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Autore: Anya_tara    09/08/2018    1 recensioni
" ... Lo guardo allontanarsi, con quel suo passo fluido ingannevolmente tranquillo, e invece rapido e spedito. La strana sensazione che mi ha preso prima torna, mi prende nel petto, al cuore, facendomi provare un improvviso, intenso calore.
Chi sei davvero, Alejandro? Mi sembra di conoscerti da sempre, eppure di te non so niente ".
La strana coppia in una versione ancora più strana. Almeno secondo la sottoscritta.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Capricorn Shura, Leo Aiolia, Scorpion Milo, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il senso di colpa perdura ancora, malgrado Ale mi abbia assicurato che va tutto bene.
Dopo essere uscito l’altro giorno, alle due, credevo fosse andato a lavoro. E invece no: con molta noncuranza, si è lasciato sfuggire che Diego, vista la sfacchinata che si era fatto il giorno prima, glielo aveva dato libero.
Ed è tornato alle dieci. Davvero. E’ stato fuori casa dalle due alle dieci di sera, senza peraltro che abbia avuto il coraggio di domandargli come mai, invece di mettersi a letto per riposare come Dio comanda. Di certo non era in Università, seppure ci è andato non è pensabile si sia trattenuto fino a quell’ora, anche perché chiude molto, molto prima. Difficile immaginare anche sia andato da Dite e Angelo.  
E un sacco di quesiti hanno cominciato ad affacciarsi alla mia mente.
Adesso. Soltanto adesso, ho iniziato a chiedermi se non abbia una relazione. Il che renderebbe quanto mai fuori luogo tutti gli infiniti viaggi mentali che ho fatto da quando l’ho conosciuto.
Certo, Magnus l’ha accusato di non sapersi tenere nessuno, però non è detto che siano a conoscenza di ogni dettaglio della sua vita. Tanto più vedendo come sono andate le cose con me.
Magari è una cosa che è iniziata da poco, forse solo una frequentazione, ancora.
Mi sono sfondato il cervello, nel tentare di ricordare qualcosa, qualsiasi cosa, della conversazione con i suoi amici. Ma nulla, dopo              quei vaghi sprazzi nella mia testa si è fatto il vuoto, il nulla esistenziale. Per giunta mi sono perso il numero di Magnus.
E chiederlo ad Alejandro non mi pare proprio opportuno.
Quindi in definitiva è una gran bella situazione del cavolo. E mi ci sono messo io, di mio.
Devo ancora chiamare Milo, ma non sono in quella che si dice una forma smagliante. I postumi della sbronza si sono convertiti in due brutti cerchi viola brunito sotto gli occhi, e in un leggero ma persistente mal di stomaco, che s’intensifica quando fumo o bevo caffè.
Ergo, sto evitando anche questo.
In realtà sto evitando un sacco di cose.
E forse è anche questo parte del problema. Il fatto che sono le due – di nuovo, questo numero comincia a perseguitarmi – e ancora mi volto e mi rivolto tra le lenzuola, senza trovare pace.
Caldo. Fa un caldo bestiale, stanotte.
Mi tiro su dal letto per trascinarmi in cucina, a bere. Apro il frigo, prendo una bottiglia, volto uno dei bicchieri sul lavello e lo riempio.
Sembra di essere in agosto, altro che febbraio. Non riesco bene a capire se sono io che rischio l’autocombustione oppure è il riscaldamento globale che ci sta fottendo giorno dopo giorno.
Forse è solo che sono nervoso. Domani – anzi oggi, visto che sono le due e cinque, appunto- dovrei … “iniziare” da Diego. Chiaro che non è la mia prima esperienza lavorativa: ma un conto è occuparsi della contabilità dell’azienda di famiglia, così, come cade, giusto per sport che tanto c’è chi ripassa dietro, e un altro è mettersi in gioco in un ambiente estraneo, interagire con perfetti sconosciuti e dover dar prova di essere bravi … soprattutto perché a raccomandarmi è stato Ale, e il solo pensiero di fargli fare brutta figura col suo boss basterebbe da solo a mandarmi in malora più di una notte di sonno.
Specialmente dopo quello che è successo l’altra sera. Come al solito, ho continuato a comportarsi con me come se nulla fosse, tuttavia sentivo dal suo sguardo che quel brillio si era un po’ opacato.
Così ora devo rimediare, a qualunque costo.
L’ansia da prestazione è davvero una brutta rogna. Oltre all’insonnia mi fa venire fame, sete, voglia di fumare … e sì, paradossalmente, anche di fare sesso.
Peccato che per quest’ultimo punto non ci sia niente da fare.
Mi passo le mani sulla faccia. Forse dovrei allentare un attimo la tensione come ai bei vecchi tempi da adolescente. Mi assalgono ricordi – vergognosi- di me che mi rinchiudevo nel bagno e aprivo l’acqua nella doccia per non destare sospetti. Ma quando uscivo dal bagno incrociavo puntualmente o mio fratello, che ridacchiava grattandosi la guancia, o mamma che mi scagliava un’occhiata torva e borbottava tra sé di bollette da salasso e di prenotarmi una visita dall’oculista.
Già. Bei vecchi tempi.
Ma qualcosa mi frena, e no, non si tratta certo del timore di ritrovarmi miope da un giorno all’altro. E’ una sensazione strana, inspiegabile, che mi mette angoscia anche se non so esattamente perché. Mi parrebbe di attraversare una qualche linea di confine che invece è meglio se resta invalicata.
Così, decido di optare per un rimedio assai più innocuo. Accendo la lucina sottocappa e apro il pensile, frugando negli infusi di Ale. Mi ha già detto di servirmi pure, in caso di necessità, quindi non mi creo problemi a prendere una bustina di tisana al biancospino. Conciliasonno, dice la confezione.
