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Autore: Ode To Joy    05/08/2018    1 recensioni
[!!!SPOILER S7!!!]
In seguito al salvataggio di Shiro dal piano astrale, Matt si ritrova a raccontare a Keith una vecchia storia che non gli appartiene ma di cui, suo malgrado, ha fatto parte.
E di cui, a sua insaputa, il giovane Galra ha scritto la fine.
"Adam non era la persona adatta per Shiro... Ma questo non gli impedì di averlo."
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Holt Matt, Kogane Keith, Takashi Shirogane
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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II
Shiro



Sì, lo ammetto, fui il primo a spingere Shiro sulla strada per la perdizione. In mia difesa: avevo quattordici anni e non sapevo quello che dicevo. Meglio, lo sapevo ma non avevo ancora fatto mia quella lezione fondamentale che tutti impariamo troppo tardi: quello che diciamo e facciamo ha delle conseguenze.

Potrei quasi prendermi a mazzate in faccia da solo e biasimarmi per tutto quello che è successo dopo… Non mi è piaciuto arrivare a questa conclusione.

Però fui sincero! Avevo notato qualcosa tra quei due, non mi sono scomodato a indagare cosa fosse e avrei dovuto farlo, prima di aprire bocca!

Tuttavia, che mi piaccia ammetterlo ora o meno, quella era la realtà dei fatti: c’era qualcosa tra Shiro e Adam. C’era quella tensione che… Mio malgrado, adesso saprei come interpretare.

Al tempo, però, eravamo ragazzini e ciò che può sembrare logico ora, era completamente incomprensibile al tempo.

Era quell’età in cui ogni emozione era totalizzante e Shiro, lo sai, ha sempre sentito più degli altri. Adam, invece, non era abituato.

Fu in questa atmosfera da equilibrio precario che in qualche modo arrivammo alla fine del nostro primo semestre alla Galaxy Garrison.

Gli esami scritti non furono una passeggiata, quelli pratici furono un circolo di scommesse.

I più furbi puntarono su Shiro, quelli amanti dei colpi di scena su Adam.

In un modo o nell’altro, vinsero entrambe le parti. I risultati finali sarebbero usciti solo all’inizio del secondo semestre, ma tutti noi sapevamo come sarebbe andata a finire.




“Non torni in Giappone dai tuoi nonni?” Matt lo scoprì troppo tardi per cambiare i piani all’ultimo minuto. Col senno di poi, concluse che Shiro lo aveva fatto a posta, per non disturbare.

“Non esistono biglietti economici per il Giappone in questo periodo dell’anno,” rispose Shiro con un sorriso, seduto a gambe incrociate sul suo letto. “Non sono l’unico cadetto che rimane al dormitorio. Ci sono altri studenti che arrivando anche da più lontano e non possono permettersi un viaggio oltreoceano.”

Matt buttò gli ultimi vestiti nel borsone. “I tuoi nonni sarebbero felici di averti a casa, a costo di qualsiasi biglietto.”

“Mi pagano già gli studi qui.”

“Tua madre ti paga gli studi qui e né lei né i tuoi nonni vorrebbero altrimenti.”

Shiro si fece serio. “Quei soldi non servono solo per me. Devono essere anche per loro, per quando non sarò qui e avranno bisogno di una mano.”

Matt chiuse gli occhi e si diede dell’idiota. “Scusa, non volevo…” Si morse la lingua. “La faccenda dell’eredità di tua madre e tutto il resto sono affari tuoi.”

Shiro scosse la testa e provò a tornare a sorridere. “Non fa niente,” disse. Si sforzava davvero a parlare di sua madre con naturalezza, ma ancora faceva male pensare a lei.

No, la storia del biglietto troppo costoso non era solo una scusa, ma l’idea di tornare a casa e di trovare la stanza di sua madre vuota era ciò che lo spingeva a restare alla Garrison più di ogni altra cosa.

“Iverson ha detto che possiamo uscire,” aggiunse Shiro. “Abbiamo un coprifuoco ma potrò andare nel deserto a osservare le stelle come si deve. Col brevetto da cadetto-pilota posso anche prendere una delle hooverbike.”

Matt s’imbronciò. “Bravo!” Esclamò, lasciando cadere il borsone a terra. “Cacciati nei guai in mia assenza e fammi sentire sfortunato per andare in Europa!”

Shiro rise. “Ti divertirai.”

“A videochiamarti? Certo!” Matt si lasciò cadere sul letto dell’amico. “Già lo so cosa succederà: faccio in tempo a mettere piede lontano qui e nel deserto si schianta una nave aliena, con una bella aliena dentro e tu… Tu non fai niente, perché a te le signorine nemmeno piacciono!”

“Non è nemmeno detto che gli alieni siano divisi in maschi e femmine!” Esclamò Shiro tra le risate.

“Nel frattempo, io me ne starò in Italia, con la calda compagnia di una lasagna di nonna,” concluse Matt con voce da funerale. Sbatté le palpebre un paio di volte. “Adesso che ci penso… Se gli alieni fossero provvisti su ambedue i fronti, io e te come ci dovremmo comportare, di grazia?”

Shiro cercò di calmare le risate prendendo un profondo respiro. “Non per infrangere i tuoi sogni,” disse. “Ma trovare prove di forme di vita aliene è una cosa, testare in prima persona il loro modo di riprodursi è un po’ troppo fantascientifico anche per noi.”

Matt lo guardò scandalizzato. “Perché chiuderci in faccia questa porta? Gli alieni potrebbero essere già tra noi per quel che ne sappiamo… Le orecchie di Oliver sono sospette, non trovi?”

“Matt, Oliver ha solo le orecchie un po’... Evidenti.”

“È Dumbo!”

“Smettila di prenderlo in giro!”

“Non prendo in giro nessuno, sto parlando con te!” Shiro rivolse all’amico un sorriso malinconico. “Mi mancherai…”

Matt ricambiò l’espressione. “Anche tu.”

La porta della stanza si aprì e Adam entrò. Prese una giacca dal suo armadio e uscì come se gli altri due non ci fossero.

“Lui no!” Urlò Matt alla porta chiusa e sperò che il giovane Sànchez lo sentisse. “Lui non mi mancherà proprio per niente!”



E così me ne andai.

Partii per l’Europa con la mia famiglia, facendo promettere a Shiro che ci saremmo sentiti regolarmente , a dispetto della differenza di fuso orario. Ovviamente, eventuali avvistamenti alieni sarebbero dovuti essere immediatamente riportati con tutti i dettagli del caso.

… E pensare che Shiro ci avrebbe portato un alieno a casa solo sei anni dopo.

Non fare quella faccia! Devo rendere la cosa divertente perché, di fatto, non lo fu!

A che punto ero arrivato? Ah, sì, partii per l’Europa con la speranza che in quei ventuno giorni non sarebbe successo niente di memorabile.

Come avevo predetto, invasione aliena a parte, successe di tutto!




Shiro si pentì di non essere partito appena tre giorni dopo la fine delle lezioni. Nessuno del primo anno era rimasto nel dormitorio e lui passava da solo tutta la sua giornata.

