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Autore: Anya_tara    31/07/2018    1 recensioni
" ... Lo guardo allontanarsi, con quel suo passo fluido ingannevolmente tranquillo, e invece rapido e spedito. La strana sensazione che mi ha preso prima torna, mi prende nel petto, al cuore, facendomi provare un improvviso, intenso calore.
Chi sei davvero, Alejandro? Mi sembra di conoscerti da sempre, eppure di te non so niente ".
La strana coppia in una versione ancora più strana. Almeno secondo la sottoscritta.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Capricorn Shura, Leo Aiolia, Scorpion Milo, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Angolino di Anya: scusatemi, per una scorsa ( gli orari indecenti, come sempre) ho confuso i pound con i pence, cioè le sterline con i centesimi. cioè, è vero che è vero, che i Leoni non badano a spese, ma così lo abbiamo proprio dissanguato, povero Leo! 
Buona lettura! :) 


<< Leo? Leo, ehi >>. Un tocco lieve mi pungola la spalla.
Schiudo appena gli occhi, cercando di capire dove sono, come sto e soprattutto il perché di entrambe le domande. << Mhmmm … >>. Niente da fare.
Sento appena il contraccolpo del cuscino che protesta, mentre ci spiaccico la faccia.
La voce di Ale mi giunge lontana, sfocata. << Stai bene? >>.
<< Eh? Perché me lo chiedi? >>.
<< Be’, sono le due, e stai ancora dormendo, dimmi tu >>.
<< Dovevo … fare qualcosa? >>, mugugno, ancora addormentato.
<< Non chiederlo a me >>. Il suo tono è serio. Molto serio. Lo percepisco anche se mi sembra di avere le orecchie piene di cotone idrofilo. << Volevo solo accertarmi che fosse tutto okay. Ti ho sentito lamentarti, ma probabilmente stavi sognando >>.
Sono del tutto fuori, e mi ci vuole qualche secondo per realizzare.
Vaghi flash mi assalgono, come i crampi allo stomaco. E al cervello.
Magnus e Angelo che salivano con le pizze e le birre. Io che spiegavo che Ale non c’era, che avrebbe tardato, ma comunque potevamo aspettarlo.
Le pizze alla fine si sono freddate, ma non abbiamo lasciato il tempo di far scaldare le birre. Una tira l’altra, e alla fine, aspetta aspetta, siamo finiti sul terrazzino, a fumare e bere.
E per fumare, non intendo sigarette. << Merda, merda, merda … >>, dico, per fortuna in greco.
Ma non credo che a questo punto cambi qualcosa.
<< Che ti prende? >>.
<< Nulla >>. Mi tiro su, sentendo la testa scoppiare, e un sapore tremendo in bocca.
Ora come ora mi farebbe comodo uno di quei muffin, per mandarlo via. Davvero.
O una cisterna di colluttorio. << Porca miseria >>.
Sono tutto indolenzito, come se mi avessero picchiato, o abbia fatto un allenamento particolarmente intenso in palestra.
E invece mi sono sbronzato come Cristo comanda. O meglio comanda di non fare, nella fattispecie. << Tieni. Immaginavo ti servisse >>. Alejandro mi porge un bicchiere, dentro c’è un liquido biancastro. << Alka-Setzer. Per fortuna ne ho sempre una scorta, in casa >>.
<< Casomai qualcuno dei tuoi coinquilini idioti si riducesse uno straccio, vero? >>. La sua superiorità non esibita, ma effettiva mi irrita da morire.
Lui non è certo tipo da svegliarsi alle due del pomeriggio, con in corpo un tasso etilico da mandare in coma un elefante. E non solo quello.
Posa il bicchiere sulla mensola sopra il mio letto. << Mi piace essere pronto per ogni eventualità >>.
<< Già. Ma che è successo? Perché … non è che ricordi un granché >>. Mi sforzo di aprire le palpebre incollate, e posso farlo senza che le tempie protestino perché con un atto di misericordia Ale ha tirato le tende. << Ricordo solo … Angelo e Magnus. Dove sono? >>.