Sarebbe divertente dire che per come sono ridotto servirebbero di più una bella sbronza, o almeno una canna; ma siccome ci ho già provato, e piuttosto che aiutarmi hanno gettato un’altra palata di letame sul casino che ho in testa, penso che ormai non mi resti più che darmi a questo genere di cose.
Male non può farmi. Quanto meno, non più di quanto me ne sia già fatto da solo fin qui.
Prendo il bollitore dal ripiano, accendo la fiammella e dopo averlo riempito d’acqua, lo poso con cautela.
Ma forse non sono stato abbastanza attento, perché la porta della camera di Ale si apre e appare lui sulla soglia, mezzo addormentato. << Oh. Che succede? >>, mugugna, la voce roca, impastata di sonno.
<< Ehi >>. Metto la zuccheriera sul tavolo, mentre viene avanti. << Nulla. Non … riuscivo a dormire. Mi spiace di averti svegliato >>.
<< Ma no, figurati. Neanch’io … dormivo granchè bene >>. Si ferma in mezzo alla cucina, stropicciandosi gli occhi sotto le lenti.
Cazzo, ma ci dorme anche, con quegli occhiali?  A vederlo portarli sempre verrebbe facile fare una battuta, e domandarsi quante diottrie si sia lasciato dietro durante la sua, di adolescenza.
Ma non è proprio consigliabile. Tanto più che mi sto ancora ripromettendo di non fare più ipotesi malevole, su di lui. << Mi stavo facendo una tisana. Ne vuoi? >>.
<< Ma sì, grazie. Anche se non credo sia proprio la scelta più indicata >>. Passa una mano dietro la nuca, soffiando fuori il fiato. << Fa caldo, stanotte >>.
<< Già. Un caldo boia >>. Controllo l’acqua nel bollitore, e alzo la temperatura. Meno male che almeno con le cucine ad induzione ci capisco qualcosa.
Pazienza se poi tutto il resto va a donne di malaffare. << E’ colpa del vento >>.
<< Vento? >>, fa lui, sardonico. Ha ragione: non si muove una foglia. Tutto sembra imbalsamato, oltre i vetri.
Scuoto la testa. << Il vento del sud. C’è più acqua che aria, e tutto si attacca alla pelle >>, osservo, notando l’ alone più scuro intorno allo scollo della sua maglia. Come se non facesse fede il fatto che oltre a quella ha addosso solo i boxer.
Realizzo immediatamente ch’è la prima volta da quando abitiamo assieme che lo vedo senza pantaloni. E inevitabilmente – da bravo maschietto orgoglioso dei gioielli di famiglia- non riesco a distogliere abbastanza in fretta lo sguardo dal rigonfiamento sotto il cotone grigio chiaro.
Sarà il sonno, sarà il caldo, ma la lievissima fitta di lecita invidia che dovrebbe cogliermi a questo punto si trasforma in una domanda insidiosa. Rammentando il video che non ho più trovato il coraggio di terminare di guardare, non posso fare a meno di domandarmi se lui … sia attivo o passivo.
E nel secondo caso … be’, sarebbe davvero un peccato. Per lui, chiaro, intendo.
In un attimo mi sovviene il ricordo, tremendo a mente fredda, della domanda che gli ho fatto quel pomeriggio. E subito il mio stomaco si rimescola, facendomi provare qualcosa di strano, una sensazione inspiegabile, confusa, di … vorrei poter capire a cosa somigli, ma in realtà non so nemmeno io cosa sia in realtà. << Sta bollendo >>, sento che dice la voce di Ale.
Per un attimo resto basito. << Eh? >>.
<< L’acqua. Sta bollendo >>.
<< Ah, sì >>. Mi volto, un po’ troppo bruscamente. Il bollitore sul fornello cade, e come da copione, il liquido rovente si versa finendo sul retro della gamba, ustionandomi. << Porca … puttana! >>.
<< Leo! >>.  
Per un attimo mi aspetto che mi sgridi, o che si metta a ridere. Poi mi do del coglione: non è mica uno dei miei amici idioti. Tipo Milo, ad esempio. << Stai bene? >>.
<< Eh … insomma >>.
<< Aspetta. Vieni, ti accompagno sul divano >>.
Sembra che mi abbiano scorticato vivo. Cerco di reprimere eroicamente i miei patetici lamenti, ma quando torna con un sacchetto pieno di cubetti di ghiaccio, e me lo posa sul punto dolorante, a momenti salto dal divano lanciando un urlo che probabilmente sveglierebbe anche i miei, in Grecia. << Sta’ calmo. Ora vediamo quant’è grave … >>. Molla il malloppo sulla coscia e va ad accendere la luce. Io affondo la faccia nel cuscino, mordendolo e imprecando a mezza voce. << Non sembra ... ci sia nulla di davvero preoccupante >>, mormora, tamponando la pelle ipersensibile con l’impacco. << Però è comunque una brutta scottatura. Dovrei portarti in ospedale >>.
Appena sento la parola “ospedale” mi prende il panico. << No, no >>, mugugno attraverso l’imbottitura.
<< Alexandròs, non fare il bambino. E’ meglio che ti diano un’occhiata, per stare tranquilli. Tra un po’ lì sarai tutta una vescica, e io non ho nulla in casa per queste evenienze >>. Mi viene vicino, abbassandosi fino ad avermi a portata di sguardo. E sento le sue iridi addosso, ferme ma carezzevoli. << Vado a vestirmi. Tu non ti muovere, va bene? >>.
<< E dove diamine vuoi che vada? >>, strillo, davvero come un bambino.
<< Non saprei. Ma vista la tua reazione alla parola “ospedale”, magari potresti decidere di scappare dalla scala antincendio, zoppicando via nella notte >>.
<< Spiritoso >>. Malgrado il dolore simile a quello di migliaia di aghi incandescenti conficcati nella carne, sorrido. E’ un nuovo sprazzo di leggerezza, quello che gli sento nella voce. E non posso lasciarlo passare sotto silenzio, anche se sto letteralmente crepando.
