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Autore: Ghen    30/07/2018    5 recensioni
Dopo anni dal divorzio, finalmente Eliza Danvers ha accanto a sé una persona che la rende felice e inizia a conviverci. Sorprese e disorientate, Alex e Kara tornano a casa per conoscere le persone coinvolte. Tutto si è svolto molto in fretta e si sforzano perché la cosa possa funzionare, ma Kara Danvers non aveva i fatti i conti con Lena Luthor, la sua nuova... sorella.
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Non solo quello che sembra! AU (no poteri/alieni) con il susseguirsi di personaggi rielaborati e crossover, 'Our home' è commedia, romanticismo e investigazione seguendo l'ombra lasciata da un passato complicato e travagliato, che porterà le due protagoniste di fronte a verità omesse e persone pericolose.
'Our home' è di nuovo in pausa. Lo so, la scrittura di questa fan fiction è molto altalenante. Ci tengo molto a questa storia e ultimamente non mi sembra di riuscire a scriverla al meglio, quindi piuttosto che scrivere capitoli compitino, voglio prendermi il tempo per riuscire a metterci di nuovo un'anima. Alla prossima!
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Kara Danvers, Lena Luthor
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ours'
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22. Le stelle 


Vedersi faccia a faccia, parlarne a voce per non essere frainteso, poterle spiegare come aveva ottenuto quelle foto e chiederle, accidenti, se era davvero lei quella degli scatti. James Olsen aveva provato a contattarla più volte ma Kara Danvers diceva sempre di non potersi muovere, di avere da fare con gli allenamenti, di dover studiare, e poi il Ringraziamento in famiglia. Non aveva tempo per lui. E poi si era visto con Clark. Oh, lui era il suo migliore amico, si vedevano quasi tutti i giorni, si dicevano sempre tutto e aveva provato a fare finta di niente, a tenere per lui quello che doveva sicuramente essere un segreto, ma si era accorto che gli nascondeva qualcosa e odiava avere misteri con quel ragazzo, specie se poi, quei misteri, riguardavano la sua famiglia. Così si era ritrovato a casa sua e di Lois per festeggiare insieme il Ringraziamento e, per non rovinargli la festa, aveva aspettato che i suoi genitori tornassero a Smallville per prendere la sua fotocamera e avvicinarlo, dirgli che doveva prepararsi. Sapeva che la cosa lo avrebbe sconvolto.
«Devi promettermi che non farai scenate, solo…», aveva serrato le labbra, facendo una smorfia poco convinta, «Magari ci pensi a fondo, metabolizzi la cosa, e sarai tranquillo con lei».
«Di cosa stai parlando?», gli aveva chiesto con un sorriso, non comprendendo il comportamento dell'amico. Finalmente gli avrebbe svelato il perché di tanto rimuginare. Aveva adocchiato Lois che aveva lo sguardo perso nel vuoto, fingendo chiaramente di non sapere nulla.
«Si tratta di Kara…», gli aveva passato la sua fotocamera dove sullo schermo compariva una foto. «Ricordati quello che ti ho detto».
Ancora mezzo sorriso stampato in faccia, Clark aveva guardato attentamente la foto e poi fatto zoom. Il sorriso si era spento poco a poco quando la verità lo aveva trovato impreparato. Aveva guardato con attenzione la foto e poi aveva schiacciato per visualizzare la successiva, la successiva ancora. Stufo, era tornato indietro alla prima foto, zoomando di nuovo sul bacio.
James aveva sentito l'esigenza, dato il suo silenzio, di riprendergli la fotocamera dalle mani.
Clark era rimasto fermo, composto ma, lo conoscevano bene, piuttosto turbato. E magari arrabbiato.
Lois gli era andata vicino, passandogli una mano sulla schiena e con l'altra strette le sue mani ancora per aria. «Va tutto bene».
«No. Non va bene», aveva chiosato trattenendo la voce, profondamente disturbato.
«Per fortuna c'ero io lì. E la conosco», James si era sentito grato di poterlo dire finalmente, di togliersi quel peso, passandosi una mano sulla fronte. «Un qualsiasi altro fotografo che le avesse riconosciute le avrebbe vendute per scoop ai giornali direttamente il giorno dopo».
«No, no», aveva risposto Clark, iniziando a girare intorno ai suoi stessi passi, mantenendo basso lo sguardo e le braccia contro i fianchi. «Quelle foto non devono vedere la luce, Jimmy, ti prego. Lasciate che le parli io».
«Oh, eddai», aveva aperto bocca Lois, ghignando a braccia a conserte; «Sapevamo che l'avresti presa male, ma Lena Luthor è… diversa».
Clark l'aveva guardata con la sconfitta dipinta negli occhi. «Anche Lex lo sembrava».