<< Tornati a casa, spero. Ti salutano. Si augurano tanto di poter trascorrere … un’altra serata così divertente insieme a te >>. Raddrizza gli occhiali sul naso. << A quanto pare vi siete dati parecchio da fare >>.
Sono troppo stonato per realizzare cosa possa celarsi nelle righe di quel “darsi parecchio da fare”. Fossi più lucido tremerei per le implicazioni di una tale affermazione.
<< Ti … stavamo aspettando >>, provo a giustificarmi, abbassando lo sguardo sulle mani. Non è una scusa eccelsa, e provo la stessa angosciante sensazione di quand’ero obbligato a fornirne dopo qualche mio casino.
Una morsa di vergogna e umiliazione mi serra il petto. Lui era a lavorare, e io mi sono sballato ben benino, anche se assieme ai suoi amici.
<< Già. Mi avete aspettato davvero bene >>. Ale sospira. << Fammi un favore. La prossima volta, non far salire nessuno in casa, neppure se sono loro. Anzi, soprattutto se sono loro. Ti avevo avvisato, ti devastano il cervello, se gli dai corda >>. Incrocia le braccia. Ha addosso una maglia grigio scuro, che spegne ogni luce dal suo viso, dal suo sguardo, a differenza della camicia che portava ieri. << Non sono cattivi, questo no. Ma a volte passano il limite, soprattutto se non ci sono io, a frenarli >>.
Scuoto la testa. Insieme allo schifo in bocca risale un rigurgito di bile, aspra, amarissima. << Ne parli come se avessero approfittato della mia beata ingenuità. Non sono un santo, né un bambino, sai? Anch’io so divertirmi, se mi va >>.
Alejandro mi fissa con uno sguardo affilato, nero come olio minerale. Davvero una lama, come quelle di cui giusto stavo fantasticando ieri.
Non può sapere cosa mi abbia spinto a farlo. Quel … desiderio profondo di autodistruzione, di annichilimento, che già in passato mi ha portato a trovarmi in questo stesso stato miserando.
Sta tornando, me lo sento. << Scusa, ma sai, non hai l’aria di uno che si stia divertendo, in questo momento >>. Esce dalla stanza, a passi larghi, marziali.
Non ero preparato a questa reazione. Essendo sempre stato additato come quello che pensa solo a divertirsi, non mi aspettavo una reprimenda simile, tanto vicina al punto dolente dentro al mio petto.
E in più ho la certezza di averlo deluso. Davvero, nel profondo. E unito alle sue affermazioni di ieri, ch’era lui a dovere un favore ad Alyké per avermi fatto piombare qui, la sconfitta ha un sapore persino più disgustoso dell’alcol e del fumo sedimentati sulla mia lingua.
Gli ho mostrato un lato del vero Leo, quello che viene fuori se appena scrosti la facciata da ragazzo di buona famiglia.
E a differenza di lui, io non ho nulla di buono, sotto di questa.
Mi tiro su, lottando col lenzuolo che mi si avvinghia addosso. Ho ancora i vestiti di ieri, quindi suppongo di essermi trascinato a letto cosi com’ero.
Mentre cerco di recuperare la posizione eretta, una vertigine sfolgorante mi attraversa il cervello, aprendomelo a metà. Devo appoggiarmi alla mensola per non cascare di nuovo sul materasso, battendolo alla perfezione.
La nausea che mi monta nelle viscere è tremenda. Stendo il braccio e afferro il bicchiere, portandolo alle labbra come fosse l’ultima speranza.
Per un attimo ho il terrore di vomitare. E’ già una situazione abbastanza squallida, e non vorrei toccare il fondo, non con lui in casa.
Appena sono certo di aver guadagnato un po’ di stabilità, mi rimetto in piedi. E alcuni sprazzi mi sovvengono, flash della conversazione avuta con Magnus e Angelo ieri sera.
Ma ora non ho tempo per rimuginarci su. Entro nel bagno, mi spoglio e apro l’acqua nella doccia, gelata, che mi fa diventare un blocco di ghiaccio. Appena due minuti, ed esco, mettendo su l’accappatoio, e mi lavo i denti usando una vagonata di dentifricio.