<< Ci metto un secondo >>. Mentre va in camera, realizzo anche che mi ha chiamato col mio nome intero. E curioso ma vero, mi rendo conto che … è più intimo di quando usa il diminutivo, o il mio soprannome.
Ma non ho il tempo di crogiolarmi in questi pensieri. Fulmineo, torna in cucina vestito di tutto punto, con un paio di pantaloni della tuta asciutti e una felpa sul braccio. << Ti aiuto. Riesci a sederti? >>.
<< Certo, è solo un … >>. Il concerto di fitte che s’irradiano dalla coscia mi spezza le parole in bocca. Mastico una bestemmia tra i denti, e subito vengo tirato su come la mia valigia, tanto per cambiare. Con un solo braccio passato sotto le ascelle.
Ho la sensazione dei tendini tesi come funi d’acciaio, contro il petto. << Reggiti a me >>.
E’ una situazione strana. L’altra volta è stato un caso, finirgli addosso; adesso lo cerco volontariamente, mi aggrappo a lui con fiducia dacché si è offerto di aiutarmi, e quindi so che posso farlo senza temere una ritirata.
Mentre mi tiene su, aiutandomi a vestirmi, riesco a sentire un’altra matrioska ancora, che sta nel mezzo tra l’audace e il fragile. E’ un Alejandro che non esita a prendersi cura degli altri, che si lascia da parte per occuparsi di chi ha bisogno di lui.
E siamo a quattro. Nella mia stupida testa, ovviamente. Forse è soltanto ch’è un ragazzo gentile che fa quello che farebbe chiunque altro al posto suo, come scherzare se c’è da scherzare, comportarsi bene se c’è da mostrarsi ineccepibili, e che tira fuori raramente la sua vulnerabilità per ovvie ragioni. Non ci si comporta in chiesa come in una discoteca, a meno che non si sia fuori di testa. Ci si adatta alle situazioni, e amen.
Come me. E un buon 97 per cento della popolazione mondiale, suppongo.
Però non riesco a liberarmi di quest’impressione.
E pensare che le matrioske non mi sono mai piaciute.
Il pronto soccorso è gremito, sembra che mezza città abbia deciso di dedicarsi ad attività di autolesionismo, stanotte.
La sedia mi brucia sotto le chiappe, e non è solo perché ho una gamba rosolata dal sedere al polpaccio. Sono preoccupato per lui, impassibile accanto a me, comodo nella sedia di plastica come su un letto di chiodi da fachiro.
Dovrebbe essere a casa, nel suo letto, a dormire beatamente dopo una giornata faticosa in attesa del trillo della sveglia, non a fare da palo ad uno scemo che non è in grado di farsi una tisana senza far danni.
Alzo gli occhi verso l’orologio appeso alla parete. Le tre e quarto. E trenta. E cinquanta. E ancora niente. << Ale, vai a casa >>, lo sprono per la quinta volta in mezz’ora.
Mi scocca un’occhiata torva, da dietro le lenti. << Se lo dici ancora, ti prendo a calci dove ti brucia >>, minaccia.
<< Dai, almeno dormi qualche ora. Magari puoi fare un salto quando esci da casa … sicuro mi trovi ancora qua >>, provo a scherzare.
Ma lui non abbocca. Come se non avessi detto nulla.
Poi, però, si alza in piedi. << Vado a prenderti una bottiglia d’acqua. Ti va un caffè? >>, mi domanda.
So che sto evitando, ma dato che ormai penso di non poter star peggio di così in quanto a bruciore, annuisco. << Sì, grazie >>.
<< Vuoi che ci soffio dentro mentre te lo porto, così si fredda? >>.
Lì per lì resto di sasso. Ha … era una battuta?
Sì. Mi sa proprio di sì, non me lo sono sognato. Era proprio una battuta.
Anche se mi viene da sorridere arriccio il naso in una smorfia. Siamo in mezzo alla gente, altrimenti gli mostrerei il medio.
Finalmente lo sento di nuovo vicino. Fa niente se ho dovuto mezzo cuocermi la coscia.
Sta per avviarsi quando arriva il mio turno. << Diamantis? >>.
La dottoressa, manco a dirlo, è giovane e bella. E quando mi vede zoppicare, sorretto da Ale, i suoi occhi scuri hanno un lieve guizzo, dietro le lenti da vista.
Penso di non aver incontrato in vita mia tante gente con gli occhiali messa assieme. Forse con la poca luce che tira qui, la vista gli si abbassa per forza.
<< Salve >>, dice, scostandosi dalla soglia per lasciarci entrare nella saletta dell’ambulatorio. << Allora, che è successo? >>.
<< Incidente di percorso >>, spiega Ale, posandomi giù sul lettino, dalla parte della gamba superstite. << Si è tirato sulla gamba un bollitore pieno d’acqua rovente >>.
<< Ahio. Okay. Vediamo un po’ >>. Mi viene accanto, ma prima di dar inizio alla visita si volge verso Ale.  << Lei … è un parente? >>.
<< No, solo il suo coinquilino >>, risponde. Ha un tono neutro, quasi ci tenga a chiarirlo che siamo soltanto, per l’appunto, coinquilini.
Mi sento stranamente infastidito. Ma non capisco perché.  
<< Be’, quindi, forse dovrebbe attendere di là >>, riprende la dottoressa.
<< Naturalmente >>. Torna oltre il paravento, lasciandoci soli, io, lei, e il fastidio.  
Sensazione prontamente spazzata via dall’imbarazzo. << Ce la fa ad abbassarsi i calzoni? O … preferisce che le dia una mano io? >>, domanda, e mi pare di cogliere un certo tono spiritoso, nel suo tono.
Ma certo me lo sto immaginando.