Fare amicizia con i cadetti più grandi non gli sarebbe dispiaciuto, se questi non l’avessero guardato come cani rabbiosi.

Shiro era più alto dei suoi coetanei ma non così alto e se quegli altri avessero deciso di giocare alla rissa, non sarebbe durato in piedi più di due minuti.

Da quella prima sera nella Sala degli Ufficiali, non aveva più visto il tipo dai capelli rossi e il suo gruppo. Ne era sollevato.

L’Accademia era strana con tutto quel silenzio.

Il loro piano era sempre stato piuttosto tranquillo, ma c’era qualcosa di alieno nell’uscire fuori da quella porta e non trovare nessuno lungo i corridoi.

Per tre giorni, Shiro incontrò altre forme di vita solo nella sala della mensa ed erano esplicitamente ostili, quindi di poca compagnia.

Matt mantenne la parola e chiamò, mandò foto e video. Lo tenne informato su tutti i suoi spostamenti e non si fece problemi a riempirlo di commenti su tutto ciò che vedeva.

Matt non aveva il dono della sintesi ma a Shiro non importava.

Con la testa appoggiata sul cuscino, sorreggeva il tablet con una mano sola e si addormentava, mentre il suo migliore amico gli mostrava l’ennesimo monumento storico o paesaggio incantevole nel video-report del giorno.

Shiro copriva il silenzio con tutto quello che aveva ma, alla fine, dovette rendersi conto della cruda realtà: restare lontano da casa non teneva il dolore altrettanto distante.

Le conseguenze della morte di sua madre non erano chiuse nella camera vuota a casa dei nonni, ma erano lì, nel suo cuore. Privato di tutti gli stimoli che la Galaxy Garrison poteva offrire, Shiro si ritrovò da solo con quel dolore e nessuno con cui condividerlo.

Il quarto giorno andò nell’ufficio di Iverson a chiedere il permesso per usare una delle hooverbike e uscire un po’ nel deserto. L’aria aperta gli avrebbe fatto bene e il cielo stellato sarebbe stato un ottimo balsamo per il suo cuore.

Per sua sfortuna, il Comandante non era all’Accademia. “Ha deciso di prendersi una settimana per sè,” lo informò Morrison, il suo assistente. “È quasi un miracolo, non gliel’ho mai visto fare in cinque anni.”

“Capisco,” si limitò a dire Shiro. “Buona serata.”

Se non poteva avere la sua libertà nel deserto, si sarebbe consolato in un altro modo.

L’Accademia poteva apparire come una luna deserta senza i suoi cadetti, ma era solo un’impressione. Shiro aveva passato i momenti più belli della sua infanzia in quelle stanze e sapeva dove rifugiarsi quando aveva voglia di sentirsi a casa.

I laboratori nei sotterranei, quelli dove lui e Matt erano divenuti amici mentre i loro genitori lavoravano insieme, erano blindati e Shiro non poteva fare nulla per accedervi. Tuttavia, vi era un luogo dell’Accademia in cui non andava mai nessuno, un posto in cui venivano conservati i ricordi più importanti per chiunque aveva voglia di fare un viaggio nel passato.

La chiamavano ala museo, era un’attrazione interessante solo per le scolaresche o i turisti in escursione nel deserto. Chi aveva scritto le storie ricordate su quelle pareti e dentro quelle teche di vetro non metteva mai piede lì. Non ne aveva bisogno.

Alcune di quelle storie, Shiro le aveva sentite direttamente da chi le aveva vissute. Ricordava a memoria tutte quelle di sua madre e alcune del signor Holt.

Erano state le sua favole della buonanotte. Attraverso di esse, Shiro si era innamorato delle stelle. Era stato inevitabile. Ce l’aveva nel sangue.

La storia del primo insediamento su Marte avrebbe potuto leggerla facendo una breve ricerca in rete, ma a Shiro serviva qualcosa di più di una foto su di uno schermo. Aveva bisogno di leggere i nomi incisi nei trofei, sulle targhe dorate.

Non accese la luce della sala – non sapeva nemmeno come farlo. Si fece strada con una torcia, prestando poca attenzione a ciò che aveva intorno. Le luci delle teche erano spente, le foto affisse alle pareti erano coperte dal buio.

Shiro procedette con passo sicuro verso la stanza dedicata alle missioni su Marte.

Tooru Shirogane aveva partecipato ad altri progetti ma quello del primo insediamento sul pianeta rosso era stato l’unico a guadagnarsi un posto nella storia della Galaxy Garrison. Matt aveva tristemente ragione: le imprese dei piloti venivano ricordate da tutti come gesta eroiche, mentre la ricerca scientifica era qualcosa di più silenzioso, meno avvincente.

Samuel Holt ricordava Tooru come una stimata collega, una cara amica e una mente brillante, rubata alla ricerca troppo presto. Shiro gli era grato per questo, anche se non sarebbe mai riuscito a dirglielo senza scoppiare a piangere.

Ingoiò a vuoto e puntò la torcia di fronte a sè. Un sorriso triste illuminò il suo giovane volto di una pallida luce. Al centro della parete dedicata alla missione vi era una foto di gruppo.

Tooru Shirogane non era nemmeno al centro della scena ma emetteva una luce che gli altri potevano solo invidiare. Gli sorrideva, i lunghi capelli neri raccolti in una treccia morbida, abbandonata sulla spalla.

Shiro le assomigliava? Non ne era certo. I nonni dicevano che aveva ereditato il suo sorriso e lui vedeva gli occhi di lei ogni volta che si guardava allo specchio. Sua madre, però, era stata una donna minuta, dai lineamenti tanto delicati da sembrare un bambola. Sì, Shiro le somigliava ma non era il suo ritratto.

“Ciao, mamma…” Un saluto che aveva un qualcosa di spettrale, ma Shiro sentiva la necessità di parlarle e non sarebbe mai riuscito a farlo in Giappone, di fronte alla sua tomba. Preferiva farlo in quella stanza buia, dove era ancora viva attraverso la missione più grande a cui aveva preso parte.

“Mi dispiace, sarei dovuto venire prima.”

Anche se tu non sei qui, né da nessuna altra parte, pensò tristemente.

“Devo raccontarti un sacco di cose…”

E lo fece. Shiro parlò del suo primo semestre alla Galaxy Garrison, dei record battuti, della prima sera nella Sala degli Ufficiale, di Matt e di Adam… Soprattutto di Adam.

“Non è ancora ufficiale ma dovrei essere entrato nella classe dei fighters,” concluse con un gran sorriso, eppure sentiva il cuore pesante come un macigno. “C'è l’ho fatta, mamma. Se sarò all’altezza, tra qualche anno uscirò dalla Galaxy Garrison come pilota. A quel punto, basterà aspettare la missione giusta…”

Shiro smise di parlare. C’era molto altro da dire ma il nodo che gli stringeva la gola lo stava soffocando e la consapevolezza di star parlando da solo non era di alcun aiuto.

