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Autore: SirioR98    30/07/2018    2 recensioni
In fisica, un sistema isolato è un sistema posto così lontano dagli altri da non interagire con loro, oppure un sistema chiuso che non ha scambi con l’ambiente circostante.
È un sistema perfetto, in equilibrio, costante.
Mi chiamo Noah e mi hanno costretto in un sistema isolato.
Noah è un sedicenne nato e cresciuto in una piccola comunità di mormoni nello Utah. Apertamente omosessuale e fiero di esserlo, si ritrova a convivere per cause di forza maggiore con Alex, la sua “persona preferita”, che si identifica come nonbinary. Esplorando la comunità LGBTQ+ di Salt Lake City e sopravvivendo alle sfide della città natale di Joseph Smith, Noah si vede costretto a crescere prima del tempo e a cercare la sua voce.
Genere: Azione, Dark, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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*Angolo dell'autrice*
Buonsalve a tutti e ben tornati~ Il brano di oggi è Devil, uno dei singoli dell'ultimo album degli Shinedown: Attention Attention. Gli Shinedown sono un gruppo alternative rock/metal statunitense, classe 2001. Attention Attention è un concept album strutturato come la storia dell'evoluzione di una persona che dal suo stato originario di negatività e depressione riesce, andando avanti con i brani, a liberarsi di queste emozioni negative e a diventare un nuovo individio; lo si può considerare un album di crescita personale, rimanendo in tema. Devil è il secondo brano dell'album.
Vi auguro una buona lettura!


 
Capitolo 10


“Noah?” Mi domanda una voce gentile dalla profondità dei miei ricordi.
Alzo la testa lentamente, liberandomi dalle braccia in cui l’avevo fatta sprofondare.
Alex è in ginocchio difronte a me, cerca di approcciarsi cautamente.
Dietro la sua figura scorgo degli alberi. Sciolgo la posizione accovacciata con cui mi sono risvegliato, guardandomi intorno spaesato. Sono seduto sull’erba, ai piedi di una costruzione in pietra. Accanto a noi si trova un ponte di legno, che corre sopra un laghetto artificiale.
Liberty Park.
Siamo a Liberty Park.
Perché mi trovo qui? Come ci sono finito?
L’ultima cosa che ricordo è che stavo tornando da lavoro, per qualche motivo mi aveva accompagnato il signor Cox… poi, più nulla.
Sarà stato ore fa, il sole dev’essere già calato da un bel po’.
“Noah, andiamo a casa?” Mi chiede nuovamente Alex, addolcendo il tono.
Apro la bocca per parlare, ma non riesco a pensare.
Ho la lingua impastata, gli occhi stanchi, il naso irritato, un atroce mal di testa.
Mi tocco le guance: sono bagnate.
Ho pianto.
Porto gli occhi sulle mani, per avere una conferma della mia supposizione. Girandole, trovo le nocche rosse ed escoriate.
Le osservo, incapace di ricordare.
Alex mi prende le mani delicatamente e mi tira in piedi con estrema gentilezza.
“Andiamo, si è fatto tardi.” Mi dice, guidandomi verso l’uscita.
La luce proveniente dalle finestre illumina la strada, allungando le ombre per miglia e miglia ancora.
Contro il cielo notturno, la sagoma del rifugio mi sembra meno accogliente del solito.
Non mi sento al sicuro.
Anche meno delle altre volte. Non per i manifestanti, per le belve di Westboro o per una probabile punizione, perché qualsiasi cosa sia successa, le mie nocche mi dicono che ci saranno conseguenze.
No, questa volta è un qualcosa di esterno a tutta la faccenda. Questa volta è qualcosa di più complicato.
Tenendo ancora la mano di Alex, entriamo in casa.
Appena chiudiamo la porta, sento il peso di una trentina di occhi calare su di me. Le teste si girano in sincrono, il brusio si ammutolisce con uno schiocco.
Nessuno osa parlarmi. Tutti mi osservano.
La tensione è palpabile.
Mi mordo l’interno della guancia, trovandola già scavata e dolorante.