E’ patetico, lo so. Soprattutto quando rialzando lo sguardo nello specchio scopro di avere un colorito malsano e gli occhi iniettati di sangue.
Poi sento la porta chiudersi, e corro fuori. << Ale! >>, chiamo, ponendo già mente al fatto che dovrò lavare il pavimento, subito dopo … avergli chiesto scusa.
Sono una persona orribile, lo so. E non lo dico con quel vago senso di autocompiacimento che mi veniva sempre dopo essermi fatto strigliare da mio padre, in circostanze molto simili a queste, come se volessi … fargli toccare con mano il peso del suo successo come imprenditore, ma fallimento assoluto come genitore. << Ale, dove sei? >>. Vado alla porta, aprendola, fregandomene se devo uscire in accappatoio in strada per raggiungerlo.
Poi si apre la porta della sua camera. E mi fissa, stranito. << Che c’è?  >>.
<< Mi dispiace >>. Torno indietro sui miei passi, i piedi che sciaguattano sul pavimento. << Perdonami >>, mormoro, a capo chino.
Per un attimo mi prende l’impulso, assurdo, d’inginocchiarmi davanti a lui. Ma non sarebbe il caso, e non certo perché tema che possa fraintendere il mio gesto.
O meglio sì, ma non in senso sessuale. Quasi che voglia … obbligarlo, a farlo. A perdonarmi.
Lui rimane in silenzio, ma sento nitidamente il suo sguardo posarsi su di me. Non mi azzardo a ricambiarlo, ho paura, sì, paura, di quello che potrei vedere sul suo volto, nei suoi occhi adesso.
Compatimento. Disinganno. << Leo, non è successo niente >>.
<< Sì, invece. Ti ho risposto male, e non volevo. Non te lo meriti, soprattutto. Scusa >>.
Lui esce, si richiude la porta alle spalle. E il fatto che non ne abbia approfittato per sbirciare nello spiraglio aperto dietro di lui, è indicativo di quanto mi senta di merda adesso.
<< Ehi. Va tutto bene >>, sussurra con dolcezza.
Se sapessi di non rischiare di combinare ancora più casino, lo abbraccerei. Sul serio. Forte, come ho abbracciato mio fratello prima che si chiudesse dietro la porta di casa, una volta per tutte.
Subito realizzo, malgrado non sia ancora del tutto lucido, che sto scaricando su di lui il peso del mio merdoso passato. Quello che credevo di potermi lasciare alle spalle con Shaina, e che pensavo di non dover affrontare più qui a Londra.
Chiaro ch’erano tutte bugie pietose. Già da qualche tempo sentivo il suo fiato umido e acre sulla nuca. Ho riconosciuto i segnali, ma ho finto che potessi affrontarlo, se ci avesse provato, anche se dentro di me sapevo che prima o poi ci sarei ricascato.
I ragazzi non ne hanno colpa. Non potevano certo immaginare, e mi spiace che adesso debbano anche subire la riprovazione di Ale.
Non se lo meritano. Non avevano idea della persona con cui avevano a che fare in realtà, credevano solo di trascorrere un paio d’ore di attesa con il coinquilino di un loro caro amico.
<< Vieni. Ti preparo un caffè >>, dice, e ritorna in soggiorno. Lo seguo e mi accorgo del plaid steso sul divano.
E’ quello di Alejandro, che ogni tanto la sera tira fuori, e lascia ordinatamente ripiegato sul bracciolo, prima di riportarlo in camera.
Un sospetto tremendo mi sale in mente. Resto a fissarlo come fosse un cadavere sfigurato, e non il solito plaid soffice e grigio bordato di pelliccia bianca. << Perché c’è il plaid, qui? >>.  
<< Fa freddo >>, è la sua spiegazione ineccepibile. I rumori felpati dei suoi movimenti sembrano assordanti, nel silenzio che segue.
<< Hai dormito qui?! >>, sbotto, ma è più un’affermazione che una domanda.
