapeva come uscire in modo indolore.

Siccome l'ambasciatore fiorentino aveva riprovato a fare con lei la voce grossa, la donna si era spinta a scrivere di suo pugno di nuovo a Lorenzo Medici, provando a parlare solo di politica e guerra, ma la risposta che aveva ottenuto era stata tutt'altro che soddisfacente.

Avrebbe voluto chiedere a Ridolfi qualche consiglio per poter contattare il cognato in modo molto più ufficiale, facendo sì che la Signoria sapesse quello che lei stava minacciando di fare – in sostanza, ritirare il proprio appoggio e far anche rientrare a Forlì Giovanni Corradini – e che quindi il Popolano si sentisse calcare la mano dal Gonfaloniere di Giustizia.

Si limitò, dunque, a scrivergli una serie di lettere abbastanza corpose, sperando che la pressione messa da lei bastasse se non altro a smuoverlo, dato che le risposte che fino a quel momento le aveva mandato erano pallide e smorte, per quanto spesso aggressive.

In una, che scrisse alle undici di sera del 18 ottobre, dopo aver riassunto la sua situazione politica, gli fece presente di aver bisogno soldi – perché un esercito come il suo, ingrandito solo per compiacere Firenze, non costava poco – e gli fece capire di non essere comunque intenzionata a riversare le proprie attenzioni verso Venezia, soprattutto per evitare di dover lasciare realmente Bianca nelle mani di Astorre Manfredi.

'Io non facio conto havere a dare più la mia fìola a quello putto et per la etate tropo tenera, et per sapere che per megio di messer Ioani non me ne poterla mai retrovare consolata' scrisse, facendo rientrare nei carichi a sfavore di Astorre anche la parentela con Giovanni Bentivoglio, uomo che, per quanto in passato abbastanza legato in modo favorevole agli Sforza, si stava dimostrando un pericolo ambulante per tutti.

Si permise anche di far notare come pure il Conte di Caiazzo avesse chiesto la mano di Bianca, sperando che quella notizia facesse ravvedere un po' Lorenzo. A nessuno, a Firenze, sarebbe convenuto sapere che la Sforza avrebbe potuto avere come genero un comandante della ferocia di Giovan Francesco Sanseverino.

Già il giorno dopo, poi, Caterina redasse una nuova missiva, in cui informava il Popolano di aver inviato Giuseppe Colombini al campo pisano, per dare manforte a Ottaviano e per guidare i balestrieri di Firenze, che, a quel che aveva sentito dire, erano rimasti senza comandante, dopo l'ultimo scontro.

Anche il giorno dopo scrisse una nuova lettera e l'intenzione era quella di continuare così tutti i giorni, sperando di sfinire il cognato in qualche modo e di ottenere da lui una capitolazione in un senso o nell'altro. Non le serviva un contatto con Firenze che sapesse solo dirle di ridarle gli effetti personali di Giovanni. Voleva che il suo rapporto con la Signoria fosse più definito. Era stanca di combattere per qualcuno di cui non sapeva le reali intenzioni.

“State attenta a quello che fate – la mise in guardia Michele Marulli, una sera, mentre discutevano assieme ad alcuni Consiglieri della Sforza – Lorenzo Medici è un uomo che sa provare un grande rancore. Chiedetegli troppo e l'astio che già prova per voi potrebbe trasformarsi in una tempesta e la Signoria potrebbe finire per pensarla come il Popolano vuole che la pensi.”

Caterina non si era fatta intimidire da quelle parole, ma quando, a mattina fatta, le era stato riferito dai suoi osservatori che nuove squadre di veneziani erano arrivati nei territori tra Rimini e Ravenna, sfociando senza troppe cerimonie nel territorio di Forlì, decise di chiedere un incontro ufficiale con il podestà di Ravenna.

“Dice che è disposto a incontrare un vostro messo – riferì Luffo Numai, non appena ebbe una risposta da Ravenna – ma non qui. E non con voi. Nè con un soldato.”

