Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: BlackSwan Whites    08/08/2018    1 recensioni
«Ciao, Sherlock». Usare quel nome dopo un periodo di così lungo mutismo gli provocò un brivido lungo la schiena. Non ne era stato in grado fino ad allora, anche se nella sua testa non passava giorno senza che se lo ripetesse quasi senza sosta. «Ne è passato di tempo, vero? Sì, lo so, sono sparito per un po’, e mi dispiace. Mi dispiace immensamente. Mentirei se ti dicessi che non ti ho pensato, in questi due anni, ma mentirei anche se affermassi di aver avuto il desiderio di venirti a trovare. È solo che… non ce l’ho fatta».
_______
Una versione alternativa del ritorno del nostro amato detective, con il 100% di Mary in meno e molta drammaticità in più.
L’idea di base non è niente di originale, ma spero di averla affrontata in maniera degna; perché quando perdi la persona a cui tieni di più al mondo, non vedi altra via d’uscita se non una.
/Johnlock, of course/
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Piccola nota: quando l'ho scritta, ho pensato come sottofondo "On every street" dei Dire Straits, quantomeno la parte più "lenta" della canzone. Se siete il genere di persone che riesce a leggere con la musica in sottofondo (io purtroppo non rientro in questa categioria, il suono mi distrae dalle parole), allora vi consiglio di cercarla e ascoltarla, e di godervi la lettura.


One more miracle


John camminava con passo sicuro tra le innumerevoli lapidi, la giacca stretta attorno alle spalle per ripararsi dal vento pungente. Sapeva esattamente dove andare, nonostante avesse visitato quel luogo una volta sola quel giorno di quasi due anni prima. Il giorno in cui era stato costretto a dirgli addio. Non ci era più tornato, da allora. Non che gli fossero mancati i momenti liberi, men che meno la voglia di andare a trovarlo; anzi, in certe occasioni la determinazione era stata tale da spingerlo fino all’ingresso del cimitero. Prima di varcare il cancello, però, regolarmente, le immagini di ciò che era accaduto ricomparivano per tormentarlo, vivide come se non fosse trascorso nemmeno un secondo. Lo rivedeva lì, in bilico sul cornicione del tetto del St. Bartholomew’s Hospital, intimandogli di tenere gli occhi fissi su di lui mentre gli illustrava come avesse sempre finto (mentre gli mentiva, perché in cuor suo John sapeva che non una singola parola che usciva dalla sua bocca in quel momento era reale) e poi, come in un incubo ad occhi aperti, si lanciava nel vuoto, sotto il suo sguardo inorridito. E puntualmente, anziché addentrarsi nel camposanto, si voltava indietro e tornava alla sua vita come se niente fosse. O meglio, tornava al suo trascinarsi giorno per giorno con la consapevolezza che lui, nonostante tutte le sue preghiere disperate, non sarebbe mai più tornato.
Oggi però sarebbe stato diverso. Gli ci era voluto del tempo, forse troppo, ma alla fine era riuscito a raccogliere il coraggio necessario a compiere quel passo decisivo, e ora si trovava lì, a vagare come un’anima in pena in mezzo ad anime che invece avevano trovato la pace eterna, alla ricerca di una semplice lastra di marmo nero su cui era inciso il nome dell’unica persona che era stata degna di attenzione nella sua esistenza. Un nome impresso nella sua mente tanto quanto sulla pietra che era entrata in quell’istante nel suo campo visivo, e che lui, John Watson, non era più riuscito a pronunciare ad alta voce fin da quando aveva seppellito l’uomo a cui apparteneva.