<< Non potevo permettere a quei due di tornare a casa in quello stato. Spero gli sia servito di lezione, per la prossima volta >>, dichiara dalla cucina.
Le gambe mi fregano di nuovo, devo sedermi. Mi appoggio sul bracciolo, mentre un nuovo suglio di vergogna mi serra la gola.
Dopo una lunga giornata di lavoro, resa ancora più lunga dall’inaffidabilità del ragazzo in prova, ha dormito sul divano. Mentre io, ubriaco fradicio e fumato, mi rivoltavo beatamente nel mio letto.
E Angelo e Magnus … dividevano il suo. E’ abbastanza ovvio.
<< Perché non hai dormito con me? >>.
E’ una domanda che viene fuori diretta, istintiva.  
Solo dopo intuisco che potrebbe avere dei risvolti non troppo ortodossi, nel suo caso. Ma vaffanculo. Che pensi pure quello che gli pare.
Non mi va giù che debba essersi ammaccato le ossa qui al freddo.  
Si affaccia, fissandomi di sbieco. << Che domande. E se ti fossi svegliato … nel cuore della notte, mezzo sbronzo, trovandomi lì? Cosa avresti pensato? >>, mi getta contro, di rimando.
Mi alzo, raggiungendolo in cucina. Sta mettendo fuori le tazze, tranquillo, come nulla fosse accaduto, come se non avessi detto nulla di strano, meno di un attimo fa. << Avrei pensato che sono un cretino. Che mi sono fatto prendere la mano, e per favore, non prendertela con loro due, non c’entrano niente. Ero così già prima di ieri sera, lo sono stato per parecchio tempo, tutte le sere >>, ammetto, senza però cedere di un millimetro. Sicuro, deciso, per quanto conceda un accappatoio nero umido. Se deve cambiare l’opinione che si era fatto di me, tanto vale lo faccia fino in fondo, senza ripensamenti.
Merda. Ho detto nero?
A stento reprimo la voglia di mettermi le mani in faccia. Nell’agitazione non mi sono accorto di aver preso il suo.
Solo ora mi rendo conto dell’anelito dolce, asprigno, intenso ch’emana la spugna. Ha il suo odore, ma non ci ho fatto caso fin qui. Porca puttana.
E lui non ha badato a farmelo notare. << Non sta a me dirti cosa fare, Leo >>. Versa il caffè nella tazza, e la porta sul tavolo, posandola con attenzione. << Sei adulto, e credo non ti occorrano consigli, tanto meno da me, che sono un estraneo e non ho alcun diritto d’ingerirmi nella tua vita privata. Non intendevo rimproverarti per quel ch’è successo ieri sera, ci mancherebbe altro. Hai tutto il diritto di … decidere per te >>. Posa la zuccheriera, con fare tranquillo. << Se scegliessi di farlo, anche tutte le sere, non sarebbero affari miei. Solamente, mi dispiacerebbe se tu lo facessi per distrarti da qualcosa che ti rode, dentro, e non perché hai voglia di divertirti >>.  
La sua frase cade con il giusto peso. Non so di che tratti precisamente la sua filosofia medievale, ma se somiglia alla psicologia moderna, be’, allora ha scelto bene il suo percorso di studi.
E’ la prima volta che qualcuno mi parla in questo modo. E mi sento stranamente toccato, dal fatto che uno sconosciuto con cui divido casa da poco abbia saputo cogliere cosa davvero mi abbia tenuto per così tanti anni sul filo del baratro, quando le persone con cui sono cresciuto non hanno visto in me nient’altro che la voglia di far casino.
<< A me dispiace … che tu abbia dovuto dormire sul divano >>, mormoro. << E che abbia dovuto farti carico delle responsabilità che qualcun altro non abbia voluto assumersi >>.
<< Succede. Non è una cosa così grave, Leo. Cioè, non lo è per me. Ma penso a coloro che quelle responsabilità hanno fatto fuggire. Se qualcosa di così poco … impegnativo li ha spaventati tanto, figurati quando si ritroveranno un giorno di fronte alle vere responsabilità, cosa potrebbe accadere. Povere quelle persone che si affideranno a loro  >>.