Ricordava che le stelle erano state l'inizio di tutto. Guardava il cielo, dalla sua finestra nella vecchia casa dei Kent a Smallville, e si chiedeva perché le stelle gli interessassero tanto, come se a un certo punto si fosse accorto della loro esistenza. E soprattutto perché, insieme alle stelle, ricordava il volto di qualcuno che non conosceva. Aveva diciassette anni, era all'ultimo anno di liceo e stava cercando di ottenere, grazie al suo impegno nel rugby giovanile, la borsa di studio necessaria per proseguire gli studi a Metropolis. Non sapeva ancora quale percorso avrebbe intrapreso una volta diventato ufficialmente un adulto, ma nel mirino aveva avuto diverse università a quali fare domanda. Aveva una ragazza, Lana, degli amici e i suoi genitori, Martha e Jonathan, erano i migliori. Non gli mancava nulla, era felice, solare, eppure la sensazione di sentirsi incompleto lo colpiva ogni volta che si rilassava, che chiudeva gli occhi, che stava da solo. Era convinto che il volto che ricordava appena quando pensava alle stelle ne fosse la causa: magari una sorellina o un'amica molto intima di prima che perdesse la memoria. Aveva chiesto ai suoi genitori che gli avevano rivelato l'esistenza di una cugina, e allora sapeva che doveva essere lei e voleva ricordarla; per quella ragione iniziò a collezionare stelle. Non la conosceva ma gli mancava. Non poteva andare a cercarla finché non l'avrebbe ricordata.
Le stelle erano state il suo chiodo fisso fino al compimento dei diciotto anni e l'assistente sociale che si occupava del suo caso venne a casa sua per parargli di ciò che era successo, se avesse voluto ascoltarla. Lui aveva accettato ma da quel giorno ebbe gli incubi. Non era la storia di ciò che era successo ad averlo turbato e ciò lo turbava maggiormente, perché era la sensazione di non ricordare nulla, la sua famiglia, la sua cugina ancora là fuori da qualche parte e sola che avevano iniziato a tormentargli l'esistenza. Lui doveva ricordare, doveva, e avrebbe fatto qualsiasi cosa, allora, per avere la parte mancante della sua vita.
Aveva frequentato il primo anno di università a Metropolis, dove conobbe Lois Lane e James Olsen, e iniziato prima con lui e poi con lei, a cercare risposte a ciò che era successo. Era convinto che la verità fosse là da qualche parte e che doveva solo trovare un indizio, un qualcosa qualsiasi in modo che potesse aprire la mente ai ricordi sopiti. Questa strada lo aveva portato a capire che ciò che desiderava fare sarebbe stato giornalismo. E lo aveva portato dai Luthor.
Quando si era parlato di persone al potere che potevano essere state coinvolte nell'assassinio dei suoi genitori e dei suoi zii, Clark non aveva avuto dubbi ad immaginare che gli arrestati non erano i soli che dovevano pagare e che qualcuno più in alto si era lavato le mani, non ci aveva messo molto ad indicare i Luthor come colpevoli. Non esistevano prove a loro carico come di nessun altro che non fosse al tempo già agli arresti, ma ogni volta che li vedeva girare sui loro macchinoni, entrare negli edifici come fossero stati i padroni del mondo, sempre circondati da dipendenti come autisti o assistenti, avevano mosso in lui un qualche sentimento di ripugno. Sapeva che quella a Metropolis non era altro che una succursale della Luthor Corp di National City ed era lì che vivevano, proprio la città che il gruppo di criminali aveva tenuto sotto scacco al tempo.
«Non puoi accusarli senza uno straccio di prova», gli aveva ricordato Lois, al loro primo anno di università. «Sei scemo? Serve proprio a uno come te di inimicarsi una delle famiglie più influenti della zona». Lo aveva colpito sulla testa e quel giorno aveva lasciato lui e Jimmy pranzare da soli.
«I suoi modi saranno pure bruschi, ma ha ragione, Clark», gli aveva detto lui dopo aver ingoiato un boccone, «Pensi di andare da loro e farli parlare? Avrai bisogno di molto altro».
Naturalmente non era tanto sconsiderato, sapeva che doveva trovare qualcosa, per questa ragione aveva iniziato con il suo nuovo migliore amico a pedinare la famiglia da una certa distanza, in particolar modo Lex Luthor, il primogenito, che era quello che più spesso si faceva vedere a Metropolis. Doveva avvicinarlo, trovare un qualunque pretesto per conoscerlo.
«Ancora una foto e ce ne andiamo», gli aveva detto Jimmy quella volta, mentre teneva d'occhio l'obiettivo che usciva da uno sportello posteriore aperto dall'autista, davanti a una strada trafficata. Lex si era tirato indietro i capelli che continuavano a finirgli sugli occhi e si era sistemato la giacca sopra la camicia, guardandosi intorno solo un momento, parlando con l'impiegato.
«Tutte le volte che è a Metropolis, prima della Luthor Corp entra in quella caffetteria, e secondo te non coglierò l'occasione per andarci a parlare?», gli aveva rivolto la parola Clark, al suo fianco, nascosti dietro un pilastro di un ponte, nella penombra.
«E come pensi di fare? Ehi, Luthor, posso parlarti un momento di quando la tua famiglia, forse, ha fatto fuori la mia?», aveva ingigantito gli occhi, portandoli verso l'alto. «Sono pericolosi, non so se voglio davvero avere a che fare con loro».
«Ecco perché resterai qui a coprirmi, non devi entrare con me e non devi farti vedere».
«Questa storia non mi piace, Clark. Stiamo già violando la loro privacy… Forse ci stiamo spingendo troppo oltre».
Sul viso di Clark si era tirato su un fine sorriso, guardando il suo migliore amico e dandogli una pacca sulla spalla. Al tempo, Jimmy Olsen era più basso di lui, magro, con un corto taglio di capelli e caratterialmente insicuro, non era un campione in qualche sport e mai lo era stato, non piaceva alle ragazze, era timido e prendeva coraggio solo perché Clark Kent lo voleva al suo fianco e, con lui, anche Jimmy si sentiva forte. Ma quella situazione… Temeva che Clark avrebbe perso di vista la portata del reale pericolo che correvano a stare dietro ai Luthor. Di certo non era un gioco ed era stato felice di aiutarlo a capirci di più sul passato che aveva dimenticato, ma stavano andando contro la legge. Clark sapeva che Jimmy aveva paura e non gli avrebbe chiesto di fare più del dovuto. «Se qualcosa non ti piace, torna a casa. Dico sul serio».
«Non voglio lasciarti solo…».
Clark stava per lasciare lui e il loro nascondiglio quando qualcosa aveva toccato le loro schiene ed entrambi avevano alzato le mani per aria, ingurgitando saliva. Clark aveva visto Lex entrare nella caffetteria, ma gli era sembrato che ormai avesse perso l'occasione. O meglio, qualsiasi occasione. Aveva intravisto con la coda dell'occhio Jimmy chiudere gli occhi e poi ricercare il suo sguardo. «Va bene. Lavori per Lex Luthor?», aveva tuonato, cercando di nascondere i suoi timori a chi, dietro di loro, li minacciava con due pistole sotto le scapole.
«Sì», aveva risposto una voce impastata alle loro spalle, che tratteneva una risata. I due si erano girati lentamente e le pistole, colorate, avevano schizzato acqua sulle loro facce incredule. «Lavoro per Lex Luthor e sono qui per far fuori scemo e più scemo», aveva riso divertita, continuando a schizzare.
«Lois!», l'aveva sgridata Jimmy, tenendosi il petto, «Per poco non muoio d'infarto».
«Alla tua età? Fatti vedere da un medico, però», gli aveva dato una pacca su un braccio, «Forse calo di proteine. Non va mica bene». Poi aveva guardato l'altro, riponendo le due pistole d'acqua dentro la borsetta. «Anche la tua faccia non è che sia messa molto meglio, ragazzone. Hai fatto merenda, oggi?».
«Siamo qui per Lex Luthor e tu ci sorprendi alle spalle con due pistole?! Che faccia devo fare?».
«Stavo andando in piscina quando vi ho visto. Immaginavo stesse ancora sotto alla vostra operazione di stalking».
«Monitoraggio», avevano risposto in coro per correggerla.
«Stalking», aveva ribadito, «Guardate sul dizionario, se non mi credete. Qui per Lex Luthor, eh? È là dentro?».
Tutti e tre si erano piantonati dietro il pilastro, guardando verso la caffetteria. Poi Lois aveva sorriso e si era sporta in avanti, aprendosi un varco tra i due.
«Lasciate fare a me. Ve lo do io il vostro Lex Luthor». Aveva attraversato la strada ed entrambi avevano sgranato gli occhi e tirato le mani in avanti per fermarla.
«Sei impazzita?!», aveva strozzato la voce Clark.
«E cosa vorresti dirgli?! Torna qui», aveva detto a bassa voce anche Jimmy.
«Parliamone, Lois», aveva continuato il primo.