“E chi vorrebbe, al suo cospetto, un prete?” fece la Tigre, trattenendo una risata amara.

“Credo che non sarebbe una cattiva idea.” confermò Numai, senza sbilanciarsi troppo.

La serietà con cui il Consigliere le aveva risposto, diede molto da pensare alla donna che, nel pomeriggio, mentre stava sui camminamenti, vide una scena che le fece risolvere in un solo colpo due problemi.

Da quando Ottaviano era ripartito, Cesare era stato ancora più cauto del solito e aveva fatto di tutto per non incontrarla in giro per la rocca. Caterina si era accorta benissimo delle mosse del figlio, ma aveva fatto finta di nulla.

Stava aspettando che Raffaele Sansoni Riario le desse una risposta concreta alle sue richieste, anche se per il momento il Cardinale aveva continuato a differire, parlando di una possibile partenza di Cesare per Roma solo nel corso dell'anno venturo.

In quel momento, mentre le nuvole pensanti e scure del cielo della seconda metà di ottobre erano smosse da un vento freddo e insistente, la Contessa aveva visto il suo secondogenito camminare a passo di marcia da prete sotto alla statua di Giacomo, diretto verso l'ingresso della rocca.

Non poteva negare il fatto che Cesare fosse erudito e, per quanto detestasse sentirlo parlare, doveva ammettere che il giovane aveva una retorica invidiabile, quando voleva. In più quel ragazzo aveva troppe cose da farsi perdonare...

Senza pensarci sopra di più – per paura di cambiare idea e ritrovarsi al punto di partenza – la Tigre scese quasi di corsa dai camminamenti e intercettò il figlio appena prima che sparisse nelle viscere della rocca.

“Devi fare una cosa per me.” gli disse, senza troppi giri di parole.

Cesare rimase in silenzio, la tonsura che quasi luccicava alla luce plumbea del sole coperto, una mano sul crocifisso appeso al collo e l'altra stretta attorno a un libro di salmi.

“Devi andare a Ravenna a portare il mio messaggio al podestà.” fece la madre, aspettando una sua reazione.

Il ragazzo parve preso allo sprovvista. Abbassò un momento lo sguardo e poi lo rialzò, guardando oltre le spalle della madre, come se cercasse un appiglio per svicolare quell'impegno imprevisto.

Era combattuto. Voleva rifiutarsi, al solo scopo di disubbidirle, ma voleva anche essere un bravo cristiano. I Comandamenti erano chiari e la Tigre di Forlì, che gli piacesse o meno, era sua madre e come tale andava rispettata e lui doveva seguire i suoi ordini senza fiatare.

Così alla fine, deglutendo, sollevò il mento affilato e fece fremere il naso dritto e lungo, assicurando: “Se è cosa da fare, la farò.”

 

Il corpo di Antioco Tiberti e quelli di alcuni dei suoi uomini dondolavano con un cigolio sinistro al vento freddo della sera ottobrina. I cappi che stringevano i loro colli erano di corda grezza e stavano già scavando nella pelle un solco profondo e scuro.

Pandolfo li guardava in silenzio, senza riuscire a pensare a nulla. Li aveva catturati con facilità, durante una scorreria. Si era trattato di poco più di un addestramento, per i suoi uomini. Sapeva che Venezia presto li avrebbe scagliati contro la Tigre e che quello era solo un modo per tenerli sempre pronti.

Voltò le spalle allo spettacolo spettrale dei morti impiccati e guardò l'orizzonte, più o meno in direzione delle terre dalla Sforza.

Su di lei si stavano dicendo un sacco di cose. C'era chi la tacciava di aver già tradito Firenze e di essere in combutta con Ottaviano Manfredi, al fine di creare uno Stato tutto loro in centro Italia, dopo aver ucciso Astorre Manfredi e aver lasciato che Venezia e Firenze si scannassero a vicenda.

Altri ancora sostenevano che la donna non fosse altro che una pedina del Moro e che suddetto Duca di Milano le avesse lasciato solo l'illusione di contare qualcosa, ma che fosse in realtà pronto a rubarle lo Stato, imponendole un matrimonio tra la figlia e un generale milanese.