Si chinò un attimo sulla tomba per deporvi un mazzo di fiori. Aveva scelto dei gigli bianchi, in perfetto contrasto con lo scuro materiale di cui era fatta (dello stesso colore dei suoi ricci, in effetti). Ma c’era qualcosa di più di un mero effetto cromatico, un motivo ben preciso per cui la sua preferenza era ricaduta su quel tipo di pianta. I gigli erano simbolo di purezza, e lui era stato puro. Il verginello, lo avevano soprannominato. Ironico come quell’abominazione vivente (non si poteva definire una tale malvagità un uomo) che lo aveva distrutto e umiliato pubblicamente avesse in realtà centrato uno dei suoi tratti principali: l’innocenza, la spontaneità. Non era stronzaggine, come pensavano quasi tutti, niente affatto. Era solo schiettezza, una caratteristica impossibile da comprendere per un mondo imprigionato sotto una cappa di impenetrabile ipocrisia, e proprio per questo considerata un errore. La capacità di vedere oltre le menzogne, per il pubblico, non era un dono, ma un pericolo, perché rendeva inutile ogni finzione su cui fondava la propria immagine. Ed era stato proprio questo a conquistare lui, John Watson, che non aveva bisogno di bugie dietro cui nascondersi, ma era semplicemente sé stesso. Lo era sempre stato, e lo era anche in quel preciso istante, quando si mise a parlare al vuoto che stava tanto attorno a lui quanto dentro di lui.
«Ciao, Sherlock». Usare quel nome dopo un periodo di così lungo mutismo gli provocò un brivido lungo la schiena. Non ne era stato in grado fino ad allora, anche se nella sua testa non passava giorno senza che se lo ripetesse quasi senza sosta. «Ne è passato di tempo, vero? Sì, lo so, sono sparito per un po’, e mi dispiace. Mi dispiace immensamente. Mentirei se ti dicessi che non ti ho pensato, in questi due anni, ma mentirei anche se affermassi di aver avuto il desiderio di venirti a trovare. È solo che… non ce l’ho fatta». Abbassò gli occhi al terreno coperto d’erba umida, scuotendo la testa in preda alla vergogna per la propria debolezza, per la propria incapacità di compiere un gesto tanto semplice come recarsi a far visita a un amico. «Dio, come vorrei che fossi qui davanti a me. Ti basterebbe guardarmi in faccia, i miei vestiti, la mia postura, e non avrei neanche la necessità di spiegarti le mie ragioni: le capiresti al volo, come hai sempre fatto. Se solo mi vedessi… Da quando non ci sei più sono solo l’ombra di me stesso. Conoscerti mi ha fatto sentire di nuovo un essere umano, mi ha tirato fuori dall’apatia in cui mi ero rintanato una volta tornato dalla guerra. Sei riuscito a darmi una ragione per tornare a vivere, cioè aiutarti a risolvere crimini. Mi hai salvato, Sherlock, sul serio, e ti devo tanto. So che te l’ho già detto, ma ti devo davvero tanto». Sospirò sconsolato. «Ricordo che preferivi spiegarmi tutti i tuoi ragionamenti al tenerteli per te perché pensavi meglio ad alta voce; sostituivo il tuo teschio, mi dicevi. È quasi divertente che abbiamo invertito i nostri ruoli. Oggi io me ne sto qui, a raccontare tutto quello che mi passa per la testa a qualcuno che tanto non può capire le mie parole, e tu invece fai la parte del teschio. Letteralmente».
Si dondolò un poco sui talloni, in un momento di incertezza. Era tranquillo, eppure si sentiva anche vagamente a disagio. Temeva che qualcuno potesse arrivare ad interrompere la sua conversazione. Perché non si trattava di un monologo, anche se a uno sguardo esterno sarebbe potuto apparire tale. Lui credeva veramente che Sherlock, ovunque si trovasse, fosse in grado di sentirlo, e non aveva la minima intenzione di lasciare che un’altra persona si intromettesse in quel dialogo così intimo e privato. Per un attimo fu tentato di girare attorno e perlustrare quel freddo luogo desolato per verificare che fosse, che fossero, effettivamente, soli, ma resistette, continuando imperterrito.