Strinse gli occhi e chinò la testa. Inspirò profondamente dal naso e ricacciò indietro le lacrime. Non poteva piangere: aveva paura che se avesse cominciato, non avrebbe più smesso.

“Che cosa stai facendo?”

Lo spavento fu tale che il cuore di Shiro saltò un battito.

Si voltò verso il fascio di luce di una seconda torcia, ma dovette immediatamente schermarsi il viso con una mano per non rimanere abbagliato. “Non riesco a vederti!” Esclamò.

Il nuovo arrivato abbassò il braccio e Shiro vide il riflesso di due lenti nella semi-oscurità. Sgranò gli occhi per la sorpresa. “Adam?”

L’altro si fece più vicino. “Riesci a vedermi?”

No, in realtà era troppo buio, ma il suo nome era l’unico a cui Shiro era riuscito a pensare. Afferrò la torcia e la puntò in direzione dell’altro cadetto.

Adam chiuse gli occhi di colpo e fece un passo indietro. “Adesso sei tu che abbagli me!” Esclamò irritato.

Shiro abbassò il fascio di luce in modo che non lo colpisse in viso. “Che cosa ci fai qui?”

“L’ho chiesto io per primo.”

“No, intendo…” Shiro si umettò le labbra. “Che cosa ci fai qui, alla Galaxy Garrison? I nostri compagni sono tutti tornati a casa!”

“Perché sei nervoso?” Domandò il giovane Sànchez con voce incolore.

“Perché dormiamo nella stessa camera e mi accorgo che tu sei ancora qui dopo quattro giorni!” Esclamò Shiro.

Adam doveva avere un potere speciale che lo aiutava a evitare le persone. Non era possibile che, circondato da tutto quel silenzio, Shiro non si fosse accorto di qualcun altro che dormiva a meno di un metro da lui.

Adam fece spallucce. “Hai il sonno pesante.”

Shiro non comprese se si trattava di un semplice commento o di un insulto. “Non ti ho mai visto nemmeno in mensa.”

“È aperta per sei ore al giorno. Sono tante. Può capitare di non vedersi.” Fu la giustificazione di Adam.

Shiro non riusciva a capacitarsi. “Perché… Perché sei qui?”

Adam sospirò pazientemente. “L’ho chiesto prima io, Takashi.”

“Io… Io…” Shiro indicò la foto di gruppo con il fascio di luce della sua torcia.

Adam comprese e annuì. “Capisco. Buona notte.”

“Ehi! Aspetta!” Shiro si alzò in piedi tanto velocemente che quasi inciampò nei suoi stessi piedi. “Tu non hai risposto”

L’altro lo guardò senza una reale espressione. “Vengo qui quando ho bisogno d’ispirarmi.”

“Ispirarti?”

“Sì. Ci sono miei parenti più su queste pareti che su quelle della mia casa di famiglia. Questo dovrebbe essere d’ispirazione a qualcuno.”

Shiro non ne era certo – interpretare le inclinazioni della voce di Adam era difficile – ma aveva la netta sensazione che lo stesse dicendo per convincere se stesso.

“Io ho sempre trovato ispirazione in mia madre,” disse Shiro, accennando un sorriso. “Ti capisco…”

“Io no.”

“Prego?”

“Non capisco quello che provi, Takashi,” disse Adam. “A me non succede.” Si voltò e si diresse verso l’uscita.

Shiro lo guardò allontanarsi. “Perché sei qui?” Non si rese conto di averlo chiesto ad alta voce fino a che Adam non si voltò.

“Te l’ho già spiegato,” rispose questi.

Shiro scosse la testa. “Perché sei alla Galaxy Garrison?” Si fece più vicino. “Non si arriva fino a qui senza un sogno!”

Adam sospirò. “Ho già vissuto questa scena, Takashi. L’ho vissuta di fronte all’ufficio di Iverson e non credo di dover aggiungere altro a quello che ho già detto quel giorno.”

“Non sono nessuno per chiederti quello che provi ma-”

“Appunto, non sei nessuno,” lo zittì Adam senza alcuna intonazione. “Buona notte, Takashi.”

Shiro non lo fermò. Rimase a guardare mentre l’oscurità lo inghiottiva, poi un pensiero illuminante lo spinse a camminare.

Adam era furbo ma quella era la peggior battuta in ritirata della storia.

Erano stati così bravi a evitarsi per un intero semestre che il giovane Sànchez non doveva averci pensato. Lo fece quando il suo compagno di stanza varcò la porta della camera insieme a lui.

Shiro sorrise vittorioso. “Questa volta non puoi evitarmi.”

Adam alzò gli occhi al cielo, posò la torcia spenta sul comodino e si sedette sul suo letto. Si chinò per slacciarsi le scarpe.

Shiro fu più veloce a liberarsi delle sue e si accomodò sulla trapunta a gambe incrociate, in attesa.

“Non pensare che faremo conversazione,” lo avvertì Adam, chino sulla scarpa sinistra.

“Va bene.” Shiro annuì. “Parlerò solo io.”

Adam chiuse gli occhi e fece appello a tutta la sua pazienza. “A che punto cominci a prendere in considerazione la resa, di solito?”

Shiro sorrise. “Mai.”

Parlò di tutto. Non smise nemmeno quando Adam si coricò fissando con caparbietà il soffitto. Anche Shiro lo fece, ma senza smettere di chiacchierare.

Gli parlò di Matt, delle loro avventure da bambini e di come la Galaxy Garrison era stato il loro parco giochi preferito, prima di divenire il luogo in cui concretizzare i loro sogni.

Sogni, sogni, sogni… E stelle.

Adam avrebbe volentieri dormito, piuttosto che ascoltare tutte quelle sciocchezze, ma Shiro non ne voleva sapere di stare zitto.

“Mia madre penso che avrebbe preferito vedermi più portato per la ricerca scientifica,” raccontò. “Credo che sognasse un rapporto con me come quello che hanno Matt e suo padre. Il maestro e l’apprendista. Non me lo ha mai fatto pesare, però. Vedeva che ero troppo innamorato del cielo per rimanere con la testa china su di un microscopio…”

Cadde il silenzio. Adam sollevò la testa per controllare se lo scocciatore si era finalmente addormentato. Gli andò male: gli occhi grigi di Shiro erano ancora aperti e svegli, stava solo guardando qualcosa fuori dalla finestra.

“Ehi…” Lo richiamò.

Shiro reclinò la testa per poterlo guardare. “Oh, scusami mi ero incantato a guardare le stelle.”

Adam lanciò un’occhiata alla finestra: senza occhiali non vedeva un granché. “Quindi non è stata tua madre?”

“A fare cosa?”

“A spingerti a venire qui.”

“Beh… Sicuramente mi ha influenzato ma… Le stelle ci sono sempre state. Le sue storie mi hanno fatto conoscere questo mondo ma farne parte è stata una mia scelta.” Shiro si fece serio e provò a dare voce a un dubbio che si portava dentro da un po’. “Tu non sei qui perché lo desideri, Adam?”