Stringendo i denti riesco a sfilarli quanto basta, fino alle ginocchia. Grazie al cielo sono abbastanza domato dal dolore, che sennò qui scoppiava un putiferio, tra le mie cosce.
Che situazione del cavolo. << Ahi. Brutta faccenda. Ma è stato fortunato, è più doloroso, che dannoso >>, osserva lei. << Ora la medico, e le do un antidolorifico. Non ha problemi con gli aghi, vero? >>.
Veramente sì, le iniezioni non mi sono mai piaciute granché.
Sento lo schiocco dei guanti di lattice, e si avvicina al carrello d’acciaio, preparando l’occorrente. << Posso chiederle com’è successo? >>.
<< Mi stavo preparando una tisana, e ho urtato accidentalmente il bricco. Sono piuttosto maldestro, in realtà >>, dico. Non è del tutto vero, cioè, non che non sia maldestro, ma che l’abbia fatto per questo motivo.
Ma non posso certo spiegarle che stavo riflettendo su quanto il mio coinquilino … mi susciti pensieri strani, confusi, e riesca a seminarmi tanti di quei dubbi in testa, che mi sa converrebbe farmi tenere qui, nel reparto psichiatrico.
Perché, ad esempio, mi disturba tanto il fatto che giochi con me a rimpiattino, ad esempio? I momenti in cui riesco a sentirlo più vicino vengono sempre spezzati da attimi in cui si allontana di scatto, come poco fa.
E’ un gioco malsano, lo sento.
Ma non riesco a farne a meno.
E non me ne riesco a spiegare la ragione.
Ma il motivo per cui mi stia concentrando tanto su questo fatto mi diventa chiarissimo appena avverto le dita inguantate della ragazza sulla mia coscia. Giusto per tornare al tema di prima, avrei fatto meglio a cercare un po’ di sollievo, perché mi rendo spaventosamente conto di quanto sia davvero giovane, e carina, e tutt’altro che maldestra, lei.
Anzi. E neppure il fatto che sia pura pratica professionale, o che la mia gamba sembri una costoletta d’agnello funzionerebbe da deterrente, se perdessi per qualche secondo il controllo sulle mie reazioni.
Tipo, adesso che mi tira giù leggermente l’elastico dei boxer per disinfettare la pelle.
Pensa. Pensa, Leo, pensa.
Il pizzicore dell’ago mi fa irrigidire per un secondo, ma è proprio un bene.
Finalmente, se Dio vuole, la tortura finisce. Getta tutto nel raccoglitore dei rifiuti a rischio biologico, guanti compresi, e sciacqua le mani nel piccolo lavello. << Okay, ecco fatto. Adesso se non le spiace, le do da compilare il verbale, mentre le prescrivo una pomata. Deve applicarla due volte al giorno, finché la zona non risana. Non penso ci vorrà più d’una settimana, se si comporta bene >>.
<< D’accordo >>. Mi rimetto in piedi, e tiro su i pantaloni zoppicando fino alla scrivania. Mi mette davanti un modulo simile a quello che ho compilato all’accettazione, e una penna.
Ora che ci penso, mentre lo facevo prima Ale si è allontanato. Come se non avesse voluto … impicciarsi degli affari miei, anche se si trattava soltanto di dati anagrafici e nulla più.
Kali ouranos. Dovrei smetterla, sul serio. << Tenga. Devo avvisarla, domani sarà peggio di oggi >>. Mi allunga il foglio con la prescrizione, mentre riprende quello del verbale. << Stia attento con i bollitori, d’ora in poi >>, dice, sorridendo. << Buonanotte >>.
<< Grazie. E buonanotte a lei >>.
Una volta fuori, ritrovo Ale, che mi porge il caffè promesso. << Grazie >>.
<< Nulla. Allora, come va? >>.
<< Mhmm. Come se mi avessero passato a fuoco vivo, messo su l’intingolo, e punzecchiato per vede a che punto è la cottura >>, borbotto. << E domani sarà peggio di oggi, così ha detto >>.
Lui alza un angolo delle labbra. << Ho chiamato un altro taxi. Penso ci stia già aspettando fuori >>.
<< Okay. Quanto ti devo? >>.
Fa un cenno con la mano, come a spostare l’aria. << Ci pensiamo dopo. Andiamo, dai >>.
Arriviamo a casa che è ormai l’alba. Tra l’antidolorifico e la nottata in bianco mi sento mezzo rincoglionito, così mi lascio accompagnare a letto senza fare troppe storie.
<< Questo … dovrebbe risolvere definitivamente la questione >>, mugugno. E’ una cazzata, ne sono consapevole nonostante non sia del tutto lucido.
Ma come si dice “in vino veritas”, credo valga anche “in inietionem veritas”. Solo che stavolta non ho alcuna intenzione di scordarmi quello che sto dicendo.
<< Cioè? >>.
<< Del fatto … che ti sembra di approfittarti di me. Dopo stanotte, potrai chiedermi tutto quello che vorrai. Sarò il tuo maggiordomo- barra- scendiletto-barra- servitore personale. O meglio ancora, il tuo schiavo >>.
<< Certo, come no >>. Mi adagia con cautela sul materasso, coprendomi con il lenzuolo. Mi pare di cogliere di nuovo un brillio, nei suoi occhi. Forse è solo un riflesso delle lenti, eppure qualcosa dentro, anche se un po’ stonata, mi suggerisce che sì, è proprio così.
Resta per qualche istante accanto al letto, poi scuote la testa. << Dormi, rompiscatole >>, mormora. Si volta ed esce, e mi pare d’immaginarlo mentre stira quel suo mezzo sorriso sarcastico.  
Esausto, stordito, e soddisfatto anche se da qualche parte, malgrado l’unguento, brucia e pizzica leggermente.
Ma se è servito a farmi perdonare davvero il casino dell’altra sera, be’, allora, cavolo, ben venga.