«Vedi, ci ho riflettuto su parecchio. Sono tornato indietro a quel giorno, ho analizzato la situazione da ogni prospettiva. Mi sono anche recato sul posto, lì sul tetto dell’ospedale, e devo confessarti che in un lampo di pazzia mi è passato per la mente di fare quello che hai fatto tu, salire sul parapetto, spalancare le braccia e buttarmi di sotto… Ma non l’ho fatto. Non potevo suicidarmi anch’io. Non prima di avere scoperto il perché del tuo gesto. Ho provato a farmi guidare dal tuo spirito per dedurre come sono andate veramente le cose con Moriarty, però non ne sono stato in grado. Me l’hai fatto notare tante volte, sono solo un idiota, e come sempre avevi dannatamente ragione. In tutto il tempo che ho passato insieme a te, non sono riuscito ad imparare un bel niente. Per le altre persone eri unico; per me, invece, eri l’unico. L’unico vero uomo che io abbia mai conosciuto. L’unico in grado di dare un senso alla mia esistenza vuota. L’unico capace di farmi attraversare mezza Londra di corsa solo per farmi capire che la sola cosa che mi impediva di camminare ero io stesso. L’unico… L’unico a cui io abbia voluto più bene che a me stesso». A quest’ultima affermazione gli si incrinò la voce. Era dura lasciar andare tutte quelle emozioni trattenute in un colpo solo, ma era anche il modo per liberarsi una volta per tutte degli innumerevoli demoni che lo avevano torturato incessantemente ogni giorno dopo il funerale; ricacciò indietro le lacrime che iniziavano a pungergli gli occhi come spilli arroventati, andando avanti. «Sai, non ho neanche più visto la signora Hudson, perché so già che se mettessi piede a Baker Street crollerei come un castello di carte al vento. Verrei assalito dai ricordi; ti vedrei lì, seduto sul divano a gambe incrociate, con le palpebre sigillate, mentre esplori il tuo palazzo mentale alla ricerca di una nuova brillante idea per risolvere con successo l’ennesimo caso da tre cerotti alla nicotina. Ma sarebbe soltanto un fantasma, e un fantasma non tiene compagnia; non puoi osservarlo veramente, non puoi parlarci, non puoi toccarlo. E io non ho bisogno del tuo fantasma, ho bisogno di te. Mi manchi, Sherlock. Mi manchi da morire».
C’era quasi, il suo discorso volgeva al termine, finalmente. Presto ogni cosa sarebbe andata al suo posto, si sarebbe sistemata in uno schiocco di dita. «Quando sono stato qui la prima e, ora che ci penso, l’unica volta, ti ho chiesto una cosa. Un ultimo miracolo. Ti ho chiesto di smetterla di essere morto. E credo, so che mi hai sentito. Ti ho dato due anni per esaudire la mia richiesta. Ho passato tutto questo tempo a casa mia, a guardare la porta, aspettando il momento in cui saresti entrato senza suonare né bussare, in fondo quando mai l’hai fatto?, e mi avresti rivelato che era stato solo uno scherzo, un maledetto trucco. E io sapevo che ti sarei corso incontro, e ti avrei preso a pugni, anche se le botte ti avrebbero dato solo un assaggio del dolore che ha provocato a me la ferita che mi hai inflitto quando te ne sei andato, abbandonandomi a me stesso. E poi ti avrei abbracciato, magari ti avrei anche baciato, in preda alla follia del momento e alla gioia di sapere che stavi bene, chi può saperlo. Ho difeso il tuo nome a spada tratta contro tutti quelli che ti hanno accusato di essere ciò che non eri, anzi, di non essere mai stato ciò che in realtà eri, e sono corsi vari pettegolezzi su noi due; del resto, siamo sempre stati a conoscenza del fatto che la gente non sa fare altro che chiacchierare. Probabilmente, però, alcune di quelle voci erano vere, quantomeno per me; ma non lo so, Sherlock, non sono capace di dirtelo con certezza. So che in molte occasioni ti ho odiato, e che ti odierei anche se ritornassi. Ma non riuscirei ad odiarti per sempre; anzi, ci sono buone possibilità che non riuscirei ad odiarti nemmeno per un minuto intero di fila. Sta di fatto che fino ad adesso non sei arrivato, e io ormai ho perso le speranze in una tua ricomparsa. E ho capito quello che devo fare».