Altri ancora dicevano che Firenze stesse per scaricare del tutto la Leonessa, complice Lorenzo Medici che, tra tutti, appariva il suo più grande oppositore, e che quindi, presto, dello stato della Contessa Riario non sarebbero rimaste che macerie.

A tutte queste voci contraddittorie, però, se ne univano un paio che al Malatesta parevano molto più fondate. La prima voleva che l'esercito della Sforza si fosse quanto meno duplicato, andando quindi a creare un inghippo per Venezia e un potenziale pericolo per Firenze, nel caso in cui la Signoria l'avesse davvero abbandonata al suo destino. E la seconda la descriveva in modo abbastanza spietato come divisa in due: il giorno tra i soldati a fare la guerriera e la notte sempre tra i soldati, ma a condurre battaglie di tutt'altra specie.

“Mio signore, un messaggio da Rimini.” gli disse uno dei suoi secondi, porgendogli una missiva, distogliendolo dai suoi pensieri.

Il Pandolfaccio gliela strappò di mano con una certa violenza, ancora memore dello scontro da poco finito, che si era concluso con la rapida condanna a morte di Antioco Tiberti e dei suoi armigeri superstiti.

'Vogliate mio signor sapere che vostra moglie habia ancora pochi giorni prima della nascita del figliolo vostro' aveva scritto il suo cancelliere.

Il Malatesta lesse fino all'ultima riga, solo per essere sicuro che non vi fossero notizie importanti da casa e poi strappò il foglio in tanti piccoli pezzi, lasciando che il vento, lo stesso vento che continuava a far dondolare i cadaveri dei suoi nemici, li portasse via.

 

Cesare era partito prima dell'alba, dopo una notte passata in parte in preghiera e in parte tartassato dalle raccomandazioni di sua madre.

Entrambi, per lo spazio di qualche ora, erano riusciti a mettere da parte i rispettivi odi nei confronti dell'altro e avevano collaborato, anche se in modo estremamente formale, al fine di preparare al meglio il giovane Riario all'incontro con il podestà di Ravenna.

Caterina, dopo averlo visto partire, si era del tutto abbandonata alle sue attività quotidiane, trascorrendo parte della mattina tra il quartiere militare e la cinta muraria e parte del pomeriggio tra la stanza del figlio Giovannino e la cura della preparazione militare di Galeazzo che, in quei giorni come non mai, pareva desideroso di compiacerla con i suoi progressi.

Quando stava già imbrunendo, e una sottile pioggia si era messa a cadere sulla città, Caterina si era ritirata nello studiolo del castellano per ragionare sulle derrate alimentari necessarie e sulla situazione economica del suo Stato.

Mentre Cesare Feo parlava, però, la donna era stata colpita da un pensiero improvviso che le aveva tolto ogni voglia di continuare quei freddi discorsi organizzativi.

Aveva visto la data in cui era stato contabilizzato l'arrivo dei duemila ducati da Firenze, un paio di giorni addietro.

E poi si ricordò anche della data che aveva messo in calce alla lettera inviata al Consiglio dei Dieci appena il giorno prima – con cui aveva spiegato delle pressioni fatte da Venezia sui suoi confini, con oltre tremila tra fanti tedeschi e svizzeri, scrivendo: 'Essi fanno tutto con prontezza, e noi andiamo pur sempre troppo lentamente. Guai a noi se vincono! Non anderanno con tanti riguardi, come andiamo noi! Qui bisogna adunar gente quanta più e quanto più presto si può, per impedire ogni colpo di mano. Bisogna uscire de parole et de cavalli depinti.' – ovvero 21 ottobre.

“Ieri era il compleanno di Giovanni...” sussurrò tra sè, dopo aver scorto una data su uno dei registri del castellano.

L'uomo sollevò lo sguardo verso di lei e poi, vedendone gli occhi verdi velarsi appena di lacrime, preferì far finta di nulla e continuò con il suo discorso.