«Quella è fuori di testa», aveva ribadito l'amico, guardando lui. Alla fine, aveva visto attraversare rapidamente anche Clark, chiedendogli di parargli le spalle. «Clark?! Non anche tu! Clark?! Io odio i Luthor», aveva stretto i denti, sollevando gli occhi al cielo.
Lois era entrata in quella caffetteria con una disarmante sicurezza. Aveva da subito intravisto Lex Luthor e il suo aitante autista appoggiati al bancone intanto che si bevevano qualcosa, così non si era fermata distante, facendo subito la sua ordinazione. Al contrario, Clark era entrato sbattendo sullo scalino d'ingresso e si era rimesso in piedi rapidamente solo per correre col viso nascosto dietro un giornale raccattato su uno dei tavoli vuoti fin al carrello delle riviste, guardando come un gufo Lois Lane e Lex Luthor a pochi metri. Ignorava il piano della ragazza, finché non l'aveva vista prendere la sua tazzina di caffè fumante per spostarsi e andare proprio verso di lui. No, contro di lui. Addosso a lui.
«Oh, mio Dio! Che cos'ho fatto?!», aveva cinguettato dispiaciuta a un Lex con la giacca e la camicia imbrattate di caffè. Clark si era sporto per guardare meglio, sconcertato, che per poco non rovesciava il carrello delle riviste. Intanto, l'autista del giovane Luthor si era subito mobilitato verso di lei, quando lui lo aveva fermato:
«No, no, lascia stare. Può capitare a tutti», si era voltato per sorriderle, «Siamo così presi dalla nostre giornate, magari ancora mezzo addormentati», aveva ridacchiato, mentre Lois afferrava più fazzolettini di carta per provare a pulirlo. «Lasci stare, signorina. Davvero, ho del ricambio, non si affanni».
«M-Ma era caldo», si era spinta per cercare di pulirlo a ogni costo. «Sono così sbadata. E così dispiaciuta».
«Era piuttosto caldo, effettivamente, ma-».
«La prego, lasci che possa sdebitarmi in qualche modo».
Era brava, aveva pensato allora Clark, ma ancora perplesso. Tuttavia stava funzionando. O si sarebbe lasciato ripagare in qualche modo, oppure Lois lo avrebbe ammorbato a morte, aveva continuato a pensare. Se non fosse stato per un piccolo particolare.
«Aspetta, ma… tu sei Lois? Lois Lane?».
Lei aveva spalancato gli occhi, colta decisamente alla sprovvista, tanto che non aveva saputo come rispondere.
«Non spaventarti, ti ho riconosciuta da una foto. Tuo padre parla spesso delle sue figlie alle nostre cene. Sono Lex», le aveva aggiunto dopo, forse perché doveva averla vista ancora notevolmente sorpresa, «Lex Luthor». Le aveva offerto la mano e lei aveva fatto un lungo verso di comprensione, stringendogliela.
«Oddio, quindi mi stai dicendo che ho fatto doppiamente brutta figura?! Non solo ho gettato il caffè addosso a un bel ragazzo, ma quel bel ragazzo è Lex Luthor. Non-ci-credo! Oh mio Dio, sono sconvolta», aveva sorriso e poi si era passata una mano sulla fronte, ancora dispiaciuta.
Clark aveva roteato gli occhi, già stufo di come si stava svolgendo la situazione. L'aveva vista blaterare ancora con lui su come Samuel Lane parlasse a cena di lei e di sua sorella minore Lucy, ridere come se ci stesse flirtando, chiedergli scusa di nuovo e poi uscire insieme a lui e al suo autista dal locale. Clark aveva affrettato il passo verso una finestra, per poi abbassarsi di colpo quando li aveva visti troppo vicini e Lois lo aveva ammonito con un solo sguardo. Era uscito dalla caffetteria quando aveva visto l'auto di Lex Luthor andarsene e Lois salutarlo. Anche Jimmy li aveva raggiunti.
La ragazza aveva mostrato ai due un biglietto da visita tenuto stretto tra le dita, guardando poi uno per uno con orgoglio. «Uomini di poca fede», sorrise.
Jimmy aveva subito riso. «Sei stata fenomenale».
Clark non era dello stesso avviso ed era riuscito a malapena a smuovere un sorriso. Lex l'aveva invitata ad andarlo a trovare alla Luthor Corp e lei gli aveva chiesto di andarci insieme, che glielo avrebbe presentato perché quello era lo scopo finale, ma da quel momento, Clark aveva comunque iniziato a prenderla un po' in giro, dandole della futura signora Luthor. Eppure, grazie alla sua intraprendenza, era a un passo da ciò che voleva: conoscere i Luthor, entrare nelle loro vite e scavare sul passato. Non immaginava di certo che infine sarebbe stato inutile, poiché proprio il giorno dell'appuntamento con lei, qualche ora prima, la macchina che accompagnava Lex Luthor alla Luthor Corp ebbe avuto un incidente scontrandosi contro un'altra macchina che andava molto veloce. Clark Kent non aveva smesso di pedinare Lex solo perché avevano quell'appuntamento, così, dopo pochi attimi di titubanza a chiedersi il perché non uscisse dall'auto, aveva lasciato la sua bicicletta a terra ed era corso. Aveva aiutato l'autista ad aprire lo sportello dalla sua parte, in modo che potesse uscire, e poi era accorso dall'altro lato per aiutare Lex. Il ragazzo si era tenuto la testa per la botta presa e Clark lo aveva trascinato sottobraccio fino ad allontanarsi dalla vettura, poi l'autista, che ancora tossiva, si era avvicinato a loro. Clark Kent aveva salvato la vita a un Luthor e non sarebbe passato come un gesto inosservato.
L'appuntamento con Lois era stato rimandato: Clark aveva accompagnato i due e le altre persone coinvolte nell'incidente all'ospedale più vicino ed era rimasto vicino a Lex, seduto in sala d'attesa per sapere qualcosa, fino a quando lui non aveva potuto che ringraziarlo di persona. Per fortuna aveva solo sbattuto molto forte e non aveva avuto niente di rotto, ma l'ospedale lo avrebbe tenuto in osservazione per una notte.
«Ed eccolo… l'eroe di Metropolis», lo aveva accolto così nella sua camera, sorridendo. «Meglio ancora: il mio eroe».
Lui si era grattato la nuca per l'imbarazzo. «Ho fatto ciò che avrebbe fatto chiunque».
«No, non chiunque, credi a me», aveva annuito Lex, abbozzando un sorriso, «Altri si sarebbero lanciati di proposito contro la mia auto, ma che resti tra noi».
Clark aveva sorriso lentamente, a sua volta, incerto se farlo davvero.
«E il mio eroe ha un nome?».
«Ah, sì, certo: Clark. Mi chiamo Clark Kent».
Si erano stretti la mano in tempo per vedere arrivare la famiglia. Lillian Luthor era stata la prima a entrare nella camera con l'unico letto occupato da suo figlio. Si era slanciata in avanti come se con le sue cure avrebbe potuto aiutarlo a riprendersi prima, continuando a chiamare il suo nome. Clark si era fatto piccolo e messo in un angolo quando tutti e tre erano entrati per controllare le condizioni del ragazzo. La madre era avvolta in un lungo vestito dai toni grigi e aveva i capelli raccolti in alto, lo spazio tra le sopracciglia contratto come se fosse stata troppo a lungo con un'espressione accigliata. Aveva preso il viso del figlio tra le mani e lo aveva controllato per ogni centimetro. Il signor Luthor si era avvicinato appena al lettino del figlio, lo aveva guardato, gli aveva chiesto come stava, così gli aveva lasciato una pacca contro una gamba, nemmeno a un braccio, e si era avvicinato a una finestra, guardando fuori. La signora Luthor lo aveva interpellato di andare a chiamare i medici e poi aveva sgridato la figlia di mettersi composta, dato che si era seduta sul lettino di Lex, di stare attenta a non sgualcire il vestito. Era lì che Clark aveva visto per la prima volta Lena, col viso innocente di chi era ancora poco più che bambina, seccata che la madre l'avesse sgridata e rialzandosi a peso morto dal letto, incontrando i suoi occhi. Solo allora anche Lillian Luthor si era accorta di lui, in un angolo.
«Lui è il mio eroe», aveva spiegato Lex fiero, «Il ragazzo che mi ha tirato fuori dall'auto: Clark Kent».
Loro lo avevano guardato imbambolati per qualche attimo, come sorpresi, incapaci di elaborare le informazioni appena raccolte. Il signor Luthor era stato il primo ad avvicinarsi, guardando per un attimo, di straforo, sua moglie. Gli aveva stretto le mani nelle sue e lo aveva guardato con una strana luce di audacia nello sguardo.
«Grazie. Grazie per averlo tirato fuori da lì».
Lillian Luthor, invece, si era avvicinata ancora particolarmente insicura, trattenendosi indietro, come se avesse avuto i muscoli rigidi. Gli aveva stretto la mano e gli aveva sorriso in quello che pareva un movimento innaturale. «Grazie per aver salvato nostro figlio».
«Ho fatto solo ciò che a-avrebbe fatto chiunque», aveva ribadito Clark, ma la voce un po' gli aveva tremato: la donna lo aveva messo in soggezione.