A quelle parole, John infilò una mano dentro la giacca, alla ricerca di qualcosa contenuto nella tasca interna. «Non sono mai stato bravo con le deduzioni, Sherlock, ma in tua memoria ho valutato tutte le opzioni con la massima cura possibile e sono giunto a due conclusioni. La prima è che dopo la tua… la tua morte non ti è più importato di me, e hai passato gli ultimi due anni ad ignorarmi completamente. Ma non posso, non voglio credere a questa versione; non dopo tutto quello che abbiamo vissuto insieme. L’alternativa è che tu mi abbia ascoltato, e abbia tentato di tornare da me; ma l’aldilà è molto diverso dalle strade di Londra, non lo conosci come le tue tasche, e ti ci sei perso. Sì, sei lì e stai vagando solo, sperduto, alla disperata ricerca di una via d’uscita che non riesci a trovare. Allora, se non riesci a venire tu da me, vorrà dire che sarò io a venire da te, così non sarai più da solo». Finalmente la sua mano individuò l’oggetto della sua ricerca, lo afferrò e lo estrasse. Una pistola. L’ammirò alla luce fredda del sole offuscato dalle nubi, preparandosi psicologicamente a ciò che stava per fare.
«Te la ricordi questa?» domandò, rigirandosi l’arma tra le dita. «È la pistola con cui ti ho salvato la vita durante il nostro primo caso, con cui ho ucciso un uomo pur di proteggerti. Trovo curioso il fatto che ci abbia legati allora, e che ci stia per ricongiungere anche adesso». Si inginocchiò davanti alla lapide e portò la canna alla tempia, facendo una lieve pressione, giusto per sentire il gelido metallo a contatto con la pelle. «È buffo, in effetti» considerò, indulgendo in un ultimo, debole sorriso. «Non è la prima volta che mi trovo con una pistola puntata in fronte. In genere questo tipo di situazione significa pericolo, ansia, paura di morire. Invece, non provo nessuna di queste sensazioni. Sento soltanto pace, tranquillità. E sono felice, perché questa non è una pistola, questa è una strada: la strada che devo percorrere per raggiungerti». Il vento aveva ripreso a soffiare più intensamente, facendo fischiare lugubremente le foglie degli alberi. Era come se piangesse, triste per il gesto che John si accingeva a compiere. Gli sembrò quasi di udire una voce, sovrapposta a quel fischio, una voce lontana che gli urlava di non farlo, di fermarsi un attimo e di voltarsi indietro. Pigiò più forte, ignorandola. Ormai era vicinissimo, non poteva più rinunciare. «Aspettami, Sherlock. Vengo a prenderti».
Un misero istante.
La flessione delle dita sul grilletto.
Arrivo da te.




Invece no.