Con uno scatto, lascio andare la mano della mia persona preferita e incrocio le braccia sullo stomaco, come se qualcuno potesse trafiggermelo da un momento all’altro. Sento già la lama affilata dell’ansia affondare, perforarmi gli intestini e farsi strada nella colonna vertebrale, trapassarmi da lato a lato.
Completamente a disagio, raggiungo rapidamente le scale per scappare nel rifugio di camera mia.
Vorrei rimanere completamente da solo, parlare con il mio riflesso, interrogarlo sul pomeriggio. Lui saprà cos’è successo, lui era lì.
E, perché no, anche con Dio. Lui dovrebbe vedere tutto, giusto? Mi avrà seguito anche a Liberty Park, avrà assistito alle mie azioni, è testimone di ciò che ho fatto. Potrei chiedere a lui.
Il momento di fede finisce com’è iniziato.
Anche volendo, non mi risponderebbe. Non l’ha mai fatto quando lo pregavo perché la polizia intervenisse, che ci portassero via. Quante notti ho passato insonni, con gli occhi verso il soffitto, a implorargli aiuto?
A nessuno interessa dei randagi, men che meno alle divinità. A chi avrebbero creduto: a un ragazzo senza passato o a un caposaldo della comunità?
Devo ricordare da solo, mi devo sforzare.
Fortunatamente, non sono solo.
Dopo due colpi, la porta si apre. Il viso preoccupato di Marlene fa capolino dietro il legno, controlla se sia possibile entrare.
La invito con un movimento della mano.
Il risultato somiglia a quella gag dei clown nella macchinetta: me ne aspettavo uno, ne spuntano una mezza dozzina.
I ragazzi si sparpagliano per la stanza, sedendosi sui letti e sul pavimento, tutti con religioso silenzio.
Sistematisi, mi osservano e io li osservo di rimando.
Sono preoccupati per me, ma non sanno che dire. Mi sembra che il silenzio imbarazzante regni padrone nella mia vita, finché non scoppia il caos. Non c’è una via di mezzo: o l’assenza completa di suono o il rumore della guerra.
Sayid si schiarisce la gola, attirando la mia attenzione.
“Quindi… che è successo?” Mi domanda, dando voce ai pensieri degli altri ragazzi.
Bella domanda, se lo stanno chiedendo tutti in sala.
Lo guardo attentamente, cercando di ricordare.
E più mi sforzo, più i miei occhi si aprono, fino a farmi esplodere.
“Non lo so! Non lo so. È quello che vorrei capire!” Urlo, facendoli sussultare.
Getto la faccia fra le mani, mentre lascio che cali nuovamente il silenzio.
Sayid mi fissa esterrefatto, non sa cosa dire.
“Sì, però calmati, eh!” Ribatte alla fine, portando una mano avanti, da grandissima diva che è.
Alzo gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
“Magari… se ripercorressi la giornata, ricorderesti qualcosa in più.” Propone Heather, stringendosi nelle spalle.
Non è un’idea malvagia, a dirla tutta.
Annuisco lentamente, ormai troppo stanco per fare altro.
“Va bene, fatemi pensare…”
Se fosse una sceneggiatura, la didascalia leggerebbe: INT. RIFUGIO AARON PETERSON – MATTINA.
Dopo la colazione salgo le scale per andare a prendere il cellulare, prima di avviarmi per il lavoro. La mia corsa è presto frenata dal suono di pianti e di sussurri, provenienti da una stanza alla mia sinistra.
È la stanza di Marlene.
Mi fermo davanti alla porta, girando la testa a fissarla. Ed eccola che si apre, lasciando uscire Audrie. La ragazza pare non accorgersi di me, cammina svelta, lascia la porta aperta e mi sorpassa. Ha un’espressione preoccupante, insieme grave e infelice.
La proprietaria della stanza raggiunge la porta. Riesco a intravedere per un attimo il suo viso, prima che serri il legno: sta piangendo sommessamente, guardando in basso, ferita.
È successo qualcosa.