«Kara…». Il suo nome… Aveva sentito se stesso che chiamava la sua piccola cugina nel sogno, nell'incubo che stava vivendo. «Kara, ferma…». Poi si era svegliato, sudato e così si era alzato per correre sulla scrivania della sua camera al campus universitario e disegnare ciò che ricordava, veloce, con le mani e la bocca che ancora gli tremavano. Aveva chiuso gli occhi e trattenuto il fiato, spaventato, ricordando lo scoppio. Si era stretto le orecchie e aveva gettato tutto a terra, svegliando il suo compagno di stanza: lui si stava abituando a quei comportamenti notturni, così si era girato per cercare di dormire ancora.
Dubitava che gli incubi stessero risvegliando i suoi ricordi addormentati perché si era avvicinato ai Luthor, ma era ancora convinto della loro minaccia e non gli era bastato conoscere appena il giovane Lex per scagionarli. Lui lo aveva portato a casa sua a Metropolis, gli aveva fatto fare un giro alla Luthor Corp e gli aveva chiesto di chiamarlo se mai avesse avuto bisogno di qualcosa, perché voleva sdebitarsi, ma Clark non aveva ottenuto ciò che voleva. A quel punto, anche se li credeva colpevoli, si era reso conto che nemmeno lui sapeva che cosa voleva.
«Pensavo di trasferirmi per un po' di tempo a National City», aveva detto a Lois e Jimmy nella mensa della Freeform University Metropolis, l'università che tutti e tre frequentavano. Loro lo avevano guardato allibiti, anche se comprensivi: sapevano che sarebbe potuto succedere. «Ho lì le mie radici, voglio cercare di trovare ciò che mi manca».
«Andrai a cercare tua cugina», gli aveva risposto Lois. Non era una domanda, sapeva che lo avrebbe fatto e ne prendeva atto.
Lui aveva sorriso ma era ancora incerto, aveva paura di rivederla; perché se era vero che voleva ritrovare quella parte della sua vita mancante, la stessa gli metteva addosso una paura indescrivibile e quella Kara, sua cugina, sarebbe stata una persona vera, non un ricordo confuso.
«Come farai con gli studi?», gli aveva chiesto invece Jimmy. Era felice che l'amico avesse avuto l'idea di seguire il suo passato, ma gli sarebbe mancato: senza di lui al suo fianco, era solo un ragazzetto anonimo come tanti.
«Proseguirò lì il secondo anno, in un'altra università. Ho già fatto domanda, in realtà… Penseranno a tutto loro, per il trasferimento», aveva debolmente sorriso. «Mi mancherete, ragazzi».
Jimmy gli era arrivato addosso per abbracciarlo e si erano dati delle pesanti pacche sulle spalle, ma Lois era rimasta bloccata sulla sua sedia, continuando a mangiare la sua insalata.
«Mancherai a Lana Lang», gli aveva detto poi, con tono accigliato.
Lui aveva aggrottato le sopracciglia, mettendosi sulla difensiva. «Saranno almeno due mesi che non sento Lana… Cosa c'è, sei gelosa per caso?».
«Pff. Sciocchezze», aveva sibilato a denti stretti e occhi socchiusi come a voler dare un'aria di superiorità.
National City era molto meno rumorosa di Metropolis. Era pur sempre una grande città, ma Clark aveva trovato il traffico più sostenibile. Nei primi giorni lì si era sistemato nel nuovo campus della nuova università, era andato a parlare con i professori, si era assicurato che tutto ciò che lo riguardava fosse a norma, e poi aveva iniziato a girare per le vie in cerca di qualcosa che nemmeno lui sapeva. Si era creato le sue abitudini, i suoi posti; Metropolis gli era mancata già a una settimana che era via, ma si era deciso a restare nella disperata ricerca di chi era stato e di chi aveva amato.
E trovare Kara, comunque, non era stato poi così difficile. Vederla, invece, lo era stato eccome.
Aveva contattato l'assistente sociale e le aveva espresso il desiderio di rivederla, così gli aveva lasciato il suo nuovo nominativo: Kara Danvers. Sapeva che abitava fuori National City e aveva preso il treno. Aveva trovato l'indirizzo e si era appostato a pochi metri dalla sua casa; una volta lì, però, si era immobilizzato dal terrore. Le sue gambe si erano fatte pesanti e non era più riuscito a muoversi, a fare un altro passo verso di lei. Era rimasto fermo a studiare un piano, doveva solo bussare e poi tirare fuori un bel discorso. Sembrava facile. Sembrava. Il cuore gli stava scoppiando in petto. Immaginava che sarebbe stata arrabbiata per averla cercata dopo anni, che magari lei, che ricordava, aveva sentito la sua mancanza ogni giorno. E cosa dirle per quella mancanza? L'aveva sognata, ma di lei ricordava solo il viso, il suo sorriso e le stelle. Ricordava che le voleva bene e che si spalleggiavano a vicenda. Solo quella ragione lo aveva spinto a tentare. Si era avvicinato che la porta di casa si era aperta e l'aveva vista: alti codini biondi, incredibilmente più alta dalla Kara che ricordava, stretta nei suoi pantaloncini in jeans, nella felpina aperta. Sguardo basso, Kara si era avvicinata a un cespuglio e aveva iniziato a spulciarlo di solo lei sapeva cosa. Lui aveva trangugiato saliva e l'aveva fissata, tremante. Sapeva che quello era il suo momento, ma lui conosceva appena quella ragazzina. Lei però era triste: aveva bisogno di lui, doveva farsi avanti. Doveva farsi avanti subito prima che fosse tardi. Però…
«Oh, mi hai aspettata?».
Un'altra ragazza, dai lunghi capelli castani, era uscita dalla porta di casa dopo di lei e aveva raggiunto sua cugina. Ancora con il corpo che sentiva duro come la pietra, Clark si era tenuto ben nascosto dietro una staccionata e dei cespugli, osservando le due.
«E andavo senza di te?!», aveva sorriso Kara, portando le mani dietro la schiena. «Dove potrò mai andare senza mia sorella?!».
«Da nessuna parte», aveva prontamente risposto l'altra, passandole una mano sulla testa per poi spingerla indietro. «Hai imparato, finalmente».
Clark le aveva viste allontanarsi insieme, vicine, dandosi colpetti a vicenda e soprattutto ridendo. Si era accorto in quel momento che Kara non aveva affatto bisogno di lui. Era tornato al campus universitario con una sensazione di sconfitta sulla pelle, eppure con trattenuto sorriso sulle labbra, poiché lei era andata avanti ed era giusto lasciarla andare. Aveva oltrepassato il cancello del campus dando un'occhiata in giro come al solito, inquadrando di sfuggita, in mezzo ad un gruppetto di altri ragazzi, un viso conosciuto.
«Clark? Clark Kent?».
Si era fermato, ascoltando la composta voce di Lex Luthor chiamarlo. Lo aveva visto salutare il gruppetto dei ragazzi con cui stava con uno sguardo e così venire verso di lui, mani nella giacca dei pantaloni a righe, elegante come sempre. «Cosa fa qui Lex Luthor?».
Si erano stretti la mano come due vecchi amici e Lex gli aveva battuto una pacca su una spalla. «Cosa fai tu, qui», aveva rimbeccato lui, con un ghigno. «Questa è la mia città e in questa università ho degli amici».
«Frequentavi questo posto?».
«Oh, no, no. Ho solo degli amici un po' ovunque, non studiavo qui…».
Fu allora che lui e Lex diventarono davvero intimi. Averlo nella sua città, aveva reso Lex come un bambino a Natale: lo aveva portato a villa Luthor, lo aveva fatto partecipare a pranzi e cene di famiglia, lo aveva incluso nella sua vita come se non avesse avuto nessun altro, nonostante continuasse a vantare tanti amici. Qualche anno più grande di lui, Lex lo aiutava con gli esami, insieme giocavano alla Play Station, leggevano fumetti, uscivano a bere qualcosa insieme, parlavano di discorsi importanti come il futuro e la famiglia, anche di quella a cui Clark mancavano i pezzi. Si era avvicinato a Lex Luthor in modi in cui non avrebbe mai immaginato e aveva conosciuto, sotto la sua armatura da giovane uomo d'oro per gli affari, un ragazzo fragile, a tratti insicuro, che avrebbe voluto essere più spensierato e godersi la vita. Lex si era confidato a lui e lui si era confidato a Lex perché, a dispetto di ciò che aveva sempre pensato sui Luthor, lui era diventato suo amico.
«Diventerò reporter… Ma magari nell'immediato dopo gli studi cercherò di guadagnarmi dei soldi per mantenermi un posto dove stare, non avrò più il campus e non voglio tornare a Smallville dai miei, sai, loro hanno già abbastanza problemi e non voglio pesare…», gli aveva detto Clark una sera. Erano fuori sotto le stelle, nel giardino di villa Luthor. Lui si era sdraiato sull'erba e Lex non ci era riuscito, preferendo uno sdraio. Avevano birra e salatini, i signori Luthor non c'erano e Lena era fuori con loro. Stavano bene, protetti dal mondo, soli.
«Sei fortunato, Clark».
«Perché?», aveva ridacchiato, «Non mi sembra proprio».
«Come non ti sembra?», si era voltato per guardarlo in viso. «Non vedi? Puoi fare quello che vuoi, hai il mondo a tua portata, puoi decidere di andartene domani e diventare chiunque tu voglia! Non sei legato qui, Clark. Io so già chi sarò. Mio padre mi sta passando la Luthor Corp a Metropolis, vuole che sia io a guidarla. Non ho problemi ad ammettere che è un impegno che sono pronto ad avere sulle spalle ma…», Lex si era fermato, guardando di nuovo verso il cielo, «mi sono sempre chiesto chi sarei stato, se non un Luthor».
Prima di allora, Clark non l'aveva mai vista in quel modo: il suo amico aveva una famiglia che a suo modo di vedere nascondeva più segreti di chiunque, una madre despota che se la prendeva per la maggiore con la figlia adottata, un padre assente, non certo come il suo che gli aveva insegnato a guidare e a fare lavori manuali, ma aveva soldi, proprietà, un futuro sicuro. Ciò che molti si sognavano di avere. Si era accorto di non aver mai capito niente e che forse li aveva sempre giudicati male.
Erano passati mesi e il secondo anno universitario stava per concludersi, indeciso se tornare a Metropolis perché anche lì a National City, ora, aveva qualcuno.
«Puoi restare. Se non sai dove andare, la mia casa è sempre aperta per te», gli aveva detto un pomeriggio, rientrando al campus dalle lezioni. Lex andava spesso lì per incontrare qualche ragazzo, così approfittava della cosa per passare del tempo con l'amico.
«Lo so, ma…», Clark si era grattato la nuca, ancora molto indeciso. «Mi piace qui a National City, ma pensavo di trovare le mie radici e invece non faccio che disegnare scarabocchi e ricordare due nomi. E a Metropolis…».
«Ti aspetta quella ragazza», gli aveva sorriso e poi fatto l'occhiolino. «Ho capito, ho capito», aveva annuito, «Le ragazze vengono prima degli amici».
Sia Lois che Jimmy erano venuti a trovarlo, e lui era andato da loro, ma gli era mancato passare del tempo vero in loro compagnia. Clark aveva alzato la mano destra e così scombussolato la perfetta pettinatura di Lex, infastidendolo. «Dovrai tagliarti questa bella chioma, prima o poi».
«Non accadrà mai», aveva deliberato lui, togliendo dalla sua valigetta un pettinino e sistemandoseli da un lato di nuovo.
Aveva deciso di tornare, gli mancava solo un'ultima cosa da fare lì a National City, una cosa che aveva lasciato come ultima apposta perché era ancora più spaventosa che vedere sua cugina: non andare nel luogo dell'incidente, ci avevano costruito sopra, ma andare a trovare nella prigione di Fort Rozz Astra, la gemella di sua zia, madre di Kara. Aveva lasciato detto a Jimmy per telefono che aveva una discreta paura di parlare con lei, di conoscere le risposte, e lui gli aveva fatto gli auguri, aggiornandogli che gli avrebbe fatto un regalo. Aveva sorriso, non capendo proprio di cosa stesse parlando, finché non si era visto Lois Lane ferma davanti al cancello del campus, che lo aspettava. Il suo regalo.
«Jimmy mi ha detto tutto e avevo la giornata libera, così… Non mi fraintendere, Smallville, non ho una cotta per te o qualcosa del genere, ma devi andare a trovare una tizia in prigione e voglio esserci per pararti le chiappe», aveva sorriso, tirandolo verso di lei per camminare.
Le cose tra loro avevano cominciato a farsi strane da qualche tempo. Non che si fossero mai definiti amici, ma c'era sempre stato tra loro quello strano rapporto che li teneva vicini, e forse lei diceva di non avere una cotta per lui, anche se dimostrava il contrario, ma lui per lei l'aveva, l'aveva eccome e sarebbe tornato a Metropolis solo per averla più vicino.
Li avevano fatti entrare e si erano seduti davanti al vetro che li avrebbe divisi da lei e gli altri criminali della prigione. Varcata la porta dove l'attendeva la saletta delle visite, Astra, capelli spettinati e sciupati, si era bloccata e aveva lanciato ai due un'occhiata sospettosa.
«Io questi non li conosco», l'avevano sentita dire alla guardia carceraria accanto, che si era subito stizzita e l'aveva spinta per andarsi a sedere davanti a loro. Astra aveva preso la cornetta e così dall'altra parte, seppur col cuore in gola, aveva fatto Clark. «Sei il figlio di Jor e Lara», aveva detto pigramente, per poi chiedere con più energia: «Dov'è Kara? Sta bene?».
Si era accorto che lei non doveva sapere che lui aveva perso la memoria. Aveva abbassato lo sguardo indeciso su cosa dire e Lois lo aveva spronato con uno sguardo. «Kara sta bene. Lei è felice». Aveva visto gli occhi della donna inumidirsi e si era sentito per un attimo in colpa, anche se di fatto, per quel che ne sapeva, lei era una dei responsabili di ciò che era successo alle loro famiglie. «Lascia perdere Kara, sono venuto in cerca di risposte».
Astra si era soffiata il naso con un fazzolettino tirato fuori dalla sua divisa color cemento e lo aveva guardato appena, prendendo un grosso sospiro. «Voglio vedere mia nipote».
«Cosa?».
«Voglio vedere mia nipote: è la mia richiesta, non avrai nulla da me se non potrò vedere Kara».
Clark aveva stretto le labbra e la cornetta. Era ovvio che non avrebbe potuto accettare la sua richiesta. Lois si era fatta dire cosa aveva risposto la donna e aveva strappato la cornetta con grinta dalle mani del ragazzo, particolarmente in estasi. «Sentimi bene! Dopotutto quello che è successo anche a causa tua, hai pure la faccia tosta di sollevare richieste? Tua nipote sta bene dov'è, senza di te. E se le volessi anche solo un briciolo di bene, lo sapresti da sola e la lasceresti in pace».
Astra l'aveva guardata a lungo e poi Clark, come se stesse rimuginando una risposta. Infine aveva lasciato la cornetta e si era alzata per andarsene. Clark dovette tenere ferma Lois per non farle sfondare il vetro. Aveva tenuto lei e allo stesso modo tenuto buono se stesso, cercando di non cedere alla rabbia.

