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Autore: MadLucy    14/08/2018    1 recensioni
Ermione, figlia di Elena e Menelao, non partecipa direttamente a nessuna delle leggendarie vicende della guerra di Troia. Ma osserva. È testimone della vita che vivevano le mogli e figlie greche durante i dieci anni e gli anni dei nòstoi, assiste allo svolgersi della saga degli Atridi fino alla sua conclusione. La sua vita dipende sempre dalle azioni degli altri. L'abbandono da parte di sua madre, le strategie politiche della sua patria, il matrimonio con uomini sanguinari. Ma i suoi pensieri erano solo suoi, e mi sono permessa di dare loro voce.
"In fondo si assomigliavano tutti, i figli del dopoguerra. I cocci, i rimasugli degli eroi. Schiacciati dai loro nomi. Preceduti dalle leggende dei loro genitori.
Se il figlio di Achille faceva strage di nemici, perchè mai la figlia di Elena non avrebbe dovuto ammaliare, perchè il figlio di Odisseo non avrebbe dovuto sciogliere veleno nelle coppe?"
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Elettra cresceva segnata dalla sua preoccupazione. Fronte ampia, zigomi pronunciati. Aveva approfittato dell'incuria della madre e dell'assenza del padre per dedicarsi a passatempi altrimenti giudicati come balzani, istrursi di lettere, leggere, di leggende, genealogie mitiche. Eravate sorelle, ormai. Vi scambiavate i pensieri, i timori, le confidenze. Erano cose senza importanza. Fino a che durava la guerra, tutto era in stallo. Solo Oreste era in continuo mutamento. Era rimasto un maestro d'armi a palazzo, e Elettra gli ordinò di cominciare a istruirlo. Maneggiare una spada, parare i colpi. Rudimenti elementari. Lui assorbiva avido come un germoglio. Diceva: quando mio padre tornerà, sarà orgoglioso del figlio. Aveva imparato da Elettra il disprezzo per Egisto, che lo mal tollerava di rimando, e l'idolatria verso Agamennone. Non lo sapevi, ma tuo nonno Tindaro, quand'eri bambina, ti aveva promesso al primo figlio maschio che sarebbe nato da Clitemnestra. Il fanciullo che vedevi nel chiostro della reggia roteare il gladio era già destinato ad essere il tuo sposo. Lo amavi come una sorella, come lo amava Elettra. Temevi per lui come per tutti coloro che conoscevi. Temevi per tuo padre, persino per tua madre. Non amavi Elena di affetto propriamente filiale, ma non volevi che morisse. 
Crisotemi accompagnava per mano il piccolo Alete, per mostrargli le piante, dirne i nomi. Ormai era una fanciulla, il suo meccanismo di imitazione non era più giustificato dalla prima età. Aveva visto Egisto sedersi al tavolo al posto che era stato di suo padre e non aveva detto nulla. Mangiava con loro, accettava l'invasione. Quando la incrociava, Elettra la indicava, spietata. Guardala, Oreste. Lei è una traditrice del seme che l'ha messa al mondo, e sarebbe stato meglio che non ci venisse mai. Oreste assimilava, con i suoi occhi di ghiaccio, in silenzio. Crisotemi piangeva, le si aggrappava alla veste, cercava di portare la sorella maggiore dalla sua. Gli dei insegnano anche il rispetto della madre, e la nostra è una donna ferita da sventure troppo grandi. Elettra la calciava via, con disgusto. Non quando la madre manca di rispetto allo sposo per prima. Oreste ti chiedeva Ermione, perchè le madri sono donne cattive? Tu esitavi. Avresti potuto parlargli di come una donna fosse costretta a sposare uno sconosciuto più vecchio che la prendeva anche con la forza, o di quanto fosse impotente se il marito decideva di immolare sull'altare sua figlia abbigliata per le nozze. Di come le madri diventavano mostri, e di chi creava quei mostri. Invece gli stringevi la piccola mano bianca, con le vene lilla. Le madri sono mortali, e i mortali sono deboli. Oreste ti scrutava, con la sua schiettezza di bambino. Se tua madre è debole, perchè tuo padre non l'ha già riportata a casa? Tu immaginavi che con Paride ci avesse già bisticciato. Erano immaturi, e per condurre una lunga vita insieme ci voleva maturità. Immaginavi che a un certo punto sarebbe tornata all'accampamento del nemico, gettandosi ai piedi di Menelao, dicendo scusa, scusa, portami a casa. Ma quel momento non arrivava. 
Tu non sei cattiva, concesse infine Oreste, come verdetto definitivo, con un sorriso conciliante. Gli carezzasti una guancia, intenerita. Era il risultato dell'affetto che tu e Elettra gli avevate dato dal nulla, dal dolore di una guerra. Eppure era un bambino che conosceva l'amore. Quello che Menelao aveva dato a te, quello che Elettra aveva avuto dai genitori, prima che- prima. 