 
Chiaramente il mio “debutto” da Diego è stato rinviato.
Costretto a rimanermene a letto, mi verrebbe quasi da ruggire e rompere qualcosa, se non fosse che non porterei vantaggi a nessuno, al contrario, farei solo danni.
Non mi sta bene, proprio no.
Da quando mi sono svegliato, circa un paio di ore fa, non ho fatto altro che leggere e tendere l’orecchio, pronto a captare il minimo scricchiolio. Non vedo l’ora che Ale torni, anche perché ho notato che manca la prescrizione della pomata che mi ha dato la dottoressa. C’è solo da scommettere che passerà anche in farmacia, oltre che a fare la spesa, ed occuparsi del pranzo, e del resto, finché sarò immobilizzato qui.
E’ uno strano miscuglio di irritazione e gratitudine. Se da un lato mi scalda il cuore, dall’altro mi indispettisce, perché se a lui pare di approfittarsi di me, senza chiedere, semplicemente lasciandomi fare le cose che viceversa finora ha fatto da solo, figurarsi come mi sento io, a dovergli anche essere di peso.
La cosa più brutta è che sono matematicamente certo che per lui non lo sia.
Ed è questo a mandarmi fuori di carreggiata. Che un estraneo, con cui peraltro devo muovermi con estrema cautela, come fossi in un negozio di cristallerie tipo quello su Regent Street, debba essere sempre così … disposto a beneficarmi, così, a gratis, senza aspettarsi alcun tornaconto, anzi quasi temendo che gli debba pure presentare la fattura se per sbaglio lo sollevo da qualcosa, anche se minima.
E’ un rapporto impari di dare e avere, e in economia questo può tradursi solo in un fallimento.
In amicizia suppongo anche. Uso il verbo “supporre” perché non mi dà modo di definirmi suo amico, stanotte è stato un conto, ma ho come il sospetto che tra poco, al suo ritorno, sarà un altro paio di maniche.
Mi piacerebbe parlare con qualcuno che lo conosce bene, farmi spiegare se si comporta con tutti così, se lo fa solo con le persone di cui non si fida granché, oppure che ha incontrato da poco tempo.
Senza accennare al mistero della stanza chiusa a chiave. Dorothy Sayers non avrebbe potuto scrivere un romanzo più avvincente di questo, mi sa.
Cerco di riportare il cervello sul libro posato in grembo, ma non mi riesce. Neanche un premio Nobel come Murakami a mio parere potrebbe trovare una soluzione a questo mistero. E sì che di roba ispirata ne ha scritta, lui.
Il tintinnio della chiave nella porta mette in pausa i pensieri, per concentrarli sull’istante presente. Ormai è diventata quasi una scommessa: “come si comporterà adesso, con me?”.
<< Leo? >>. Impossibile dirlo dal tono. E’ tranquillo.
<< Sì, sono qui >>.
Sento il rumore del battente che si chiude, un fruscio di qualcosa che potrebbe essere un sacchetto e il lievissimo tonfo di questo, posato sul tavolo.
Stamattina non ci siamo visti affatto, dormivo ancora quand’è andato via. Non so nemmeno se lui lo abbia fatto, o se dopo una doccia sia andato direttamente a lavoro.
E’ orribile da dire, ma gli sta bene. Così impara a star fuori di casa dieci ore senza avvisare, e senza accennare minimamente a dove sia stato, a cosa abbia fatto.
Poi per un attimo ho voglia di dar con la testa contro la spalliera del letto. ma a parte il fatto che non pare granchè solida, quindi è facile che la romperei, appunto, non ci tengo a tornare di nuovo al pronto soccorso nel giro di dodici ore.
E “non-dar-fastidio” ad Ale, per giunta. Dio, neanche il codice Morse, cò sto ragazzo.
E io non sono mai stato nemmeno capace d’imparare l’alfabeto farfallino per intercettare i messaggi che le ragazze della classe mia e di Milo si scambiavano alle nostre spalle. E che spesso parlavano di noi, manco a dirlo.
Si affaccia, e anche se la porta è aperta – aperta, a-per-ta, sempre- batte comunque un lieve colpo con le nocche nell’architrave. Forse per richiamare la mia attenzione, abilmente mascherata con il libro che “non-leggendo”. << Ehi. Buongiorno. Come ti senti? >>, chiede, appoggiandosi con una spalla dove ha messo la mano. Nell’altra stringe un sacchetto di plastica, piccolo.
Ha un’aria strana, oggi. Non so se dipende dalla nottata, o dalla mattinata, ma per la prima volta colgo sul suo viso i segni di una certa trasandatezza. L’ombra ricrescente sulla mascella spicca sul pallore persino più pronunciato della pelle, sotto la montatura si notano due leggeri solchi lividi, non scuri come accade a me, e gli occhi paiono gonfi, dietro le lenti. E i capelli sempre impeccabili paiono un tantino spettinati, come se li avesse strigliati alla buona con un telo prima che asciugassero.
O come se delle dita li avessero tirati, maltrattati durante un focoso amplesso.
No, proprio non ce la faccio. Più provo ad impegnarmi e meno ci riesco. Una costante della mia vita, d’altronde, no? << Bene. Sto per alzarmi e mettermi a correre >>.
<< Non ci provare >>, fa, torvo. Poi rimette su la piega tranquilla. << Ti ho preso la pomata >>, dice.
<< Grazie. Quanto ti devo? Assieme ai soldi di ieri, intendo >>.
<< Cinquantasette sterline >>.
<< Ti spiacerebbe prendermi il portafogli? E’ nella tasca dei jeans, quelli piegati sulla sedia >>.
Scosta l’aria con la mano. E siamo a tre, di compulsioni. << Me li darai quando starai meglio >>.
Inarco un sopracciglio. Non so se è semplice carineria, e già mi indisporrebbe un tantino, o se è per evitare di mettere le mani nei miei vestiti usati, manco avessi la lebbra, e in tal mi indisporrei ancora di più.