Rialzo finalmente lo sguardo. Ha le braccia ancora incrociate, l’osso sacro inchiodato al pensile della cucina.
Ha davvero l’aria di un samurai, così. un saggio guerriero dei tempi andati, fedeli all’onore fino al punto di sacrificare ogni cosa, anche la vita, qualora occorresse.
Prendo la tazza tra le mani. Il calore e l’aroma hanno un effetto ristoratore immediato.
Forse troppo. << Però … potevi anche venire a letto con me >>, sputo fuori, e subito dopo – dopo, sempre dopo, maledizione- mi rendo conto della stranezza della mia uscita.
Lui scuote piano la testa, rimettendo dentro il barattolo del caffè. << La prossima volta ne terrò conto. Anche se … mi auguro che tu non debba più combinarti così >>.
Mi pare d’intravedere un leggero sorriso sarcastico, sulle sue labbra.
E’ una mia impressione, o c’è un vago doppio senso nelle sue parole?
Nah. Forse sono ancora in fase di smaltimento. << Be’, io vado. In frigo ci sono gli avanzi di ieri sera, se ti va di mangiare >>. Infila la giacca, la tracolla. << Ci vediamo più tardi >>, mi saluta, in tono neutro. Distante, però, come quello che aveva prima di incontrarci ieri da Diego.
Annuisco appena, finendo di bere il caffè. E mi do dell’imbecille, perché sembrava non vedessi l’ora di farmi vedere da lui così, giusto per il gusto di farmi del male da solo.
A meno che … un lato molto, molto oscuro di me non l’abbia fatto volontariamente.
Ma non sono tanto contorto. Più facile che abbia colto l’occasione al volo, per ripiombare nel mio personalissimo limbo di auto-compatimento.
Forse Milo saprebbe spiegarmelo meglio di me.
Accidenti, Milo. Ho dimenticato anche di chiamarlo, col casino ch’è successo.
Ma non sarebbe il caso di farlo adesso.
Forse dovrei cercare di mettermi in contatto con Magnus, per vedere se almeno uno di loro due ha delle vaghe reminiscenze di ieri sera. Perché io, dopo la quarta birra, ho cominciato a non sapere neppure come mi chiamo.
E spero ardentemente di non aver scordato anche della mia recita. Ne’ su un fronte ne’ sull’altro.
Ma non mi sento tanto coraggioso da affrontare anche questa storia. Non con l’accappatoio di Ale addosso.
Non me l’ha detto. Se n’è accorto di sicuro, ma non ha detto nulla.
Mi tiro su, portando la tazzina nel lavandino, e sciacquandola con cura.
A quanto pare mi tocca un altro giro di pulizie di casa. Me l’accollo volentieri, come espiazione.
Giacché ci sono lavo anche il bicchiere posato sullo scolapiatti. Ma la mia proverbiale manualità distruttiva si fa sentire, e piuttosto che farlo splendere lo frantuma, senza misericordia.
Mai immagine fu più adatta, per descrivere la mia.  
Quando apro il bidone dell’immondizia per gettare i cocci, mi sfugge un verso di assoluta disperazione.
Nel sacco biodegradabile ci sono non solo le bottiglie di birra – una catasta che quasi lo riempie fino all’orlo- che abbiamo vuotato ieri, ma anche quella dello Zinfandel. E … con mio sommo orrore, della vodka.
Cazzo. Ma quanto abbiamo bevuto? Mi è andata bene se mi sono svegliato, stamani.
Per Ale. Che sennò dormivo fino alla settimana prossima, ammesso che non mi toccasse ripassare sotto la sonda per la lavanda gastrica.
Un miscuglio di irritazione e rimpianto mi sale allo stomaco che si stava appena riprendendo dalla nausea post-sbronza.
Me la sono fottuta, poco ma sicuro. La mia occasione con Alejandro. Conoscendolo, col cavolo che si azzarderà più ad invitarmi a giocare con lui.
E il fatto che di sicuro sia stato lui a mettere via queste bottiglie vuote, di certo, dà un senso di vuoto anche a me.
 
 
                              
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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