La Tigre era una donna strana e, pensava il Feo, cercare di consolarla forse sarebbe stato un errore.

Non si poteva mai indovinare la sua reazione, dinnanzi a simili situazioni e quindi era meglio non rischiare.

La Sforza non commentò quella che pareva una mancanza di sensibilità da parte del castellano che, imperterrito, andava avanti a elencare il numero di sacchi di grano rimasti e di carne sotto sale accumulata nel corso dell'autunno.

La donna andò alla finestra e guardò per un momento il buio che si apriva davanti a lei. Come sottofondo alle parole ormai solitarie del Feo, restavano solo la pioggia e lo scoppiettare del camino.

Passandosi una mano sulla fronte, Caterina stava per chiedergli di tacere, quando si sentì qualcuno bussare alla porta.

Il castellano attese che fosse la sua signora a dare il nulla osta a quello che li stava disturbando e così, quando questa lo fece, entrò il Capitano Mongardini, annunciando: “Mia signora, Giovanni da Casale è appena rientrato in città e chiede di poter alloggiare i soldati che porta con sè al Quartiere, e di potervi incontrare.”

Quella notizia improvvisa ebbe sulla Leonessa un effetto tutto particolare. Da pensierosa, si fece, agli occhi del castellano, accesa, come se quell'arrivo avesse per lei un significato molto personale.

“Ditegli che i suoi soldati sono i benvenuti e che io lo incontrerò volentieri a cena.” fece la donna, trattenendo visibilmente la voce.

Cesare Feo la osservava stranito, mentre Mongardini parve non farsi troppe domande e se ne andò subito per riferire le decisioni della Contessa. Il castellano, invece, continuava a fissarla, tanto che la donna, a un certo punto, se ne infastidì.

“Dovete dire qualcosa?” chiese, con voce dura, tornando a corrucciarsi.

“Nulla, mia signora.” si affrettò ad assicurare lui: “Solo...”

“Solo?” lo incalzò Caterina, sentendo uno spiacevole rossore in viso.

Era dura confessarlo anche a se stessa, ma quando aveva sentito che Pirovano era tornato, ne era stata felice, e non solo perché portava con sè soldati freschi da aggiungere alle difese cittadine, ma anche perché aveva voglia di rivederlo.

“Davvero, mia signora, nulla.” tornò sui suoi passi il castellano, senza riuscire a smettere, però, di fissarla con un'espressione che lasciava trasparire un facile giudizio.

“Ricordatevi sempre chi comanda, qui dentro.” lo redarguì la Sforza, senza avere alcuna voglia di protrarre il discorso troppo oltre.

Cesare Feo chinò appena il capo, in segno di remissione, e la lasciò uscire dallo studiolo senza più aggiungere nemmeno una parola.

 

Cesare stringeva nervosamente tra le dita ossute il suo crocifisso, mentre aspettava che il podestà di Ravenna accettasse di vederlo.

Il viaggio, per quanto non lunghissimo, era stato funestato da una fitta pioggia che aveva costretto il ragazzo a chiedere la possibilità di asciugarsi e cambiarsi, prima di presentarsi al suo interlocutore.

Il podestà aveva fatto finta di non dar peso a quella delicatezza del forlivese, ma, di fatto, gli stava facendo scontare la sua richiesta con un'attesa secolare.

La scorta armata del giovane Riario era stata fermata alle porte della città, ma Cesare, trincerandosi dietro la protezione di Dio, era arrivato fino al palazzo senza mostrare troppo l'ansia che lo stava divorando.

Quando finalmente gli venne permesso di accedere alla sala delle udienze, però, il ragazzo non riuscì più a mascherare a sufficienza la sua tensione e la prima cosa che il podestà notò fu il fine tremore che gli agitava le dite appoggiate sul crocifisso portato al collo.

Le formalità si sprecarono, ma, benché fosse già sera, il ravennate ben si guardò dall'invitare formalmente il Riario a cena presso di lui.

“E dunque – fece il podestà, quando ormai le frasi di rito potevano dirsi esaurite – che cosa vorrebbe farci sapere, vostra madre la Contessa Riario?”