La mano di John non premette mai quel tasto di morte; qualcosa o, per essere più precisi, qualcuno, glielo impedì. Una figura alta, avvolta in un lungo cappotto scuro, che arrivata di corsa alle sue spalle afferrò la pistola, strappandola alla sua presa. «John, smettila! Non fare stupidaggini!». Quella voce… No. Non poteva essere. «Vattene!» urlò a quella che doveva essere necessariamente un’allucinazione dovuta alla tensione del momento. «No che non me ne vado! Ti rendi conto di quello che stavi per fare?» chiese di rimando l’illusione, gettando via l’arma per essere sicura che non cadesse più nelle sue mani. «Lasciami in pace! Lasciami fare quello per cui sono venuto! È l’unica via d’uscita per me, la sola possibilità che ho di incontrarti ancora!». «No, John, non è l’unica. Guardami, sono qui, davanti a te, adesso!». «Tu non sei reale!» gli sbraitò contro, in preda all’ira; stava impazzendo, era tutto troppo caotico, troppo confuso. «Sei solo un frutto della mia mente, che ancora non riesce a rassegnarsi al fatto che non ci sei più, e che in un lampo di lucidità non vuole che io rinunci alla vita, ma diamine, questa non è vita, non da quando non ho più te! Perciò te lo ripeto un’ultima volta, sparisci, perché come ti ho già detto non è di un fantasma che ho bisogno!». Lo spettro lo guardò, lo fissò con quegli occhi azzurro-verdi così maledettamente concreti, e poi fece l’ultima cosa che John si sarebbe mai aspettato: avvicinò il viso e posò le labbra sulle sue. Un tocco delicato, talmente lieve da fargli quasi dubitare ci fosse stato, eppure abbastanza marcato da permettergli di sentire il calore che proveniva da esse; un calore dolorosamente vivo, ma soprattutto terribilmente e meravigliosamente vero. Neanche si era accorto di aver socchiuso gli occhi, talmente gli girava la testa per il turbinio di emozioni sconnesse che lo avevano assalito. Lo spirito di Sherlock (ma era soltanto uno spirito, o era lui in carne ed ossa?) si staccò, lasciandolo con più domande irrisolte di quante ne avesse mai avute in tutta la sua vita messa assieme. «Adesso sei convinto che sono veramente io?» gli disse, sfoggiando un sorriso che aveva quasi dello strafottente.
Quasi non si rese conto di aver chiuso la mano destra a pugno, caricandola dietro la schiena, fino a quando non ebbe colpito violentemente quello zigomo che fino a un istante prima era stato praticamente a contatto col suo. L’altro si ritrasse, vagamente sorpreso. «Che hai fatto?» lo interrogò, tastandosi la faccia. «Che ho fatto? Che hai fatto tu!». «Mi sembrava la sola maniera di farti capire che non stavi sognando ad occhi aperti! Scusa, prima non sei stato tu a dire che se fossi tornato magari mi avresti baciato?». «Io ho detto che se fossi tornato ti avrei preso a pugni!». «Sì? Beh, effettivamente erano entrambi metodi efficaci per verificare la mia corporeità tangibile, ma diciamo che tra un bacio e l’essere usato come sacco da boxe ho ritenuto migliore per me la prima opzione. Meno dolorosa, se non altro; non ho mai amato essere picchiato». John aveva il fiato corto, e si sentiva pericolosamente vicino ad una crisi di nervi; o a uno svenimento. Cosa che evidentemente non sfuggì al suo interlocutore. «Respira, John» gli consigliò, «stai andando in iperventilazione». «Tu…» provò a replicare, ma la vista gli si offuscò. Sarebbe rovinato lungo disteso a terra, se non fosse stato prontamente afferrato dalle braccia dell’altro. «Va tutto bene» lo rassicurò, accarezzandogli la schiena. «No, niente va bene. Proprio niente» rispose lui, lottando per ricacciare indietro le lacrime che minacciavano prepotentemente di traboccare oltre le sue palpebre. Avrebbe voluto chiedergli tante cose, ma riuscì a condensare tutto in un’unica parola: «Perché?». Perché mi hai abbandonato così? Perché mi hai mentito? Perché hai finto fino a questo punto? Perché sei qui ora?