Il giovane Sànchez rispose con un’altra domanda. “Quindi non vuoi fare il pilota per attirare lo sguardo di tuo padre?”

Qualcosa si spense negli occhi di Shiro. “Io non conosco mio padre.”

Adam inarcò le sopracciglia. “Però sai chi è. Sai che è un pilota decorato e che è ancora in servizio.”

Shiro scosse la testa e rivolse lo sguardo alle stelle. “Conoscere un nome non significa conoscere la persona a cui appartiene,” disse con voce calma, ma stranamente atona.

Adam comprese che stava cercando di trattenere qualcosa. “Pensavo fossi qui per questo,” ammise e si coricò in modo da dare le spalle al compagno di stanza.

Shiro, però, aveva ancora qualcosa da dire. “Allora è per questo che sei qui,” concluse. “Stai seguendo la strada di qualcun altro. Non è così, Adam?”

Il giovane Sànchez non rispose.



Nessuno dei due dormì quella notte.



Dal giorno successivo, ignorarsi fu più difficile. Qualcosa si spezzò nell’equilibrio che era riuscito a tenerli lontani l’uno dall’altro per tutto quel tempo. Di colpo, presero ad incrociarsi nei corridoi, nella sala mensa. Capitava anche che si sfiorassero mentre si muovevano tra le quattro mura della loro camera condivisa.

Eppure, non parlavano.

Nel tentare di farsi più vicino ad Adam, Shiro aveva ottenuto solo di risvegliare i demoni di entrambi.

In un modo o nell’altro, arrivarono al decimo giorno restando ognuno nel proprio angolo.

Adam leggeva un libro seduto sul suo letto, Shiro guardava tutto quello che Matt gli inviava dall’Europa e fingevano reciprocamente che l’altro non esistesse.



Ancora una volta, fu il destino a mettersi di mezzo.



La sera dell’undicesimo giorno, Shiro uscì dalla sala mensa con particolare urgenza. Uno del terzo anno aveva vomitato tutto quello che aveva mangiato dal giorno in cui era nato sul pavimento, in mezzo alla stanza.

Finire di cenare era stato impossibile.

Quando le porte dell’ascensore si aprirono sul suo piano del dormitorio, aveva ancora quel terribile odore sotto il naso. La cosa strana era che pareva farsi più forte man mano che si avvicinava alla sua stanza.

Non appena passò la tessera sullo scanner e la porta si aprì, un rumore disgustoso lo fece congelare sulla soglia. Con gli occhi sgranati adocchiò la porta del bagno e notò che era aperta.

Silenzio.

Per un attimo sperò di aver avuto un’allucinazione dovuta all’eccesso di schifo, ma l’odore era impossibile da ignorare.

Sentì che altro materiale gastrointestinale veniva rigettato nel water e strinse gli occhi. “No, no, no…” Mormorò, scuotendo la testa.

Se Matt fosse stato lì, gli avrebbe urlato di correre via a gambe levate e di accamparsi sul tetto per un paio di notti. Shiro, però, non scappava. Non era nella sua natura ed era un dettaglio che il giovane Holt aveva definito difetto genetico di autoconservazione.

Se Adam lo aveva sentito arrivare, non aveva fatto nulla per dimostrarlo.

Shiro sospirò e fece un passo in avanti. “Adam?”

“Va via…” Bofonchiò l’altro con voce strozzata, prima che un altro conato di vomito avesse la meglio.

Shiro aspettò che finisse e lo udì tirare lo sciacquone. “Posso entrare?”

“È solo un’indigestione,” disse il giovane Sànchez. “Passerà…”

Shiro scosse la testa, sebbene l’altro non potesse vederlo. “È un virus,” replicò. “Uno del terzo anno ha vomitato in sala mensa mezz’ora fa.”

Adam tossì ma Shiro non udì altri rumori raccapriccianti: l’attacco di vomito doveva essere finito per il momento. Non aspettò che l’altro gli concedesse il permesso di entrare – anche perché dubitava sarebbe mai arrivato.

Shiro premette la mano contro la porta e la spalancò del tutto. Adam era in piedi, chino sul water e la camicia che aveva addosso gli aderiva alla schiena come una seconda pelle a causa del sudore.

Doveva stare così da un po’. Gli occhiali erano stati abbandonati dentro al lavandino e Shiro pensò che doveva averli lanciati un istante prima che il primo conato lo sopraffacesse.

“Se non vuoi andartene, chiudi la porta e lasciami in pace,” ringhiò Adam, un braccio appoggiato al muro piastrellato e il respiro affaticato.

“Sei pallido,” notò Shiro. “Stai molto male. Devi averlo preso in forma violenta.” Fece un passo in avanti.

“Non ti avvicinare!” Sbraitò Adam.

Shiro non si mosse. Era la prima volta che lo vedeva perdere il controllo in quel modo. Ci voleva di più per spaventarlo. “Riesci a farti una doccia?”

Adam sollevò il viso stanco su di lui, i capelli castani gli ricaddero sugli occhi. “Cosa?”

“Fatti una doccia e mettiti a letto.” Disse Shiro, uscendo dal bagno. “Dovremmo avere ancora qualche minuto prima del prossimo attacco di vomito.”

“Non ho bisogno del tuo aiuto!” Esclamò Adam, stridulo, patetico.

Troppo tardi: Shiro era già uscito.



Scusami se rido ma avrei voluto vederlo.

Adam Sànchez costretto a letto per un virus intestinale e Shiro nel ruolo della sua infermiera. Deve essere stato così umiliante per lui!

Ma davvero così umiliante!

Uno spettacolo! Se solo avessi potuto vederlo…

Non il vomito e tutto lo schifo, eh! Solo la faccia da stronzo di Adam mentre si rendeva conto di non poter fare altro che dipendere dall’aiuto di Shiro.

Non lo conoscevamo Adam. Non sapevamo del suo problematico rapporto con qualsiasi cosa potesse passare per debolezza. Era una maniaco del controllo e quella era tra le situazioni ordinarie più incontrollabili in cui si potesse ritrovare.

Penso che capirai se dico che Shiro era l’unico con la pazienza necessaria a poterlo capire.




Steso sopra le coperte del suo letto, Adam lo guardava come se la sua sola presenza fosse un fastidio. Shiro alzò gli occhi al cielo ed estrasse dalle tasche della felpa ciò che aveva recuperato dall’infermeria.

Non appena vide le ampolle e la siringa, Adam saltò a sedere. “Che cosa hai intenzione di fare?”

“È metoclopramide,” spiegò Shiro con un sorriso rilassato, mentre afferrava la siringa e una delle ampolle. “Serve a-”

“Lo so a cosa serve,” lo interruppe Adam, poi strinse le labbra e si premette una mano contro lo stomaco.

“L’infermiera mi ha detto che non posso sommistrartelo per bocca o finirai per vomitare di nuovo,” spiegò Shiro, preparando l’iniezione. “ Con questo la nausea e le fitte all’addome dovrebbero passare. Se riesci a superare la notte senza vomitare più, domani potremo provare a farti prendere qualcosa di caldo.”