Vorrei accertarmi che stia bene, ma qualcosa mi dice che, in questo momento, preferisca rimanere da sola. Quindi mi volto e raggiungo la stanza dell’altra ragazza, bussando tre volte.
Dall’altra parte non risponde nessuno. Aspetto qualche minuto, chiedendo se vada tutto bene, cercando di rassicurare la ragazza, offrendole una spalla su cui piangere o un orecchio gentile.
Ma niente, nessuna risposta.
Forse anche lei ha bisogno di rimanere da sola. Avranno litigato, devono solo calmarsi.
Sì, sarà stato sicuramente questo, quando sarò tornato si sarà sistemato tutto.
Decido di recuperare il mio cellulare e andare a lavoro, Cox non ama i ritardatari e io sto già cercando di fargli cambiare idea su di me. Già, arrivare in ritardo non mi aiuterebbe proprio.
Nonostante i miei buoni propositi di rimanere concentrato, non fare soste e raggiungere il 7-Eleven in tempo… non riesco a resistere a un cucciolo corgi incontrato per strada.
Sono solo un uomo, va bene? Non ho il cuore di pietra.
Fortunatamente, sono abituato a correre. Di solito sono inseguito, ma son dettagli.
Così riesco ad attraversare l’uscio quando le lancette dell’orologio appeso dietro il bancone segnano le nove. La puntualità non è mai stata il mio forte, per questo mi congratulo da solo, dandomi delle pacche sulle spalle e stringendomi la mano.
Cox mi saluta con un cenno del capo, contento di vedermi già a lavoro, e m’impartisce gli incarichi del giorno.
“Bada che per le sei dovrai sostituire Travis. Ha una visita medica, deve andare via prima.” M’informa, porgendomi l’etichettatrice e uno scatolone di sottaceti.
Annuisco, facendo il giocoliere con gli oggetti ricevuti, sperando di non ricreare la scena dell’ascensore di Shining con la salamoia.
Dopo aver etichettato ogni singolo barattolo, averli messi sullo scaffale a uno a uno, averli tolti dallo scaffale e rimessi su quello giusto in tre perfette file, mi ritrovo con un mocio in mano a pulire la corsia tre.
Sì, avete capito bene: abbiamo la bellezza di tre corsie in questo mini-market. Non siamo mica quella topaia ad angolo su State st, che credete?
La pausa pranzo arriva presto, il pomeriggio scorre lento.
“Noah, io sto andando. Mi dai il cambio alla cassa?” Mi chiede Travis, riscuotendomi dal fresco piacevole della cella frigorifera, che sto riempiendo di cartoni di latte.
Lo saluto con la mano e chiudo lo sportello, riportando la scatola di cartone nel retro. Prendo posto dietro il bancone, tamburellando sulla plastica in attesa di qualche cliente.
Ogni tanto Cox esce dal suo studio, controlla che vada tutto bene, fa un giro delle corsie per vedere se serva qualcosa e torna nel suo studio, lanciandomi un’ultima occhiata per accertarsi che stia lavorando.
Per un’ora non ho niente di meglio da fare che giocare con una matita e leggere le riviste in mostra sugli scaffali. Vorrei evitare di usare il cellulare, la mia psiche chiede una pausa dalla realtà del rifugio. Almeno quando sono a lavoro, vorrei stare in pace.
Di tanto in tanto arriva qualche cliente, compra uno o due snack ed esce senza salutare. Noi americani abbiamo un problema, l’acquisto più salutare di oggi è stato una confezione di carne essiccata… il che è tutto dire.
Mentre leggo un articolo dell’ultimo numero di Rolling Stone, la quarta rivista a cui mi dedico, un cliente poggia sul bancone un cartone di latte.
Lo passo sotto lo scanner e tendo la mano per prendere i soldi, il tutto senza staccare gli occhi dalla cassa, su cui sto battendo la combinazione per aprire la cassetta.
Prendo il resto e glielo porgo.
“Ecco a lei, le auguro una buona giorna…” Le parole mi muoiono in gola quando alzo lo sguardo.