«Accidenti, cominciavo a essere geloso di questo Lex Luthor». Jimmy lo aveva stretto in un forte abbraccio al suo ritorno a Metropolis. «Lo pedinavi e ora finisce che siete diventati amici».
Clark si era stupito di vederlo più robusto, poco più alto di lui e gli era parso perfino più sicuro di sé. «Dicono che l'adolescenza trasformi, ma sembra che a te abbia trasformato in ritardo», gli aveva sorriso e lui si era tirato indietro, come imbarazzato.
«Umh. Quel in ritardo si chiama Lucy», aveva risposto Lois, per lui.
Clark aveva spalancato la bocca dall'incredulità. «Lucy? Esci con sua sorella?».
Jimmy aveva annuito, mettendo le mani contro il petto in posa fiera. «Lei è… eccezionale, mi aiuta a tirare fuori il meglio di me».
«Siamo quasi cognati», gli aveva battuto il petto e questa volta era stato Jimmy a fare una faccia incredula.
«Tu e Lois…? Voglio dire…», li aveva indicati.
Lois, che era andata da lui a National City per aiutarlo nel trasloco di ritorno, si era portata una mano sul viso e aveva scosso la testa. «Ci siamo scambiati un bacio e ora pensa che stiamo insieme», aveva sbottato. «Questi ragazzi cresciuti in campagna…».