Adam premette le spalle contro l’angolo del muro. “Non ti avvicinare a me con quella cosa.”

“È solo una siringa,” disse Shiro con un sorriso rassicurante. “Non ti faccio male, promesso.”

Alle orecchie di Adam, quella promessa suonava piuttosto inquietante. “Non ho paura della siringa!”

Shiro inarcò le sopracciglia. “Hai paura di me?”

“Non mi pare che tu abbia una qualifica medica di qualche tipo!”

“Adam, io e Matt siamo cresciuti imparando a fare queste cose!”

Ora il giovane Sànchez era seriamente inquietato. “Tu non mi tocchi,” disse con gelida fermezza.

Shiro sospirò e alzò gli occhi al cielo. “Ho esperienza,” insistette. “Quando i miei nonni erano fuori e l’infermiera non era di servizio, badavo io a mia madre. Se avesse avuto un attacco, non avrei potuto permettermi di avere paura di farle un'iniezione.”

Lo raccontò con tranquillità, quasi fosse una cosa successa un milione di anni prima e non solo l’inverno precedente. Shiro finse di non accorgersi della sorpresa negli occhi di Adam, ma fu grato di vederlo avvicinarsi al bordo del letto e tendergli il braccio. Gli venne da ridere. “Non è un’iniezione che si fa lì.” Lo informò con candore, lasciando trasparire una leggera inclinazione crudele.

Gli occhi scuri di Adam si fecero enormi ma non obiettò. Mentre storceva la bocca in una smorfia e le sue guance riprendevano improvvisamente colore, si distese sull’addome e affondò il viso nel cuscino.

“Non tentare di soffocarti,” disse Shiro divertito.

“Stai zitto,” fu la replica dell’altro, mentre allungava una mano per abbassare l’elastico dei pantaloni della tuta. Scoprì solo il necessario e Shiro rise a bassa voce.

Adam strinse gli occhi e ingoiò il boccone amaro dell’umiliazione.

Shiro fu di parola e non gli fece troppo male. “Ecco fatto!” Disse allegramente.

Adam lo sentì allontanarsi dal suo letto e si aggiustò i pantaloni alla male e peggio. Non si spostò dalla posizione in cui era. Si sentiva terribilmente stanco.

“Cerca di dormire,” disse Shiro, da qualche parte.

Furono le ultime parole che Adam udì.



Quando si svegliò, fuori era ancora buio e in bocca aveva un saporaccio che gli ricordò il motivo per cui si sentiva da schifo.

Si alzò dal letto e arrivò al bagno camminando come se fosse su di una nave in mezzo ad una tempesta. Si lavò i denti tre volte, prima di ritenersi soddisfatto.

Quando tornò in camera, due occhi giri lo guardavano dal letto sotto la finestra. “Stai bene?” Domandò Shiro con voce assonnata.

Adam annuì, anche se credeva si sarebbe sentito meglio sotto un treno in corsa. “Ti ho svegliato?”

Shiro si stiracchiò e scosse la testa. “Stavo in allerta.”

“Per me?”

“Se ti fossi sentito male di nuovo.”

Adam sentì lo stomaco comprimersi per una ragione che non aveva nulla a che fare con il virus. Sentì di nuovo dell’amaro in bocca ma anche quello era solo psicologico. “Dormi. Tutta questa premura non è necessaria,” tornò a coricarsi in modo da dare le spalle al compagno di stanza.

Shiro non disse altro, ma Adam restò sveglio per un po’ ad aspettare che parlasse. Quando si rese conto che non l’avrebbe fatto, fu lui a spezzare il silenzio. “Che cosa aveva tua madre?”

Shiro lanciò una breve occhiata alla sua schiena, poi tornò a rivolgere gli occhi alle stelle. “Una malattia degenerativa dei motoneuroni.”

Adam chiuse gli occhi per un istante. “Ho sentito mio padre parlarne, ma… Non è accaduto molto tempo fa, giusto?”

“Lo scorso inverno.”

“È durata molto?” Adam non aveva il diritto di porre tutte quelle domande, ma Shiro continuò a rispondere educatamente.

“Più di quello che avevano predetto,” raccontò. “Mamma era forte. Lo è stata fino alla fine. È riuscita a sorridermi fino all’ultimo giorno, sai? È l’ultimo ricordo che ho di lei.”

Adam non seppe come rispondere a quella confidenza. “Odio tornare a casa,” disse senza pensare. “Odio starmene con i miei familiari. Non ho un bel rapporto con mio padre.”

Gli angoli della bocca di Shiro si sollevarono un poco. “È per lui che sei qui?”

“Sono qui perché sono un Sànchez,” rispose Adam, distendendosi sulla schiena. “Lo spazio è l’unica ragione per cui sono al mondo. Sarebbe pura follia pensarla diversamente.”

“E qual è il tuo sogno?” Domandò Shiro. “Il tuo vero sogno, intendo.”

Adam sorrise con amarezza al soffitto. “Non ce l’ho,” rispose. “Non ho sprecato energie in qualcosa che non sarei mai riuscito a raggiungere. Se il mio destino era la Galaxy Garrison, ho scelto di essere il migliore per quel che potevo e ci sono andato vicino.”

Shiro si sentì in colpa. “Mi dispiace…”

“Non farlo,” disse Adam con fermezza. “Non chiedere scusa per essere migliore di altri. Al tuo posto, loro non esisterebbero a schiacciarti. Se puoi essere grande, sii grande e basta.”

Shiro esaminò quelle parole con attenzione e nella loro determinazione vi trovò la fonte della solitudine di Adam, un ragazzo a cui non era permesso sognare.

“A me non importa,” aggiunse il giovane Sànchez. “A rigor di logica, tu sei un genio in quello che fai e cercare di duellare contro di te è solo una perdita di tempo ed energie. Non ho la tua passione. È più che legittimo che tu sia migliore di me.”

Shiro ne fu sorpreso. “Tuo padre non ti farà problemi?”

“Sono l’unico cadetto che può co-pilotare con il nuovo ragazzo d’oro della Garrison Galaxy. Che cosa può aver mai da ridire?”

Shiro si rigirò tra le lenzuola per guardarlo. “Io non sono il ragazzo d’oro della Galaxy Garrison,” obiettò.

Adam alzò gli occhi al cielo. “Quando sei ingenuo, Takashi.” Si coprì gli occhi con un braccio. “Ora vedi di dormire. Non morirò nel sonno se abbassi la guardia.”

Nonostante l’acidità di quelle parole, Shiro sorrise. “Buona notte, Adam.”

Per la prima volta da quando le loro strade si erano incrociate, erano riusciti finalmente a parlare.



Lo so cosa stai pensando: niente di che!

Invece, no! Perché la storia inizia a farsi interessante solo ora.

Pensavi che il virus intestinale fosse la grande svolta? Bene, ti sbagliavi.

La svolta arrivò poco dopo, non fu bella e, naturalmente, avvenne in mia assenza!




“Come sarebbe a dire che non tornerai per l’inizio delle lezioni?”