Davanti a me, come fosse un’apparizione, trovo un volto che non avrei mai pensato d’incontrare nuovamente.
Guardo quei lineamenti così familiari, che ritrovo ogni mattina nello specchio.
Il naso, le sopracciglia, la curva della mascella.
Mio padre.
“Ciao, Noah.” Mi saluta con un sorriso nervoso.
Non riesco a rispondere, sono pietrificato.
Cosa ci fa qui?
L’aria si fa improvvisamente pesante, il cuore mi martella nel petto.
Fa silenzio, non parlare, lascia il cuore rivelatore a Edgar Allan Poe.
Perché è qui?
Mio padre inizia a parlarmi, ma io lo sento a tratti.
“So che sono l’ultima persona che vorresti vedere… ma, per favore, possiamo parlare?” M’implora, sfoggiando un sorriso nervoso.
Trattengo il fiato.
O forse è il respiro che non vuole uscire.
Se sto immobile, m’ignorerà come fanno gli animali?
Nel non vedermi reagire, i suoi occhi si fanno disperati.
“Ti prego… mi dispiace. Giuro, mi dispiace.” Riprende, l’urgenza chiara nei suoi modi.
“Erano anni che volevo cercarti… io…”
Non lo voglio sentire.
Non voglio essere qui.
Un colpo di tosse lo interrompe, facendolo voltare verso l’ufficio di Cox.
“Va tutto bene? Posso aiutarla?” Chiede l’uomo, frapponendosi con nonchalance fra me e mio padre.
Quest’ultimo drizza la schiena, guardando il direttore negli occhi.
“E tutto a posto, Noah è mio figlio.” Lo informa, con il tono neutro di chi non è felice dell’intrusione.
Il direttore osserva prima lui, poi me, soffermandosi ad analizzare la mia reazione.
“Capisco… ma non penso che il ragazzo sia contento di vederla qui. Potrei chiederle gentilmente di uscire dal negozio, se ha finito i suoi acquisti?” Gli chiede, porgendogli il cartone di latte.
L’uomo sta per ribattere, però il direttore non gliene dà il tempo.
“Questo è un luogo di lavoro, sono sicuro potrete riprendere i vostri discorsi privati da qualche altra parte, a tempo debito e se il ragazzo vorrà. Per ora, le chiedo di prendere il suo resto e andare.” Ribatte Cox, mantenendo uno sguardo severo.
L’uomo chiude la bocca, non risponde. Mi lancia un’altra occhiata, che non riesco a ricambiare, saluta con un cenno de capo ed esce dal negozio.
Lo osservo andare via, attraversare la strada e guardare nella nostra direzione.
Nonostante non sia fisicamente qui, non mi rilasso. I miei pugni sono ancora stretti, i muscoli più tesi di prima, la mia mente avvolta da una foschia di domande.
Cox mi mette una mano sulla spalla per di riportarmi sulla terra.
“Noah, potresti farmi un favore personale? Alla fine del turno, potresti rimanere, così ti accompagno personalmente a casa?” Mi domanda, pregandomi con gli occhi.
Abbasso lo sguardo sulla sua mano, che ritrae lentamente.
“Non mi perdonerei mai se ti succedesse qualcosa. So che riusciresti a difenderti, ma sarei più tranquillo sapendoti a casa sano e salvo.” Aggiunge, ritornando nel suo ufficio.
Annuisco, rendendomi conto delle buone intenzioni del direttore.
La capacità di perdono di quest’uomo è incredibile. Fino alla settimana scorsa mi vedeva solo come un ladro che aveva fatto arrestare e mandare in riformatorio, ora si preoccupa per me.
Mi rincuora sapere che esistono persone del genere.
Chiusa la serranda del negozio, entriamo in macchina e mi accompagna al rifugio. Il viaggio di ritorno passa in silenzio, come quando Winterfield mi è venuto a prendere in riformatorio.
La prima volta che qualcuno mi ha portato al rifugio in macchina.
Ironico come le situazioni si evolvano.