Il tempo era volato da quando aveva ripreso l'università a Metropolis. Lui e Lois erano diventati ufficialmente una coppia, avevano entrambi deciso che avrebbero proseguito la strada del giornalismo e Clark aveva cominciato a frequentare un corso per chi riportava amnesie come la sua a seguito di un trauma e una psicologa che lo aiutasse ad andare avanti. Arrivato a quel punto, si era deciso che forse la cosa migliore sarebbe stata lasciar correre. A volte si sentiva in colpa all'idea di voler semplicemente essere felice e pensava che se solo, forse, avrebbe ricordato di più, l'avrebbe pensata diversamente. I visi dei genitori che lo avevano lasciato erano solo un'ombra di colore di una vita sfocata, e quelli che lui riconosceva come tali erano la sua famiglia. Kara era felice. E forse, dopo aver accusato i Luthor senza prove, si era reso conto di essersi voluto solo cercare un nemico che non esisteva.
Alla festa di laurea, Lex si era presentato con sua sorella Lena, allora diciassettenne, e il ragazzo di quest'ultima, un certo Jack Spheer. Gli aveva regalato una fornitura annuale dei fumetti che preferiva. Clark era rimasto senza parole. «Io…», aveva spalancato la bocca, «non so davvero cosa dire».
«Un grazie basterà», gli aveva dato delle pacche su una spalla e si erano abbracciati, mentre Lena aveva scattato loro una foto, e un'altra mentre sorridevano all'obiettivo. Jimmy si era indispettito perché, essendo anche la sua festa, non aveva con sé la macchina fotografica per pensarci lui.
Intanto, aveva avuto altro a cui pensare: alla cerimonia era presente anche il padre di Lois e Lucy e aveva tirato fuori il petto per andare a conoscerlo e provare a fare bella figura. Lui e Clark si erano scambiati consigli, ma Lois, anche lei vestita da cerimonia, aveva riso in faccia ad entrambi.
«Volete piacere a mio padre? Io non piaccio a mio padre, voi non avete alcuna possibilità». Li aveva spediti verso di lui, augurando loro Buona fortuna.
La cerimonia era durata diverse ore. Clark aveva anche potuto riabbracciare i suoi genitori arrivati da Smallville solo per lui. Tutto stava andando bene, fino a quando una ragazza tra loro non si era sentita male all'improvviso; Clark e altri si erano mobilitati per soccorrerla e infine era stata portata via in ambulanza. La festa era ricominciata in fretta, ma tutti i presenti si erano chiesti cosa le fosse successo. Clark non lo avrebbe scoperto prima di un anno e mezzo da quella festa.