Adam sollevò la testa dal suo tablet appena in tempo per vedere Shiro entrare nella loro camera bagnato come un pulcino, il cellulare premuto contro l’orecchio.

Adam non sapeva con esattezza con quanta frequenza pioveva in quel deserto, ma Shiro aveva scelto proprio uno di quei giorni per decidersi a provare una delle hooverbike dell’Accademia.

Se non fosse stato per la pozzanghera che stava creando di fronte alla porta del bagno, Adam avrebbe anche potuto ridere di quella disavventura del compagno di stanza.

“Una bufera ha bloccato tutti gli aerei per la tratta oltreoceano?” Domandò Shiro nel ricevitore con espressione delusa. “I risultati escono domani… Certo che ti terrò informato. Avrei solo voluto vederli con te.”

Adam alzò gli occhi al cielo: Shirogane, Holt e la loro strampalata amicizia. Cercò di concentrarsi sulla slide sotto i suoi occhi, ma Shiro non si era ancora deciso a togliersi i vestiti bagnati e quella ai suoi piedi non era più una pozzanghera, ma un bene naturale nazionale.

Adam sospirò annoiato e cominciò a far schioccare le dita in aria per attirare l’attenzione dell’altro.

Shiro lo guardò con espressione interrogativa e il giovane Sànchez indicò il disastro ai suoi piedi. Resosi conto del danno, Shiro gli chiese scusa in silenzio, mentre Holt continuava a urlare dall’altro capo della linea.

“Aspetta solo un secondo, Matt.” Shiro appoggiò il cellulare sulla scrivania del compagno di stanza assente ed attivò il viva voce.

“... Voglio sapere tutto quello che succede nei minimi dettagli!” La voce agitata di Matthew Holt interruppe definitivamente la pace di cui Adam aveva goduto fino a quel momento. Spense il tablet è decise di attendere che quei due idioti interrompessero la comunicazione.

“Lo sai che ti racconto tutto, Matt,” disse Shiro, cominciando a slacciarsi gli stivali.

“Sì, ma non lo fai con lo stesso impegno con cui lo faccio io!” Si lamentò Holt. “Dimmelo che ti stai divertendo anche senza di me, non mi offendo mica!” Aggiunse con un tono di voce che suggeriva il contrario delle sue parole.

Adam si massaggiò la fronte stancamente.

Shiro rise. “Smettila, lo sai che non è vero!” Si liberò della felpa bagnata e della t-shirt sottostante in un singolo movimento, come se Adam non fosse lì e non lo stesse guardando.

Il giovane Sànchez, però, era lì e i suoi occhi non avevano molto altro su cui posarsi.

“Tu cerca di tornare il primo possibile e allora torneremo a divertirci insieme,” aggiunse Shiro, continuando a spogliarsi come se fosse il solo nella stanza.

Adam rimase in silenzio.

“Tu mi nascondi qualcosa,” disse Holt sospettoso. Adam sarebbe voluto intervenire per dire che, sì, il suo migliore amico stava improvvisando uno spogliarello completamente bagnato di fronte al suo co-pilota e non stava dicendo una parola a riguardo.

Con ingenuità incalcolabile, Shiro si liberò dei pantaloni, come se l’intimo umido che gli aderiva addosso potesse ancora essere considerato un indumento coprente. Ah, sì, c’erano da considerare anche gli occhiali da motociclista che aveva ancora sopra la testa.

“Ora devo andare, Matt,” disse Shiro, riprendendo in mano il cellulare. “Sono rientrato da un giro in hooverbike e mi ha sorpreso una tempesta, quindi…” Disattivò il vivavoce e si portò l’apparecchio all’orecchio. “Saluta la tua famiglia da parte mia e rilassati. La Garrison non fugge, tranquillo… Ciao.” Riagganciò e lanciò il cellulare verso il suo letto.

Solo allora, Shiro si accorse che Adam lo fissava. “Che c’è?”

Adam scrollò le spalle. “Ti guardo.” Disse atono.

Shiro abbassò lo sguardo su di sé e si rese conto solo in quel momento dello stato in cui versava. Avvampò. “Che diavolo…” Imprecò tra i denti, sollevando i vestiti bagnati da terra per schermarsi come poteva.

Adam non ebbe alcuna reazione. “Non sei una ragazzina,” lo rassicurò.

“Ho i boxer bianchi!” Esclamò Shiro.

“Sì e ora so che sei decisamente moro anche lì sotto.” Concluse Adam con la stessa voce apatica.

Shiro aprì e chiuse la bocca come un pesce fuor d’acqua. “Perché non ti sei voltato dall’altra parte?”

“Perché non hai niente che io non ho,” disse Adam. “Non m’imbarazzo mica.”

“Io sì!” Shiro entrò in bagno, sbattendo la porta.

“Togliti gli occhiali dalla testa, prima di entrare nella doccia!” Esclamò. Gli angoli della sua bocca si sollevarono pericolosamente.

Non appena se ne accorse, Adam scosse la testa e recuperò il suo tablet.



I risultati dei test uscirono prima del ritorno di Matt.

Non ci fu nessun colpo di scena. Il nome di Shiro figurava primo nella lista dei nuovi fighters è quello di Adam per secondo.

Il giovane Sànchez nemmeno si disturbò a farsi strada tra la piccola folla che si era radunata nell’ingresso, sotto le bacheche: Shiro stava facendo quella fatica per lui e per il povero Holt.

“Matt sei arrivato primo nell’esame di analisi!” Esclamò quello che era ufficialmente il nuovo ragazzo d’oro della Garrison, riemergendo dal gruppo isterico di cadetti.

Adam lo aspettava vicino agli ascensori, pronto a darsi alla fuga e a evitare qualsiasi contatto umano all’infuori che col suo compagno di stanza.

“Sì, io e Adam siamo nei fighters!” Esclamò Shiro nel ricevitore sollevando il pollice in direzione del giovane Sànchez con un gran sorriso. “Che significa che vuoi una foto? Matt c’è tutta l’Accademia di fronte a quelle bacheche, sono appena riuscito a liberarmi.”

In attesa che il piccolo dramma tra i due amici avesse fine, Adam chiamò l’ascensore. Non appena le porte scorrevoli si aprirono, Shiro salì con lui.

“Tornerai il prossimo week end? È una buona notizia. Potremmo festeggiare allora. Iverson mi ha concesso l’accesso al garage e possiamo prendere una hooverbike e…”

Shiro parlava allegramente, gli occhi grigi luminosi come due stelle. Adam non poteva fare a meno di guardarlo. Non lo invidiava, non desiderava il suo successo. Era solo bello da guardare con tutta la sua passione e la sua felicità.

“Sì, lo so che il mio compleanno è domani. Tranquillo, non lo passerò da solo,” disse Shiro. “C’è Adam qui. No, non festeggerò senza di te, promesso. No, non ti sto nascondendo nulla.”

Adam ignorò il resto del battibecco per registrare l’unica informazione degna di nota che aveva carpito da quella conversazione.

“Sei nato il 28 febbraio?” Domandò, quando l’altro riagganciò.