Cesare deglutì, il pomo d'Adamo, molto più pronunciato rispetto alla sua prima adolescenza, che scivolava in su e in giù nel collo lungo: “Mia madre la Contessa – iniziò a dire, cercando di ricordare il più possibile le indicazioni che la Tigre gli aveva dato prima della sua partenza – ha notato troppi movimenti delle truppe veneziane nei nostri territori.”

“Voi siete alleati di Firenze.” commentò il podestà, con tono di ovvietà: “E noi di Venezia. E Firenze e Venezia sono in guerra. Posso capire la sua preoccupazione, ma non vedo che possa farci io se...”

“Noi Riario siamo sì stipendiati dai fiorentini – lo interruppe Cesare, la voce che ritrovava un po' di tono, nel poter ripercorrere quasi pedissequamente ciò che sua madre gli aveva fatto imparare a memoria – ma malgrado questo, non ci curiamo affatto della loro politica e avremmo dato le nostre armi alla Repubblica di Venezia, se a tempo le avesse richieste. Ora, Ravenna dovrebbe essere garante per parte di Santa Madre Chiesa, eppure lascia passare le truppe che arrecano danno a Forlì che, di fatto, è territorio di pertinenza papale.”

Il podestà, a quel punto, parve non trovare un modo accettabile di rispondere e così rimase in silenzio per un lungo periodo. Cesare sentiva il sudore scendere lungo la schiena e sulla fronte, benché la sala fosse abbastanza fredda e il camino pressoché spento.

“Ho capito.” fece alla fine il ravennate e, indicando la porta al Riario, concluse: “Se non avete altro da dire...”

Il ragazzo non capiva se la sua missione avesse avuto o meno l'esito sperato, soprattutto perché sua madre non si era data pena di spiegargli cosa volesse ottenere con quell'incontro, ma si ritenne fortunato a essere arrivato alla fine del colloquio incolume.

Per un bel po', infatti, lungo la strada tra Forlì e Ravenna, si era detto che quello poteva essere benissimo un tranello e che lui sarebbe stato ucciso, come vittima sacrificale, al fine di ferire la Tigre. L'unica pecca di questo eventuale piano veneziano era, a suo parere, il fatto che probabilmente la Leonessa nel saperlo morto non avrebbe fatto una piega.

Tornato all'aperto, nell'aria resa fredda e inospitale dalla pioggia che aveva da poco smesso di cadere, Cesare tornò alle porte della città, stando ben attento a non intrattenersi con nessuno e a non incrociare lo sguardo di alcun ravennate. Recuperata la sua scorta, disse che il suo compito era stato portato a termine e che si poteva tornare a casa.

 

Nella sala dei banchetti c'era poca gente. Caterina aveva raggiunto il suo posto in silenzio, facendo appena un paio di cenni di saluto ad alcuni armigeri che stavano già cenando.

Nessuno dei suoi figli era presente, ed era probabile che non sarebbe arrivato nessuno di loro, visto che ormai era già tardi. L'unica, forse, che sarebbe potuto arrivare era Bianca, dato che la Contessa l'aveva intravista ancora nella stanza di Giovannino solo pochi minuti prima.

La donna, quindi, si versò da bere e poi prese un po' di carne dal vassoio con il coltello. Non era di una bestia che aveva cacciato di persona, e quello le fece ricordare come fossero passati ormai parecchi giorni dall'ultima volta in cui era uscita a caccia.

Forse, pensò, se Cesare fosse riuscito nel suo intento e se fosse riuscita a riavere una discreta protezione della città, avrebbe potuto permettersi una battuta in piena regola. Anche se preferiva uscire nei boschi da sola, non le sarebbe dispiaciuto fare una partita di caccia come si doveva, con tanto di muta di cani e di cacciatori di accompagnamento.

Mentre pensava a queste cose, iniziando ad assaporare la carne saporita e ancora molto calda, i suoi occhi restavano fissi all'ingresso, in attesa di veder arrivare Giovanni da Casale.