Anche se abitava ancora a Metropolis e lui e Lois stavano ponderando l'idea di andare a convivere, Clark passava ancora molto tempo a National City, anche a villa Luthor. Lex lo accoglieva come un fratello e tutta la famiglia si era abituata ad averlo in casa. Lillian Luthor lo guardava ancora, al tempo, come se non fosse particolarmente felice della sua presenza, ma d'altro canto, Lex gli diceva sempre che lei non era felice della presenza di nessuno. Lei e suo marito non erano mai piaciuti a Clark, ma li sopportava perché voleva bene al loro figlio.
Lena aveva iniziato l'università, stava ancora col suo ragazzo ma Clark la vedeva spesso in compagnia di diverse ragazze, non comprendendo appieno che tipo di relazione avessero. Tra le ragazze che facevano compagnia a Lena, c'era Veronica Sinclair. Era sua amica, così si definivano, ma a Clark non piaceva. In quel periodo, per guadagnare dei soldi, si era proposto come tutor e lo avevano chiamato quando serviva il suo intervento in alcune università di National City, compresa quella frequentata dalla giovane dei Luthor e Sinclair. Sapeva che giravano brutte voci riguardo a quella ragazza e che gli studenti la chiamavano Roulette, perché amava giocare d'azzardo. Lei in quella villa era un'ospite quanto lui, e non doveva piacergli per forza.
Una mattina si era trattenuto un po' più a lungo con un gruppo di studenti e, uscendo dall'aula data a disposizione, altri lo avevano chiamato per soccorrere uno studente che si era sentito male. Aveva trovato quel ragazzino, gracile e pallido, sdraiato sul pavimento di un bagno. Sfortunatamente non era la prima volta che succedeva in quella e in altre scuole, aveva cominciato a credere ci fosse un'epidemia in corso. Aveva chiesto a una ragazza di chiamare i paramedici dell'università ma lei e altri alle sue spalle avevano iniziato a confabulare e allora si era incuriosito, voltandosi di scatto. Quando lo avevano sorpreso a girarsi verso di loro, avevano cercato di nascondere qualcosa.
«Cosa avete lì? Ha a che fare con lui?», aveva indicato il ragazzo a terra, inviando qualcun altro a chiamare i paramedici.
I ragazzi erano diventati tutti incredibilmente silenziosi, a parte una di loro, che batteva le labbra e guardava gli altri come a volersi dare coraggio. Era bastato che Clark l'avesse chiamata per nome per farla parlare, rimproverata dagli amici: «Io non c'entro niente! Non la volevo nemmeno quella roba».
«Di cosa stai parlando?».
Fu allora che la ragazzetta, mentre gli altri scappavano, gli aveva dato quelle curiose pillole verdi all'interno di un sacchetto di plastica. «Deve parlare con Roulette, signor Kent! Io voglio starne fuori… È a lei che ci rivolgiamo se vogliamo divertirci un po'».
Era lì che tutto iniziò a crollare. I paramedici si erano occupati del ragazzo svenuto e lui, frastornato e arrabbiato, aveva consegnato loro il sacchetto per assicurarsi che avrebbero saputo come intervenire. Quella ragazza non gli era mai piaciuta, ma che spacciasse droga nell'università lo aveva trovato incredibile e incredibile era che una persona come lei frequentasse Lena e Lex. Era chiaro che loro non potevano saperlo. Era chiaro. Che ingenuo.
Aveva fermato Roulette da sola e l'aveva interrogata, in università, mostrandole un altro dei sacchetti che aveva sequestrato a dei ragazzi. «Dieci pillole per sacchetto. Dove prendi questa roba? È così che ti paghi gli studi?».
Lei non gli era sembrata per niente spaventata dal suo tono, né che l'aveva scoperta. «Ognuno fa ciò che può».
«Mi prendi in giro?». Aveva gettato il sacchetto a terra, vicino a lei. «Questa roba fa stare male i ragazzi e tu la vendi come caramelle?».
«Frena, boy scout. Per prima cosa non fa male a tutti, capita un caso ogni tanto, è buona e di qualità. Io non vendo roba scadente, okay? La mia clientela è soddisfatta», si era messa le braccia a conserte e lo aveva guardato come se gli fosse superiore. «E secondo, tesoro, questa roba gira da ben prima che mi iscrivessi all'università proprio sotto il tuo bel nasino. Forse dovresti parlarne col tuo amico del cuore: Lex».
Se n'era andata e lui era rimasto sgomento. Lex lo sapeva? Non ci aveva messo troppo per andare da lui e chiedergli spiegazioni. Gli aveva mandato un messaggio, scoprendo che in quel momento si trovava alla sua vecchia università, dove una volta gli aveva detto di avere degli amici. Tutto gli era diventato più chiaro in un momento. Lo aveva trovato circondato da ragazzi e lo aveva bloccato, scacciando via tutti gli altri.
«Che temperamento aggressivo», aveva riso lui, spostandosi un poco per respirare. «Cosa ti prende, amico?».
«Cosa mi prende? Cosa-?», la voce per un attimo gli era mancata e aveva tirato fuori dal marsupio che si portava dietro il sacchettino di pillole verdi, osservando lo sguardo di Lex cambiare espressione e diventare più serio.
«Non è come sembra, Clark».
«Non è come sembra?», si era trattenuto dal non urlare, mantenendo la sua solita aria calma, «Da quanto tempo fai circolare questa roba? Quando ci siamo conosciuti era già in commercio?».
Lui aveva alzato gli occhi al cielo e stretto le labbra, trovando le parole da spiegargli, pur sapendo che al momento sembrava qualcuno non proprio pronto a sentire spiegazioni. «Quella… è una miscela speciale, con la base di droghe sintetiche analizzate con l'aggiunta di ingredienti che… che faccio io in laboratorio. Aumenta la concentrazione, migliora le prestazioni e non crea dipendenza, non è droga».
Clark era rimasto inorridito da quella spiegazione e si era quasi pentito di avergli dato l'occasione di parlare. «La fai tu? Fa stare male i ragazzi».
Lui si era inumidito le labbra, prendendo respiro e infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. «È capitato che ad alcuni soggetti-».
«Soggetti?», lo aveva interrotto, sconcertato di come li aveva chiamati.
«Che ad alcuni soggetti», aveva ribadito, «più sensibili crei qualche disagio, un piccolo effetto collaterale che sto cercando di isolare e correggere. Mi sto muovendo in questo senso, Clark, non mi piace che qualcuno stia male per causa mia. Miglioro la formula appena ne ho occasione».
«Non dovresti vendere questa roba», aveva agitato il sacchetto. Era affannato, il cuore gli era battuto in petto impazzito, incapace di credere che quel ragazzo che parlava di soggetti e formule sulla vita degli altri lo avesse definito suo amico. «Perché non ne sapevo nulla?».
«Perché immaginavo avresti avuto una reazione di questo tipo. Ti conosco, Clark, non volevo rovinare la nostra amicizia per questa sciocchezza».
«E la chiami sciocchezza?».
«La tua è una reazione esagerata per i fatti che sono capitati nella tua vita, Clark. Sei un ragazzo ipersensibile a causa dei vuoti di memoria dovuti allo scoppio e non volevo farti agitare».
Quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: lo aveva spinto contro il muro e lo aveva bloccato, guardandolo dritto negli occhi chiari. Aveva detto quella frase con una voce talmente ferma e distaccata, in quel momento dove lui non riusciva a pensare lucidamente, da fargli tornare a galla tutti i suoi sospetti sui Luthor. «Cosa sai tu di cosa mi è successo? Di cosa è successo alla mia famiglia?».
«Abbastanza», aveva risposto stringendo i denti, allontanandolo da sé e sistemandosi la giacca. «Mio padre mi ha rivelato che erano coinvolti, Clark», lo aveva visto spalancare gli occhi e arretrare un passo, «Che erano coinvolti ma che avevano tentato di aiutarvi. Di aiutare i vostri genitori. Ma anche che era ormai troppo tardi», aveva abbassato gli occhi, prendendo un altro respiro. «Mi dispiace, Clar-».
«Tieniti i tuoi dispiaceri! Da quanto lo sai?».
«Qualche mese. Forse».
«E in tutto questo tempo non hai pensato di dirmelo? Non hai trovato un solo momento per parlarmene?».
«Te ne sto parlando ora», gli aveva detto piano. Aveva cercato di avvicinarsi a lui e dargli una pacca sulla spalla, ma Clark si era tirato indietro. «Siamo amici. Non sapevo come dirtelo e pensavo di proteggerti, Clark, cerca di capirlo».
Ma Clark aveva smesso di cercare di capire. Aveva smesso di provare a parlare. Aveva chiuso. «Stai lontano da me», lo aveva aggredito con la voce e infine spingendolo via, dove per poco non lo fece sbattere di nuovo contro il muro. «Ritira quella porcheria verde dalle università o da qualunque altro posto tu e la tua amica Roulette la vendiate o andrò a denunciarvi».
Intuendo che il pericolo dato dalla denuncia era reale e avendo intensificato i controlli anti-droga dopo che erano state scoperte le pillole verdi, Roulette aveva deciso di lasciare gli studi prima che si facesse il suo nome e Lex si era trasferito definitivamente a Metropolis, facendo della Luthor Corp lì il suo regno.
Clark Kent era passato un'ultima volta a prendere le sue cose lasciate a villa Luthor poco prima che il suo vecchio amico si trasferisse, decidendo di chiudere definitivamente la faccenda perché, con delusione, si era reso conto di non conoscere realmente quelle persone, troppo diverse da lui.
«Davvero mi denuncerai?», gli aveva chiesto Lex prima che uscisse dalla sua camera con una scatola tra le braccia, contenente tutte le sue cose.
Clark non si era neppure voltato. «Sì. Non puoi giocare in questo modo con la salute degli studenti».
Lex aveva stretto i pugni e gli aveva urlato contro per la prima volta, con voce strozzata: «Non vuoi capirmi, Clark. Ti ho spiegato».
«Una volta mi hai detto che avevi il futuro già segnato e che ti eri chiesto chi saresti stato, se non un Luthor», si era girato solo per un attimo, «Ci hai pensato e sei finito a fare lo spacciatore».
«Non è droga! Pensavo fossimo amici, che anche se all'inizio non avresti compreso, poi-».
«Poi che cosa?», se n'era andato, lasciando la porta aperta, «Non siamo amici. Forse non lo siamo davvero mai stati».
«E allora vattene! E non farti più vedere».
«Me ne sto andando». Diceva sul serio ed era convinto che lì non ci avrebbe mai più messo piede. Fortunatamente i coniugi Luthor erano alla Luthor Corp, perché non avrebbe avuto voglia di vederli. Era stata Lena a fermarlo, sulla soglia del cancello:
«Non glielo fare».
«Che cosa?». Aveva aperto la portiera del taxi che lo aspettava e poggiato la scatola di cartone sui sedili, per poi guardare la giovane Luthor con sconfitta e amara disillusione.
«Sei l'unico vero amico che lui abbia mai avuto», gli aveva confessato, ma Clark non aveva intenzione di fermarsi.
«Tu sapevi delle pillole verdi?».
«Sapevo che le vendevano, non credo sia droga. Non sapevo che dei ragazzi fossero stati male, ma sono certa che Lex se ne sta occupando. Risolverà la situazione, lo fa sempre».
Lui aveva abbozzato una risata, per poi scuotere la testa. «Non credere a tutto ciò che lui ti dice. E stai attenta alle persone che frequenti», aveva chiuso lo sportello dopo che si era seduto e il taxi lo aveva portato via. Era stata l'ultima volta che aveva visto e sentito Lex e Lena, o almeno fino alla chiamata dove quest'ultima gli aveva rivelato che credeva che la sua nuova sorellastra era la sua cugina scomparsa e lo invitava a presentarsi all'evento organizzato dalla Luthor Corp a National City.
Ne aveva parlato molto con Lois e aveva avuto davvero paura che fosse lei. Non solo doveva rivedere la cugina che pensava di aver lasciato andare, ma doveva affrontare il senso di profondo disagio che gli aveva messo addosso saperla come nuova sorella di Lex Luthor e figlia di quella donna, Lillian Luthor.
«Cosa pensi di fare?», gli aveva chiesto Lois al riguardo. «Le dirai del coinvolgimento dei Luthor per quello che vi è successo?».
Lui ci aveva pensato a lungo, devastato da quella prospettiva. «No. Come potrei farlo? Non la vedo da anni e se non sanno che lei sa, i Luthor sono innocui. Posso vegliare su di lei da lontano… Non ha senso metterle paura verso delle persone che stanno diventando la sua nuova famiglia».