Shiro scosse la testa. “Sono nato in un anno bisestile. Il mio compleanno capita una volta ogni quattro anni.”

L’angolo destro della bocca di Adam si sollevò. “Sei nato il 29 febbraio?” Pensò che gli si addiceva.

Perché mai Takashi Shirogane avrebbe dovuto avere un compleanno come tutti gli altri? Era ovvio che si distinguesse anche per quello.

“Stai sorridendo?” Domandò Shiro, piacevolmente sorpreso.

Adam scosse la testa è tornò a fissare le porte dell’ascensore. “Non ti sto prendendo in giro.”

“Puoi prendermi in giro quanti vuoi, se ti fa sorridere!” Shiro lo disse senza pensare e le sue guance divennero rosse non appena gli occhi confusi dell’altro incrociarono i suoi. “Scusami…” Aggiunse, abbassando il viso.

“Perché ti scusi ora?” Domandò Adam.

Shiro si passò una mano tra i capelli. “Niente…”

L’altro non insistette e la conversazione non venne più ripresa.



Shiro passò il resto del pomeriggio a parlare via Skype con i suoi nonni e informarli dei risultati degli esami. Adam rimase steso sul suo letto con il tablet in mano a leggere tutto ciò che la rete gli proponeva senza particolare interesse.

Suo padre doveva aver già chiamato Iverson in persona per sapere i risultati dei test e non doveva scomodarsi per informare nessun altro. Sentire Shiro parlare in giapponese fu l’unico evento davvero interessante della giornata. La sua voce suonava diversa e Adam si ritrovò ad ascoltare gran parte della conversazione tra lui e la sua famiglia senza capirne assolutamente nulla.

Era una lingua piacevole o forse era il modo in cui Shiro parlava a renderla tale. Non lo sapeva e decise di non pensarci oltre.

Non appena la comunicazione con i suoi nonni si concluse, Shiro spense il tablet e prese un respiro profondo, come se dovesse lasciare andare la tensione.

Adam se ne accorse. “Tutto bene a casa?”

Shiro gli sorrise e annuì. “Mi hanno fatto promettere di tornare quest’estate.”

“Dovrai farlo per forza, il dormitorio chiuderà.”

“Lo so.”

“Pensavo avessi un buon rapporto con i tuoi nonni.”

“Ce l’ho…” Shiro scese dal letto e sollevò il suo telescopio tra le braccia. “Ho un problema con le stanze vuote.”

Adam intuì che si trattava di sua madre e non chiese altro. Quando lo vide prendere la via della porta, però, inarcò le sopracciglia. “Dove stai andando?”

“Vado sul tetto a guardare le stelle,” rispose Shiro.

“Perché non le guardi qui come al solito?” Domandò Adam. Non si conoscevano ancora abbastanza perché potesse leggere negli occhi di Shiro le sue emozioni e comprendere che aveva bisogno di restare un po’ da solo.

“Prendo un po’ d’aria.” Fu la scusa.

Adam l’accettò con una scrollata di spalle.



L’aria della sera era fredda nel deserto ma Shiro non si perse d’animo, si strinse nella felpa e sollevò il cappuccio. Parlare con i suoi nonni lo aveva toccato più di quanto si era aspettato e sapeva che solo le stelle sarebbero riuscite a calmarlo un po’.

Sarebbe stato pronto a tornare a casa per l’estate e ad affrontare l’assenza di sua madre, ma non voleva ancora pensarci.

Se Matt fosse stato lì ne avrebbe parlato con lui, ma non voleva disturbare Adam con il suo caos emotivo. Aveva già il suo bel da fare con il proprio.

Shiro sistemò il cannocchiale vicino al parapetto. Rimase deluso immediatamente: il cielo si stava coprendo di nuvole.

Sospirò frustrato. “In questa zona pioverà tre volte l’anno e tutte e tre devono accadere mentre io non ho un tetto sopra la testa?” Si lamentò, sebbene sapesse che fosse inutile.

Nella speranza che fosse solo una nuvola passeggera, provò a spostarsi in un altro punto. Non trovò più fortuna.

Chinò la testa con un verso frustrato.

La porta di accesso al tetto si aprì.

“Niente da fare, Adam.” Disse Shiro, convinto che il compagno di stanza lo avesse seguito. “Le stelle non sono dalla mia parte questa sera.”

“Hai proprio ragione, ragazzo d’oro.” Rispose una voce che Shiro non conosceva.

Il pugno del nuovo arrivato lo colpì prima che potesse guardarlo in faccia.



Fu il rombare di un tuono in lontananza a distrarre Adam dalla sua lettura. Lo interpretò come il segnale che Shiro sarebbe presto tornato.

Passarono almeno dieci minuti prima che un altro tuono, più vicino, spezzasse il silenzio. Shiro doveva essere per forza sulla via del ritorno, non era possibile che non si fosse accorto che stava per piovere di nuovo.

Quando le prime gocce di pioggia cominciarono a picchiettare contro il vetro della finestra, Adam lasciò cadere il tablet sul letto.

“Dannazione, Takashi…” Sibilò, alzandosi dal letto.



Ti devo confessare una cosa: non so come sarebbe finita se Adam non fosse stato lì… Se non avesse fatto l’impiccione e fosse salito sul tetto dormitorio. Davvero… Non lo so.

Il tipo dai capelli rossi era ubriaco e così i suoi amici.

Non si sarebbero fermati.

No, non erano abbastanza lucidi per sapere quando fermarsi.




Quando Adam aprì la porta di accesso al tetto, stava piovendo tanto che i suoi occhiali divennero inutili in meno di un istante. “Takashi!” Chiamò, cercando di asciugare le lenti con l’orlo della maglietta. “Takashi! Hai qualche problema a capire quando comincia a piove-”

Le parole gli morirono in gola non appena inforcò di nuovo gli occhiali.

Non reagì immediatamente.

Shiro era raggomitolato a terra, il viso coperto di sangue, contorto in maschera di dolore.

Intorno a lui ve ne erano tre e se la ridevano di gusto. Adam, però, vide solo quello con i capelli rossi e la bottiglia rotta in mano. I frammenti erano a terra, vicino alla testa di Shiro.

Non lo avevano visto arrivare ma non si fermò a ragionare su come sfruttare al meglio quel vantaggio. Come mosso da una volontà altra, Adam si fece avanti, sotto la pioggia.

Il rosso si accorse di lui solo quando fu ad un paio di metri di distanza. Probabilmente nemmeno lo riconobbe, ma ebbe l’ardire di rivolgergli un sorriso sghembo. “Ehi, tu sei-”

Adam lo colpì sul naso con tutta la forza del suo braccio. Il tipo dai capelli rossi cadde all’indietro, il collo della bottiglia gli sfuggì di mano e finì in mille pezzi sul pavimento.

Come due codardi, gli altri non ebbero il coraggio di far alcunchè in difesa del loro leader.

Adam s’inginocchiò a terra e afferrò Shiro per le spalle. “Takashi,” chiamò.

L’altro riuscì a sollevarsi sui gomiti e il giovane Sànchez lo prese come un buon segno.