Ma subito mi si sgonfia l’irritazione, perché di sicuro non sta minimamente pensando quello che mi sto raffigurando io. E’ qualcosa di educato, e gentile, che al confronto io sembrerei una bestia, se ci arrivassi a saperlo.
Trattengo un ringhio di esasperazione rassegnata.
E’ lui che mi sta facendo diventare bipolare. L’unica cosa su cui non nutro dubbi al suo riguardo. << Ma posso chiederti quanto ti paga, il tuo capo? No perché se puoi permetterti di anticipare cinquantasette sterline senza batter ciglio, non vedo l’ora di cominciare anch’io >>, sbotto, voltando pagina con malagrazia. Murakami non sarebbe contento di questo. Non so perché ma dalla faccia mi pare un tantino come Ale, chissà perché.
Non che gli somigli. Anzi, forse un pochino sì. Anche lui ha i capelli corvini, e gli occhi di un taglio insolito, allungato; ma certo, questo è giapponese, è chiaro che ha le iridi nere e gli occhi a mandorla. Però c’ha pure settant’anni, e un’aria un po’ da saputello, e il colorito vagamente itterico … cioè, non che lo sia, come ho detto è giapponese, per cui è ovvio che abbia quella carnagione. Non che io abbia nulla contro nessuno, anzi, le orientali mi hanno sempre ispirato, non è mai capitata occasione sennò magari avrei fatto conoscenza più intima con i popoli del Sol Levante.
Okay, sto delirando, e me ne rendo pure conto.
Vorrei dare la colpa al vino, alla birra, alla vodka, all’erba, all’antidolorifico, alla nottata insonne e al fastidio alla gamba, ma nemmeno questo mi riesce.
Mi assale l’immagine di mamma che versa le gocce nel bicchiere.
Mi sa che io finirò anche peggio. << A proposito, com’è andata oggi? Visto che ho dato forfait … >>, mugugno, sperando di non aver lasciato trapelare nulla del mio attimo di sconcerto mentale.
Ale alza le spalle. << In realtà è stato un bene che tu non sia venuto. C’è stato un vero delirio, non esattamente la giornata adatta per uno alle prime armi >>. Lo dice per rincuorarmi, è evidente, eppure mi sento doppiamente, anzi, triplamente in colpa. Non solo sarei stato un principiante, e quindi la mia presenza non sarebbe stata un aiuto ma un intralcio, probabilmente; ma gli ho anche dato il bidone e per giunta, ha dovuto sobbarcarsi tutto quel lavoro dopo una nottata trascorsa accanto all’idiota capace di bollirsi vivo perché gli viene di fare pensieri assurdi mentre è a due millimetri da un bricco di acqua rovente.
Sì, ora ne ho la conferma. Sono diventato bipolare. Evviva.
<< Scusa se ti ho portato il pranzo dal bar >>, aggiunge. Giusto per darmi il colpo di grazia.
Ah ma questa non me la tengo. << Parli sul serio? No, perché se è così sappi che sto per restituirti il favore >>.
<< Che intendi? >>.
<< Che ti accompagnerò io al pronto soccorso, dopo averti rotto in testa almeno un paio di cose. Cose mooolto pesanti >>.
Lui abbozza un sorriso, ma è un sorriso stanco. << Dai, voltati. Così la mettiamo adesso, prima che mi addormenti in mezzo alla stanza >>.
E di sicuro è colpa della stanchezza, ma ha messo un piede in fallo.
Ora come ora non me ne frega nulla. Se si arrabbia, cavoli suoi. Mi ha offerto il destro, e non posso proprio, tirarmi indietro. << Eh, ma così? Senza neppure un invito a cena? Credevo fossi un gentiluomo >>, sentenzio, chiudendo il libro.
Lui mi fissa attonito per qualche secondo. Si mette a ridacchiare, prima di estrarre il tubetto dalla busta, avvicinarsi al letto e scostare la trapunta. << Non ti ci mando solo perché non stai bene. Avanti >>.
Poso il libro, girandomi sulla pancia e tirando un po’ su il bacino per permettergli di sfilarmi i pantaloni.
D’un tratto sono un po’ teso. So per esperienza quanto sia fastidioso farsi tirar via un cerotto dopo che si è appiccicato ben bene alla pelle e soprattutto alla peluria.
Ma la delicatezza con cui ne stacca i lembi mi fa tirare un sospiro di sollievo. Per contro, gli sento risucchiare l’aria tra i denti. Un verso che mi mette un’insolita agitazione. << Siamo messi male. La dottoressa aveva ragione. Oggi sta peggio >>.
<< E’ proprio così orrendo? >>.
<< Oh, sì. Sembra che abbia un blob appiccicato alla gamba >>.
<< Un blob? Che diavolo è un blob? >>.
<< Non sai cos’è un blob? >>.
<< Ma sì che lo so. Solo ho difficoltà ad immaginarne uno abbarbicato alla mia coscia >>. Sbuffo. << Non sei obbligato, Ale. Posso fare da solo >>.
E’ chiaro. Se gli ha già fatto impressione frugare nei miei jeans di un giorno, posso soltanto figurarmi come debba sorridergli poco l’idea di toccare qualcosa che sembra, per l’appunto, un blob.
Tant’è che esita. E non poco, in realtà. << Guarda che ti metti i guanti mica mi offendo >>.
<< Ma sta’ zitto >>. Un attimo dopo avverto un fresco intenso, che immediatamente diventa bruciore, di nuovo. << Fa male? >>, chiede, forse accorgendosi che mi sono irrigidito senza volerlo.
<< N .. no. Continua pure, tranquillo >>. Perché in realtà non mi sta facendo male, è soltanto a causa della vescica immonda che di certo dev’essersi formata che avverto questo fastidio.