Non ho nemmeno bisogno di indicare la strada in cui svoltare, la fila di manifestanti segna la via. Ormai sono diventati parte del paesaggio, come i nani da giardino nella proprietà del vicino.
Anche se, stavolta, un’aggiunta rompe il ritmo cui mi sono abituato.
Mio padre, vedendo la macchina avvicinarsi, si alza dal marciapiede dove si era seduto. Nello scorgere anche Cox, le sue speranze si spezzano.
Come in preda a un sortilegio, esco dalla macchina prima ancora che si fermi completamente e…
“…E qui smetto di ricordare.” Concludo il mio racconto, più confuso di prima.
I ragazzi si scambiano degli sguardi eloquenti.
Loro sanno cos’è successo dopo.
“Per favore, ditemi cos’ho fatto.” Li imploro, desideroso di sapere. Insomma, è la mia vita, dovrei essere a conoscenza di ciò che ho fatto!
“Noi eravamo in casa, quando è iniziato il tutto.” Spiega Alex, cercando le parole adatte.
“Abbiamo sentito delle grida e siamo corsi a vedere cosa stesse succedendo. Pensavamo avessi avuto un altro scontro con quelli della Westboro, per quanto eri arrabbiato, stavolta Josh era pronto a intervenire. Ti abbiamo trovato in giardino a urlare contro quell’uomo, tuo padre. Non riusciva a rispondere, nessuno riusciva a dire una parola, ma avevi attirato l’attenzione di tutti. Gli dicevi che non lo volevi più vedere, non volevi sentire cos’avesse da dire, che ti doveva lasciare in pace.” Continua, sospirando.
Si gratta la nuca, a disagio.
Ho fatto un altro dramma, quindi. Non mi stupirebbe se qualcuno l’avesse filmato e caricato su internet. Già immagino i titoli da clickbait: ‘attivista omosessuale si scaglia contro povera vittima’, o qualcosa del genere.
A volte ho lo strano istinto di abbandonare tutto e diventare un monaco tibetano.
“Non so, penso ti sia accorto di essere nuovamente al centro dell’attenzione… di punto in bianco, ti sei bloccato, ti sei girato e sei scappato via. Tuo padre ti è corso dietro, ma non sappiamo cosa sia successo da quel momento in poi. È stato tre ore fa.” Conclude, non sapendo più che dire.
So che, in questo momento, mi vorrebbe urlare contro per aver causato tanta preoccupazione, ma non riesce a trovare la forza di farlo, a mio parere.
“Abbiamo passato tre ore a cercarti. Alla fine Alex ha avuto l’idea di andare a Liberty Park. Pensava ti avrebbe trovato lì… e così è stato, fortunatamente.” Aggiunge Sayid, stringendo la spalla della mia persona preferita.
Abbasso lo sguardo sulle mie nocche, rosse ed escoriate. Nessuno sa cosa sia successo da quel momento in poi.
Ho paura di ritrovare mio padre con qualche livido, ormai non mi fido più di me.
Mi alzo dal letto, vado a guardare fuori dalla finestra. Nel giardino di fronte non c’è più nessuno, sono andati tutti alle proprie case per riposarsi, in vista di un’altra lunga giornata.
Non hanno delle vite, quelli della Westboro?
“Onestamente, ragazzi… non so che fare. Sono stanco, vorrei solo che tutta questa situazione finisse, prima d’impazzire del tutto.” Mi volto, poggiandomi con la schiena sul vetro.
“Che faccio? Io non voglio parlare con mio padre, non ci riesco! Ogni volta che lo guardo, rivedo lo stesso disprezzo con cui mi ha buttato fuori di casa. Però…” Lascio la frase sospesa, non riuscendo ad articolare ciò che provo.
Scuoto la testa, mordendomi nuovamente l’interno della guancia.
“Datemi un consiglio, vi prego. Non so che fare.” Ammetto, schiarendomi la gola e guardando un punto fisso.
“Sai, non ti ho mai detto la mia storia.” Interviene Sayid, attirando l’attenzione della stanza.
“Cosa c’entra?” Chiedo stanco, non cogliendo il nesso.