“Adam…”

“Sono qui, ti aiuto io.”

Il rosso cominciò a lanciare calci in aria. “Mi ha rotto il naso!” Sbraitò con voce nasale. “Mi ha rotto il naso, il pezzo di merda!”

I suoi due amici si avvicinarono a lui senza sapere cosa fare.

Adam si passò il braccio di Shiro intorno alle spalle e lo tirò in piedi quasi di peso. “Andiamocene di qui…”



Alla fine, il rapporto medico non fu serio come Adam aveva temuto.

“Hai avuto i riflessi pronti,” disse la dottoressa di turno, controllando che la medicazione sotto la frangia scura di Shiro fosse ben pulita. “Hai uno zigomo gonfio ma sei riuscito a parare il colpo della bottiglia con la mano, vero?”

Seduto sul letto dell’infermeria, Shiro annuì. Una volta ripulito il viso dal sangue, il suo aspetto non si era rivelato poi così terribile. Lo zigomo leso si sarebbe sgonfiato in fretta ma l’ematoma avrebbe impiegato un paio di settimane a riassorbirsi.

La dottoressa prese la mano sinistra di Shiro ed esaminò le fasciature. “Appena ti ho visto, ho pensato avessi la testa fracassata,” ammise. “Il taglio che hai sulla fronte ha sanguinato parecchio ma non è molto profondo. Resterà la cicatrice ma è tanto vicina all’attaccatura dei capelli che non si vedrà.”

Shiro annuì di nuovo.

“Dei tagli alla mano si possono rimediare,” aggiunse il medico. “Se ti fossero finite delle schegge negli occhi…” Scosse la testa e forzò un sorriso. “Non è successo,” concluse. “Tra due settimane, torna e toglieremo i punti dalla fronte. I tagli alla mano spariranno da soli.”

Ancora un cenno del capo da parte di Shiro.

Adam si chiese se aveva perso il dono della parola. Al contrario, Iverson non aveva fatto altro che borbottare a bassa voce per tutto il tempo. Adam aveva l’impressione che avesse un gran bisogno di sbraitare contro qualcuno ma si stesse trattenendo.

Quando la dottoressa parlò di nuovo, fu al giovane Sànchez che si rivolse. “L’altro ha il naso rotto.”

Adam strinse il pugno destro e lo nascose discretamente dietro la schiena. Sentiva gli occhi di Iverson su di sé e sapeva che attendeva una spiegazione. Non aveva una giustificazione da dare: aveva visto Shiro a terra e prima di portarlo via, si era concesso il privilegio di spaccare la faccia a chi lo aveva ridotto in quello stato.

Doveva chiedere scusa? Non lo avrebbe fatto.

Questo gli sarebbe costato il posto alla Garrison? Probabilmente.

“Sono stato io!” Intervenne Shiro. Fu la prima volta che pronunciò parola dall’aggressione. “Ho lanciato un pugno alla cieca per difendermi. Non credevo di avergli rotto il naso.”

Se la dottoressa gli credette sulla parola, Iverson gli rivolse un’occhiata sospettosa. “Mentire ti fa finire subito dalla parte del torto, Takashi.”

“È la verità, Comandante,” disse Shiro senza esitare. “Glielo giuro sul mio onore.”

Adam fissò il suo profilo attraverso le lenti ancora bagnate degli occhiali. Iverson si bevve quella bugia con uno sbuffo. “Non fare il drammatico, adesso,” disse stancamente. “Quei tre ti hanno aggredito senza ragione e lo hanno fatto sotto l’effetto di alcol introdotto nell’Accademia senza permesso. Nulla può salvarli dall’espulsione.”

L’espressione di Adam non cambiò di una virgola ma esultò in silenzio.

Iverson puntò l’indice verso i due cadetti. “Restate qui,” ordinò. “Tutti e due. Tornerò da voi tra poco. Dottoressa, mi scusi, ho bisogno di lei per il rapporto.”

La donna annuì. “Certamente, Comandante.”

Uscirono entrambi dalla piccola stanza e gran parte della tensione sparì con loro.

Fu Shiro a interrompere il silenzio per primo. “Ehi…” Sorrideva.

Adam non sapeva da dove gli veniva la voglia di farlo. “Stai bene?” Domandò. “Ti ha colpito da qualche altra parte?”

Shiro scosse la testa. “Non ne ha avuto il tempo, grazie a te.”

Adam adocchiò la porta chiusa e si sedette sul letto. “Parla piano o il tuo tentativo di tirarmi fuori dai guai andrà in fumo.”

Shiro reclinò la testa da un lato. “Fammi vedere la mano.”

Adam non gliela mostrò ma non si ritrasse quando Shiro la prese tra le sue. C’era una lieve abrasione sulle nocche. “Ti fa male?” Domandò.

“Passerà.”

Nonostante la rassicurazione, Shiro non lo lasciò andare. “Grazie per avermi protetto.”

“Dovere.” Fu la risposta incolore di Adam.

“No, non lo era,” obiettò Shiro. “Non sei responsabile per me. Potevi lasciar perdere.”

Adam lo guardò. “Sei il mio pilota. Sarò sempre responsabile per te. Se non ci prendiamo cura l’uno dell’altro quaggiù, non sopravviveremo mai lassù.”

Shiro lo guardò sorpreso. “Un altro insegnamento di tuo padre?”

“No.” Adam lo guardò. “Questo è tuo.” Tenne lo sguardo fisso a terra. Non sarebbe riuscito a fare altrimenti.

Non poteva guardare Shiro negli occhi, rendersi conto che contenevano tutte le stelle che aveva sempre ignorato e mantenere un’espressione vuota.

Shiro faticò a trovare qualcosa da dire. “Eccola…” Disse, infine. “L’hai trovata.”

Adam non lo guardò nemmeno allora. Temeva che sarebbe rimasto abbagliato se avesse fatto altrimenti. “Che cosa?”

“La tua ispirazione.”

“Io non ho trovato niente. Non ho ancora un sogno da inseguire, a differenza tua.”

Shiro scosse la testa. “No, qualcosa è successo,” insistette. “Sei diverso.”

“Perché? Perché ti ho difeso da un tipo che ti ha picchiato per voglia di farlo?” Domandò Adam esasperato. “Ti rendi conto di quello che è successo? Ti hanno preso di mira perché sei il migliore e la cosa non ti tocca. Non sono io la questione qui, sei tu.”

Shiro scrollò le spalle. “Beh… Qualcuno mi ha detto che non devo chiedere scusa se sono il migliore,” disse. “E tu sei la parte più bella della storia, perciò…”

“Buon compleanno.”

“Eh?”

Shiro si accorse che Adam fissava l’orologio appeso al muro sopra la porta. Era mezzanotte.

“Per quanto buono possa essere,” aggiunse il giovane Sànchez.

Non si voltò a guardare Shiro ma sentì il suo sorriso addosso, come una carezza. “Grazie.”

Le loro mani si toccavano ancora, ma nessuno dei due ci fece caso.
 
   
 
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