Mi sento a disagio. Perché dovrei sentirmi almeno un po’ sulle spine, ad avere addosso le sue mani che scivolano con cautela sulla mia pelle, specialmente in una zona tanto sensibile.
Fosse stata Shaina, probabilmente scottatura o non scottatura l’avrei già messa sotto, stringendo i denti e soffrendo in silenzio, da vero eroe.
O per come stanno le cose, ed è brutto dirlo, anche un’altra credo mi avrebbe fatto lo stesso effetto; anche se è chiaro che avrei resistito, per lealtà nei confronti della mia ragazza. Basti guardare cosa ho dovuto fare stanotte, con la dottoressa al pronto soccorso.
E invece non provo nulla, a parte un leggero fastidio causato dalla scottatura, che pizzica al minimo sfregamento.
Nulla di disdicevole. E Ale ha un tocco lieve che mi fa quasi fare le fusa. << Sicuro che non ti faccio male? >>.
<< Ma no, davvero. Non smettere >>.
Passato il primo impatto del medicinale, diventa quasi un sollievo. Tant’è che mi rilasso molto più del lecito, col volto affondato tra le braccia incrociate; così è un bene che d’un tratto prema con più energia facendomi sussultare. << Ah! >>. Sull’orlo del pianto di pura frustrazione ridacchio: << Guarda che se volevi una risposta diversa, bastava suggerirmelo >>.
<< Scusa. Ho perso l’equilibrio >>, si giustifica, posando il ginocchio sul letto. << Praticamente mi sto reggendo in piedi per forza d’inerzia >>.
<< Se non ti conoscessi, direi piuttosto che ti sei stufato di star lì a sfregarmi come fossi uno dei tuoi bicchieri e volevi farla finire in fretta >>, dico, sforzandomi di non farlo sentire in colpa quanto mi sento io, a tenerlo ancora alzato.
<< Ma guarda. Che cattivi pensieri che abbiamo >>, mormora, riprendendo a massaggiarmi con estrema cautela.
Chissà se ha preso lezioni da Magnus. << Ho detto se non ti conoscessi. E siccome ti conosco molto poco, credo sia la verità >>, sputo fuori, sapendo di segnare un punto a mio vantaggio.
Il materasso si alleggerisce dal suo peso, e giro d’impulso la testa, per guardare la sua reazione alla mia stoccata. << Ora non voltarti, aspetta che si assorba per qualche minuto. Vado a lavarmi le mani, così poi ti porto il pranzo e ti rifaccio il bendaggio >>.
<< Ma non serve … >>, borbotto facendo per tirarmi su.
Con la mano asciutta mi preme in mezzo alle scapole. Con forza.
<< Non. Muoverti >>, m’intima, il tono fattosi di colpo secco. Poi si ammorbidisce di nuovo. << O sarò costretto a romperti io in testa qualcosa >>.
<< Okay >>. Sento i suoi passi muoversi fino alla porta. << Ah, Ale? >>.
<< Sì? >>. E’ un sospiro sfinito. Pare non veda davvero l’ora di andare a letto, e io gli sto facendo pure perdere tempo, con le mie scemenze.
<< Per caso … hai parenti giapponesi? >>, domando, a cavolo, improvvisandomi gufo e girando la testa a quasi centottanta gradi, per guardarlo.
Scopro che mi fissa come se stessi dando i numeri. E ha ragione, poveretto. << Non che mi risulti. Come mai questa domanda? >>, chiede a sua volta, tirando su gli occhiali con la mano pulita.
<< Mah. Così >>.
Scuote la testa.
Quando torna a portarmi il pranzo si è cambiato, e i suoi capelli sono molto più ordinati, ancora umidi e ancora più lucenti.
Anche il suo viso sembra più rilassato. Eppure non è stato via più di dieci minuti, forse un quarto d’ora.  << Scusami, giacché c’ero ho fatto la doccia. Non stai morendo di fame, vero, Leo? >>.
<< Ma no. Se così fosse, ti avrei azzannato prima >>, ghigno.
Alza gli occhi al soffitto. << Dubito ti sarei stato utile come pranzo >>.
<< Quando è fame va bene tutto >>, replico, aprendo il sacchetto. L’odore dentro è celestiale, e si risveglia in me l’appetito di qualche giorno fa.
Ma subito mi sorge anche un dubbio. << Ma tu hai mangiato? >>.
<< Sì, la ragazza di Diego ha portato una teglia di lasagne vegetariane, al bar. Ce n’è una porzione anche per te, l’ho messa a scaldare dentro il microonde. Ora te la porto >>.
<< La ragazza di Diego? >>.
<< Sì. Veramente lo fa sempre, quando qualcuno nuovo inizia da loro >>, dice. << Ho detto a Diego di avvertirla, ma lui ha replicato che tanto ormai stava cucinando, quindi tanto valeva approfittarne >>. Alza le spalle, e io sento il groppo in gola.
<< E … qui dentro cosa c’è? >>.
<< Il benvenuto di Eduardo. Che è diventato un augurio di pronta guarigione >>.
Infilo dentro una mano. Incartato nella stagnola, trovo un piccolo, delizioso fagottino avvolto in foglie verde scuro dall’odore intenso e dolce.
Ntolmàdes. Involtini di riso e uva passa. Come li faceva mia nonna. << Immagino mi sia sfuggito che sei greco >>, lascia cadere lui, in tono lieve come il suo tocco.
<< Ci tenevate davvero tanto, eh? >>, biascico, sperando di non mettermi a piangere come un idiota.
<< Ehi, mica è morto nessuno. Qualche giorno, e avrai tutto il tempo di maledire il momento in cui ti è venuto in mente di accettare >>. Lo vedo stirare mezzo sorriso. << Vado a vedere se è pronta la lasagna >>.
Mi lascia di nuovo solo, giusto il tempo per asciugarmi furtivamente la lacrima sfuggita nel battere della palpebra.