Vederla stare insieme a Lena Luthor, però, gli aveva cambiato una certa prospettiva e il fatto che frequentasse la sua sorellastra, da quel punto di vista, pareva l'ultimo dei problemi.


***


«Come hai fatto a…?», gli rispose Kara, cercando di capire.
«Jimmy vi ha viste, eravate nella nuova pista di pattinaggio su ghiaccio. Ascoltami, so che avrei dovuto dirtelo prima e mi dispiace, ma non puoi fidarti dei Luthor, non sai com'è Lena».
«Non credo di seguirti».
«Loro sono capaci di sembrare le migliori persone del mondo e non puoi accorgerti della loro vera natura per anni, ma credimi, Kara, sono bugiardi, manipolatori, non puoi sapere se lei ti sta mentendo». Kara si zittì, forse non sapeva come replicare, ma lui sentiva che lo stava ascoltando e il suo respiro corto e affrettato. Colse l'occasione per raccontarle velocemente di Lex, della droga, di come lo aveva preso in giro per anni in quella che credeva amicizia, di come aveva fatto del male a dei ragazzi e di come, soprattutto, lui aveva sottovalutato la cosa.
«Mi stai parlando della tua esperienza con Lex, perché credi che Lena possa fare la stessa cosa?».
«Perché è una Luthor, Kara. Sono cresciuti sotto lo stesso tetto, sotto le stesse influenze. Perché Lena…», trattenne il fiato, decidendo di parlarle, infine, anche di quella cosa, «Perché Lena lo faceva a sua volta anche con il suo ragazzo: stava con lui ma lo prendeva in giro e stava con altre. Loro due sono fatti della stessa pasta, Kara; ti spezzerà il cuore. Noi siamo diversi da loro».
Kara deglutì. La sua espressione era seria, aggrottando le sopracciglia. In verità, si stava piuttosto arrabbiando ed Eliza che continuava a suonarle il clacson per dirle di sbrigarsi non l'aiutava affatto. «Il tuo trascorso con Lex annebbia il tuo giudizio, Kal. Loro non sono… non sono come credi. E non conosci Lena», prese una pausa e così un bel respiro. «Ti prego… ti prego di farti gli affari tuoi. E lo stesso vale per James».
«Kara, per favore…».
«Devo andare». Chiuse la telefonata con voce lapidale e tornò in auto, nascondendo il telefono in borsa.
Clark Kent sospirò pesantemente, lasciando scivolare il cellulare sul divano su cui lui e Lois erano seduti. La guardò con sconfitta e poi andò a ritirarsi sul soppalco, sdraiandosi sul pavimento, guardando il soffitto. Ora che erano spente si vedevano appena, ma le stelle erano ancora lì e doveva solo portare pazienza.







































***

U-oh! Kara ha chiesto a suo cugino di farsi gli affari suoi (e anche a James)! Pensavate che sarebbe andata diversamente? E cosa ne pensate del passato di Clark e del suo trascorso con Lex?
A quanto pare, il maggiore dei Luthor si era dato alla chimica, Roulette aveva poi deciso di dargli una mano, ma Clark non l'aveva presa proprio benissimo. Se già prima aveva sospetti sui Luthor, sentir parlare Lex di ciò che gli era successo lo aveva reso un pochino su di giri, scoprendo la loro verità. È così che hanno rotto la loro amicizia, nata tra lo stalking (o monitoraggio… mh) e il salvataggio.
Cosa ne pensate di Lex? State dalla sua parte o in quella di Clark?
Per il resto, abbiamo scoperto che Clark aveva già trovato Kara in passato, ma tra il suo non ricordarsi abbastanza di lei e lo scoprire che non aveva bisogno della sua presenza nella sua vita perché era felice senza di lui, l'aveva lasciata andare… Ed era anche andato a trovare Astra, che tuttavia non gli era stata di grande aiuto.
Poi, dite quello che volete, ma non so perché scrivendo questo capitolo mi sono accorta che la protagonista indiscussa, per me, è Lois. Ruba la scena. E un'altra cosa, mh, non so perché, ma trovo l'amicizia tra Kal e Lex un tantino ambigua XD

La bella notizia di oggi è che mi è tornata la linea di internet!! Dopo quasi un mese ha dell'incredibile XD
Pian piano, quindi, risponderò a tutte le vostre recensioni, partendo dalla più datata a quella più recente; abbiate fede, arriverò da tutti!

Ed è qui che vi dico ci rileggiamo, con i capitoli, tra un mese :) Mi spiace fare pausa, è la verità, ma ho bisogno di un po' di tempo, come ho già spiegato! Spero solo di ritrovarvi tutti al mio ritorno e per ora vi dico grazie, grazie per il supporto che mi date ogni volta, è davvero importante e mi date anche una considerevole voglia di scrivere e andare avanti, quindi… quella è sempre ben accetta :D
Ricordatevi dove siamo arrivati, il prossimo capitolo si intitola Noi e loro e sarà pubblicato qui lunedì 3 settembre! Non mancate e buone vacanze ^_^



   
 
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