La sua attesa non fu delusa e dopo pochi minuti finalmente lo vide entrare. Aveva un'espressione seria, come sempre, e il suo sguardo era corso subito a lei, come se non cercasse altro.

Caterina attese con impazienza che l'uomo si avvicinasse. Indossava ancora abiti da soldato, anche se era chiaro che si fosse cambiato, dato che non erano nè umidi di pioggia nè sporchi di polvere o fango.

L'uomo arrivò al tavolo e attese un momento che la Tigre gli dicesse qualcosa. Siccome la Sforza non voleva attirare troppi sguardi – e i pochi presenti già li stavano osservando di soppiatto – gli fece segno di sedersi accanto a lei, sulla sedia che spesso era occupata da Galeazzo, durante i pasti.

Pirovano fece quel che gli veniva suggerito e, quando si sistemò accanto a lei, Caterina poté sentire un alone di limone e di erbe aromatiche che, unite alla piega morbida dei capelli corti del soldato, lasciavano intendere che avesse voluto farsi un bagno, prima di incontrarla.

Trattenendo un sorriso compiaciuto, la Contessa gli sussurrò, mentre gli faceva segno di servirsi pure un po' di carne: “Dunque siete sopravvissuto.”

“Dovevo farlo.” ribatté Giovanni da Casale, senza guardarla: “Dovevo tornare da voi.”

“Mi pareva di avervi detto di far finta che quello che è accaduto quella notte tra noi due non fosse mai successo.” disse allora Caterina, in parte già pentita di essersi mostrata forse troppo felice di rivederlo.

“Infatti non ho fatto cenno a quella notte.” specificò Pirovano, portandosi alle labbra un pezzo di carne e risolvendosi infine a guardarla in viso.

La Tigre si prese qualche istante per studiarne lo sguardo. Faceva fatica a capirlo, tuttavia la sua attenzione era presa da altro. Trovarsi accanto quell'uomo, tanto giovane e prestante, quanto attraente, le aveva fatto tornare prepotentemente alla memoria i momenti che avevano trascorso assieme nella sala delle armi.

Aveva cercato di non pensarci più, perché tanto, per quel soldato, non provava altro se non attrazione fisica, e sapeva che riprovarci con lui sarebbe stato pericoloso. Era pur sempre un uomo di Ludovico e ogni fraintendimento avrebbe potuto rappresentare un pericolo tangibile.

Malgrado ciò, poteva quasi sentire il calore della sua pelle, nell'aria ferma della sala dei banchetti, attraverso la stoffa grezza della sua camicia e il suo respiro, lento e cadenzato, le riempiva le orecchie, così come il suo profilo attirava di continuo i suoi occhi.

Posandogli con delicatezza e per un solo istante una mano sull'avambraccio steso sul tavolo accanto al piatto, Caterina gli sussurrò: “Se vorrete, vi aspetto nella mia camera, questa notte.”

Pirovano deglutì e poi la fissò un istante, chiedendo: “Dite davvero?”

“Certo.” assicurò lei, ricominciando a mangiare.

La Contessa era stata così presa dal giovane che le stava accanto da non essersi accorta che intanto era arrivata Bianca.

La ragazza, vedendo la madre intenta a parlare a bassa voce con il soldato, aveva cercato di rallentare il più possibile il suo passo, tuttavia alla fine era arrivata al tavolo e si era seduta accanto alla Tigre.

La donna salutò la figlia e Bianca fece altrettanto con lei e con Giovanni da Casale, e poi tutti e tre si concentrarono solo sul cibo.

Nonostante ciò, però, la ragazzina non perse mai di vista la madre e l'uomo che aveva vicino e il modo in cui li vide sfiorarsi di continuo, in modo apparentemente casuale, le fece capire anche troppo bene che genere di rapporto intercorresse tra loro.

E così, ancora una volta di più, si trovò a cercare di comprendere la Tigre, e, come sempre, finì per arrendersi, limitandosi a far finta di non vedere e non capire.

 
   
 
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