Comincio a capire perché mi senta così … maldisposto. Non sono abituato a tante attenzioni gratuite, benché le abbia sempre desiderate follemente, al punto da ficcarmi in casini assurdi.
E riceverle adesso, da queste persone che quasi non conosco, mi fa paura. Perché temo di abituarmici, o di deluderle, come ho già fatto con Ale sbronzandomi e fumando.
E’ strano come ottenere ciò a cui si anela può riempirci di confusione.
Ale torna, posa il piatto sulla mensola. Avvicina la sedia dello scrittoio al bordo del letto, ci stende su uno strofinaccio pulito. << Giuro che prima o poi mi vendicherò. Mi stai facendo sentire un invalido >>, scherzo, guardandolo in volto.
<< Leo, ma tu sei un invalido. Dopo averti visto finire al tappeto per colpa di un semplice bollitore, non so se conviene farti venire a lavorare insieme a me. Magari è meglio che tu faccia domanda di pensione in previdenza sociale … >>.
<< Ma vaffanculo … >>. Ridacchiamo entrambi. << E comunque magari non sarò bravo come te a maneggiare un bollitore, ma posso assicurarti che nessuno ha mai avuto nulla da ridire >>.
Mi scocca un’occhiata obliqua, sono certo che ha capito il doppio senso non troppo sottile tra le righe.  
<< Buon per te >>, replica. Mi avvicina la bottiglia che è sulla mensola, posandola accanto al piatto.
Deve avermela lasciata stanotte. Sicuro. << Io vado di là, se non ti spiace vorrei metter su una lavatrice e piegare un po’ di cose, prima di andare a dormire >>. Abbassa la felpa sui pantaloni, passando le mani sulla tasca al centro. << Non è un problema per te pranzare da solo, vero? >>.
<< Dì la verità. Ti aspetti che ti supplichi d’imboccarmi, no? >>.
Stira l’angolo delle labbra. << Ma nemmeno per sogno. Le mani ti funzionano ancora bene, se non sbaglio >>.
<< Infatti. Ecco perché se non ti sbrighi ad andare a riposarti, smetterò di rivolgerti la parola >>.
Il sorriso sardonico si addolcisce. << Okay. Vuoi … che metta dentro anche quei jeans? >>.
<< Solo se togli il portafoglio >>, ribatto, affondando la forchetta nella sfoglia della lasagna.
Cavolo. Non sono mai stato un fan del vegetarianismo, ma questa è una favola. Con tanto di zucca. << E prendi i soldi >>, aggiungo, a bocca piena.
<< Va bene. Se proprio ci tieni >>.
<< Mi pare ovvio che ci tengo. Non ho alcuna intenzione di essere il tuo mantenuto >>. Ora come ora non so cosa sto farfugliando, tant’è squisita questa lasagna.
<< Aspetta un attimo >>, fa, avvicinandosi alla mensola. Prende la scatola della pomata, ne tira fuori il bugiardino.
<< Che è? >>.
<< Controllo se non ci siano antidolorifici anche qui. Stai decisamente sragionando >>.
<< Ringrazia che ho la gamba brasata, o ti prenderei a calci, altrimenti >>.
Il suo sguardo si fa affettuoso, dietro le lenti. E io per un attimo lascio anche di masticare come un ruminante, alla faccia del soprannome.
Poi si riscuote, prende i jeans e sfila il portafogli dalla tasca, senza però aprirlo. << Vado a caricare la lavatrice >>, dice, uscendo di nuovo.
Io finisco la lasagna, passando impunemente ai ntolmàdes. Nel sacchetto, inoltre, c’è un altro involto di stagnola, con dentro un loukoumadès, una specie di frittella ripiena di sciroppo.
Se avessi acceso una candela davanti a qualche altare, non penso avrei potuto ricevere grazia più grande. Un’accoglienza così, in una delle città più impersonali del mondo, dove non esiste nemmeno l’obbligo di soccorrere qualcuno che magari, è stato investito per strada. << Dici che reggi, fino a stasera? O vuoi che ti porti qualcos’altro? >>, commenta Ale, tornando.
Per fortuna ho spazzato via commozione e cibo. << Naaahhh. Penso che dormirò un po’, appena finisco. Tu invece ci vai adesso >>.
<< Dopo averti medicato >>.
Obbediente, mi giro di nuovo a pancia in giù, anche se adesso è un po’ più complicato visto che sono pieno come un uovo.
Non voglio farlo attendere un minuto di più.
E tanto ci vuole, perché sistemi i quadrati di garza sulle bolle, e ci applichi delle altre strisce di cerotto.
<< Vuoi … che ti rimetta i calzoni? >>, chiede.
<< No. Voglio che tu vada difilato a letto, immediatamente >>.
<< Cerca di stare sdraiato sul fianco >>, mi suggerisce, rimettendo tutto sulla mensola, e prendendo il piatto vuoto assieme al sacchetto. << Se ti serve qualcosa, chiamami. Sul cellulare. Fallo suonare a lungo >>.
<< Certo. Contaci >>. Neanche se mi stessi dissanguando.
<< Vuoi qualcos’altro, prima che vada? >>.
<< No, grazie, è tutto okay. Anzi, sì. Hai … presente quello che ti ho detto prima? >>.
<< Quale delle tante scemenze che hai sparato oggi, Leo? >>.
<< Che ... puoi chiedermi qualunque cosa. Dicevo sul serio. Davvero >>.
Mi punta addosso uno sguardo intelligibile. << Va bene. Me ne ricorderò. Ora … vado >>. Mette una mano davanti alla bocca, trattenendo uno sbadiglio. << Ci vediamo più tardi >>.
Se ne va, chiudendosi la porta alle spalle. E io mi risistemo sul guanciale, con un sospiro pago.
Non voglio pensare, sto troppo bene per farlo.
Meglio se dormo un po’.
   
 
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