Il ragazzo alza gli occhi al cielo.
“Volevi un consiglio? Te lo sto dando.”
“Ok, ma perché devi partire dalla creazione dell’universo?” Commento impaziente.
“Tu zitto e ascoltami.” Ribatte stizzito, facendomi segno di tacere.
Alzo le mani, per fargli capire di avere il via libera. Si passa le dita fra i capelli, aggiustando un ciuffo che gli era caduto sulla fronte.
“Grazie. Allora: i miei genitori sono libanesi, nati e cresciuti a Beirut. Subito dopo essersi sposati, hanno deciso di trasferirsi in America, dato che i siriani erano ancora presenti in città.
I miei genitori sono cristiani convinti e hanno vissuto in pieno la guerra civile fra cristiani e musulmani. Questo è avvenuto prima che nascessi, ma devi tenerlo in considerazione, perché ha formato la loro mentalità.
Hanno scelto Salt Lake City, una città relativamente tranquilla, e hanno messo radici. Però non si sono mai scordati del loro passato, hanno cresciuto sia me che mia sorella secondo la cultura libanese, tanto che entrambi siamo bilingue dalla nascita, parliamo inglese e arabo… o meglio, il dialetto parlato in Libano. Perciò sono stato sempre a conoscenza della mia cultura d’origine, ma qualche anno fa ho deciso di avvicinarmici ancora di più: ne ho studiato la storia, ho visto film, ascoltato musica e sono stato attratto da quella religione che tanto odiano i miei genitori. Intanto avevo anche capito di essere omosessuale, quindi… sì, cioè, quello è d’aggiungere all’equazione.” Ci spiega, alzandosi da terra e avvicinandosi a me.
“Loro avevano già il sentore che non mi piacessero le donne, insomma, avevo poster dei Mashrou' Leila fino al soffitto, ma quando hanno trovato un corano accanto all'altarino che avevo costruito per Hamed Sinno, icona gay del Libano… hanno deciso che non potevo più rimanere in casa.
Diciamo che l’addio non è stato dei migliori, anche perché fino a quel momento eravamo una famiglia molto unita. E, conoscendomi, probabilmente farei una scenata peggiore di quella che hai fatto tu, se mi trovassi nelle tue stesse condizioni.
Ma so anche che, in cuor mio, non li posso cancellare. Non li voglio buttar fuori dalla mia vita! Alla fin fine, per quanto possa non volerlo, sono parte di me, esisto grazie a loro ed è anche per loro se sono come sono adesso.
E tuo padre si è chiaramente pentito di come ha affrontato la situazione. Insomma, se fosse venuto a cercarti per darti il colpo di grazia, ovviamente ti direi di stargli il più lontano possibile.
Ma non è questo il caso.
Quindi il mio consiglio è questo: parlagli, non lo eliminare dalla tua esistenza. Un giorno, chi lo sa, potresti anche rimpiangere di non avergli dato una possibilità.” Conclude il ragazzo, guardandomi negli occhi.
Ricambio lo sguardo, decidendo se accettare il suo consiglio.
Però non è così facile, non è una scelta da prendere alla leggera.
“Non lo so… ho bisogno di tempo.” Rispondo, andando alla porta e aprendola, per farli uscire.
“Ci stai buttando fuori da camera tua?” Domanda Audrie, alzandosi dal pavimento.
Annuisco, evitando di guardarla.
Le ragazze escono a una a una in silenzio. Solo Audrie si ferma per alzarmi la testa con un dito.
“Non siamo arrabbiati con te, Noah. Vogliamo solo assicurarci che tu stia bene.” Mi rincuora, prima di uscire dalla stanza.
Sayid mi si avvicina, mi poggia una mano sulla guancia.
“Pensaci bene, ok?” Mi propone, accarezzandomi lo zigomo con il pollice.
Annuisco ancora una volta e gli rivolgo un mezzo sorriso, per poi chiudergli la porta alle spalle e sedermi sul mio letto, afflitto da una delle scelte più difficile che mi sia trovato davanti.
 
  
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