Il detective inspirò a fondo, come se cercasse l’ordine più adatto per affrontare quelle mute richieste di spiegazioni. «Per lo stesso motivo per cui tu non sei riuscito a venire a trovarmi in tutto questo tempo. Giorno per giorno ti seguivo non visto, e più volte ho avuto la tentazione di avvicinarmi di più, metterti una mano sulla spalla e dirti “hey, sono qui!”, e ricominciare come se nulla fosse accaduto e io non me ne fossi mai andato. Poi però tornavo sui miei passi, e mi ripetevo, per autoconvincermi, di aver fatto la cosa giusta, saltando da quel tetto, e che sarebbe stato meglio per entrambi se non ci fossimo più rivisti. Dal giorno in cui hai accettato di aiutarmi col caso del tassista, ti ho messo in pericolo innumerevoli volte. È più forte di me, non riesco a stare lontano dai guai, non posso fare a meno di andare a caccia di draghi. Sotto sotto, sono ancora il pirata a cui giocavo da bambino, quella personalità per cui Mycroft mi scherniva continuamente. Ma è una mia scelta di vita, e non sarebbe stato giusto imporla categoricamente anche a te. Vedi, quando Moriarty ha minacciato di ucciderti, di uccidervi tutti, se io non l’avessi fatta finita, è stato allora che ho visto uno spiraglio: se io fossi morto, tu saresti stato libero. Nessuno avrebbe più potuto minacciarti o farti del male per causa mia. John, quel giorno io ti ho salvato la vita». «No, Sherlock, non l’hai fatto. Tutto il contrario. Quel giorno mi hai ucciso, e io non ti perdonerò mai per questo. Sai che non posso farlo. Non era necessario ritornare a quello che eravamo prima, mi bastava un tuo messaggio, uno stupido messaggio per capire che c’eri ancora, che eri a posto, e sarebbe andata bene così. Invece hai preferito nasconderti, e lasciarmi morire solo».

Sherlock lo guardò intensamente, e colse al volo tutta la fragilità dell’uomo che gli stava di fronte e il dolore che gli aveva provocato a causa del suo egoismo. Ancora una volta, i suoi sentimenti si erano rivelati una debolezza: credeva di aver fatto ciò che aveva fatto per aiutarlo, e invece lo aveva soltanto fatto a pezzi, distruggendolo quando invece intendeva unicamente proteggerlo. In un istante, provò una repulsione incredibile per la propria persona. Aveva passato anni a braccare criminali e assassini, quando in realtà incontrava il più pericoloso di tutti ogni volta che si guardava allo specchio. «Hai ragione, John. Ti ho lasciato morire da solo» esalò, abbassando gli occhi al terreno in preda alla vergogna. «E hai ragione anche sul fatto che non potrai mai cancellare il male che ti ho causato. Nemmeno io posso. E voglio che tu sappia che mi dispiace. Mi dispiace immensamente». Il medico ascoltava senza parlare, quasi non credendo alle proprie orecchie. Sherlock Holmes, il sociopatico iperattivo, era dispiaciuto. Sherlock Holmes si stava scusando con lui. «Non è la prima volta che ti vedo qui sulla mia tomba; anche quel giorno, io c’ero. E ho sentito tutto quello che mi hai detto. Che ero la persona più umana che tu avessi mai conosciuto, che mi dovevi tanto. E per finire, la tua preghiera. Ricordi la tua preghiera? Coraggio, l’hai già ripetuta prima». Presero fiato entrambi, con gli occhi lucidi. «Ti ho chiesto un ultimo miracolo…». «Già, esatto. Un ultimo miracolo. Di smetterla di essere morto». Annuì, cercando di ricomporsi quanto bastava, anche se con scarsi risultati. La tensione nell’aria era tangibile; perfino il vento pareva essersi fermato per lasciare loro lo spazio di chiarirsi.
Fu un attimo: il consulente investigativo spalancò gli occhi, folgorato dalla risposta. Aveva trovato la via d’uscita da quella situazione, l’unica vera soluzione. Esattamente come quando la sua mente viaggiava a costruire una delle sue incredibili deduzioni, le parole che doveva adoperare danzarono sotto alla sua vista; alzò le mani davanti a sé, afferrandole e spostandole a ricomporre le frasi corrette prima di esporle all’amico. «Ecco, l’ho capito solo adesso. Il senso della tua richiesta!» fece, con la voce carica di entusiasmo per aver compreso, ma soprattutto per l’emozione di esserci arrivato. «Un attimo fa hai affermato che tu sei morto a causa mia. È stato allora che ho realizzato tutto. “Smettila di essere morto”. John, il miracolo che volevi… Non era la mia resurrezione, ma la tua. Non sono tornato per me stesso: sono tornato per te. Ti prego, torna a vivere. Se io ti ho ucciso, allora io posso riportarti indietro. Se fossi stato veramente perso nell’aldilà, tu saresti venuto a cercarmi. Allora lascia che io faccia lo stesso per te. È questo il mio ultimo miracolo, John. La tua nuova vita».
A quelle parole, crollarono entrambi. Definitivamente. «Sherlock…». John provò a dire qualcosa, ma non ci riuscì. Lo strinse forte, aggrappandosi a lui come se temesse che da un momento all’altro potesse dissolversi in una manciata di polvere al vento, e affondò il viso nella sua sciarpa, mentre il pianto che aveva troppo a lungo trattenuto erompeva dai suoi occhi. «John…» gli fece lui di rimando, quasi altrettanto commosso, appoggiando la testa alla sua spalla. In quell’abbraccio e quello sfogo liberatorio c’erano tutte le parole che non si erano mai detti, tutti i pensieri taciuti che avevano avuto l’uno riguardo all’altro fin dal loro primo incontro, tutto l’affetto reciproco che non avevano mai osato confessarsi. Non seppero per quanto tempo durò, fatto sta che entrambi desideravano che non finisse mai, che andasse avanti in eterno. Si staccarono con leggero rammarico, e Sherlock si alzò in piedi per primo, scuotendosi la terra dalle ginocchia. «Vieni, torniamo a casa» gli propose, tendendogli una mano che venne prontamente afferrata. «Solo una cosa, Sherlock» richiamò la sua attenzione il dottore, prima che se ne andassero. «Sì, John?». Il sorriso serafico che ricevette in risposta non gli piacque per nulla, in aggiunta all’indice puntato alla sua tomba. «Prova a fare un’altra volta una cosa del genere, e sarà più conveniente per te che resti morto; perché se anche dovessi resuscitare, sta pur certo che ti ammazzerei io».

___________________

Swan's corner

Dopo forse troppo poco tempo, rieccomi con un'altra fanfiction su Sherlock. Stavolta ho puntato di più sul sentimentale, perché diciamocelo, sull'umorismo faccio un po' pena, e Influenza ne è la prova diretta, perciò via libera alla depressione!
...
No, ok, dire che questa storia è depressa è esagerare. Rispetto a molti altri ci sono andata leggera, ho voluto trovare una dimensione patetica "poetica" e, soprattutto, non posso fare a meno di inserire un lieto fine. Ciò non toglie che spero di aver reso bene l'idea, anche se, come avevo anticipato nella presentazione, lo spunto di John che tenta il suicidio dopo la morte di Sherlock si è visto ormai in tutte le connotazioni possibili. Beh, gente, questa è la mia versione u.u
Prima di chiudere, due cose: una nota stilistica e una "chicca" per chiunque sia arrivato fin qui. La prima è riguardo le numerose ripetizioni presenti nel testo, soprattutto nel monologo/dialogo: vi avviso che sono volute; mi sembrava dessero più enfasi alla conversazione, e poi ammettetelo, se foste sull'orlo del pianto, in completo blackout mentale, qualche incespicamento nelle parole lo fareste anche voi ;) Riguardo la seconda, invece, si tratta di una fanart realizzata dalla sottoscritta per celebrare la pubblicazione; mi sembrava un'idea carina corredare la storia con un'immagine (e se già scrivo come scrivo, posso assicurarvi che disegno peggio XD)

Image and video hosting by TinyPic

In ogni caso, gradirei molto avere il vostro parere, perché ci ho messo molto a rivedere questa storia, e ci tengo. Sul serio, l'avrò smontata e rimontata almeno sei o sette volte, perciò fatemi sapere. Hoping you will enjoy,

Swan

  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: BlackSwan Whites