Intanto si accumulavano le storie delle nuove imprese che si vociferava avvenissero sulla baia dardania. I massacri di Diomede, Aiace Oileo e Aiace Telamonio, Palamede, e Achille. Ormai sapevi che la storia aveva bisogno solo di sfaccettature polite, come una pietra preziosa. C'erano le cose che non venivano raccontate. La leggenda non avrebbe annoverato Paride che piangeva come un bambino destato da un incubo perchè non voleva combattere per tenersi la donna che aveva rapito ad un re, i valorosi guerrieri greci che mentre si gloriavano delle proprie imprese stupravano figlie di sacerdoti più giovani delle loro stesse figlie, di Polidoro, figlio di Priamo, ucciso per l'oro dal re che aveva promesso alla madre Ecuba di tenerlo al sicuro. Non eri interessata a questo genere di tradizione, quella che nascondeva lo sporco sotto il tappeto, in cui dei due schieramenti non si faceva altro che millantare in una sfida a chi aveva la spada più scintillante. Non vi facevate più ammaliare dalla gloria. Quelle erano favole. Voi avevate bisogno di qualcosa di più concreto. Avevate bisogno che quei personaggi d'aria tornassero di carne e salpassero. Avevate bisogno che Troia cadesse. Era strano augurare tanto odio e sventura a una città che non avevi mai visto, che non aveva commesso nessun effettivo torto contro di te, la tua famiglia o il tuo popolo. Ma non aveva ripudiato Paride e le sue colpe. A volte bisogna sapere quando lasciar andare anche l'amore, pensavi, guardando Crisotemi che seguiva sua madre al tempio, gli occhi bassi. Altrimenti ci si rompe le mani.


~ • ~

Quel giorno te lo ricordi bene. Tu e Elettra filavate con delle ancelle, in gruppo come un gregge di agnelle, spalla a spalla, e Oreste aveva la testa in grembo a sua sorella. Ognuna raccontava una delle storie che aveva udito dagli aedi da bambina. Stava terminando la storia di Aracne e della sua presunzione, quando il messaggero arrivò senza fiato, senza voce, incredulo. La guerra è finita. Balzaste in piedi, pallide, all'improvviso impreparate a quello sconvolgimento. I greci avevano vinto, Troia continuava ancora a bruciare mentre voi stavate parlando. Agamennone, il re dei re, aveva piegato Priamo e la sua numerosa discendenza. Menelao era irrotto nelle stanze del palazzo in rovina e aveva trascinato fuori Elena per i lunghi capelli. Elettra piangeva, tu la stringevi, vi aggrappavate l'una all'altra. È finita, è finita. Vi sentivate come quei soldati, distrutte, imbambolate. Oreste saltava, si affacciava alla finestra, urlava tra le mani a coppa Troia è vinta, Troia è vinta, viva gli Atridi! E voi non lo sgridavate, lo imitavate. Volevate urlare anche voi. Volevate buttare fuori tutta l'angoscia, tutto l'orrore di quegli anni. Tutto il tedio. Elettra si tratteneva dallo scendere nelle stanze di Egisto e coprirlo di scherno. Ci penserà mio padre, sogghignava. Tu eri stordita e emozionata. Felice, anche, per lei. Dalle stanze di Clitemnestra, non una parola, non un suono. 
Si predispose la tua partenza. Menelao sarebbe arrivato direttamente a Sparta, e tu dovevi farti trovare lì. L'idea di rivedere tuo padre e Elena ti confondeva. Da una parte eri curiosa di scrutare in faccia i protagonisti di una storia che avevi solo sentito raccontare, dall'altra temevi di guardarli e non provare niente per loro. Vada per Elena, l'eterna assente. Ma Menelao. Era stato tuo padre, gli avevi voluto bene e lui ne aveva voluto a te. Dieci anni fa. Non eri più la stessa persona. Anzi, ora eri una persona in piena regola, mentre prima eri una ragazzina inconsapevole. La tua vera paura era che Menelao stesso non ti riconoscesse. Ti sfilasse davanti come di fronte ad una schiava, e dicesse dov'è Ermione, dov'è mia figlia? Non sapevi se avresti saputo accettarlo.
Da quando avevi scoperto della fine della guerra, non avevi neanche fatto in tempo, con tutti i pensieri che turbinavano dentro, a riflettere sul distacco che ti aspettava da Elettra e Oreste. Lo realizzasti sul serio solo un istante prima di salire sulla carrozza da viaggio, i tuoi pochi averi caricati sopra. Qualche veste, qualche sandalo. A Sparta ti aspettavano nuovi abiti, nuove responsabilità. Lo sapevate entrambe, fissandovi negli occhi, tu e Elettra, prima di separarvi per chissà quanto. La vostra vita in tempo di pace non sarebbe stata diversa dalla vita di qualsiasi donna greca. Un matrimonio nobile, dei figli. Eravate pronte per questo. Forse lo volevate persino. Tutto era stato immobile per così tanto. La vostra infanzia era stata lunga, la vostra verginità affidata alla scadenza di una guerra di sfinimento. A Sparta le ragazze si sposavano circa all'età che avevi in quel momento, ma Elettra era già in ritardo, secondo le usanze di Micene. Vi fissavate commosse e abbacchiate. Avevate condiviso tutto, e non avreste assistito a cambiamenti così grandi l'una per l'altra. Era surreale, e certamente un po' triste. Ma vi faceste forza. Vi sentivate forti. La tempesta era passata. Imbracciavate il vostro destino con coraggio. Fiere e coraggiose come i condottieri che tornavano a casa, feriti e sporchi. Elettra ti baciò sulle labbra, aspirò il profumo dei tuoi capelli. Arrivederci, sorella mia, che gli dei ti proteggano, sii felice. Piangesti calde lacrime, dolci, sulla sua spalla amica. Baciasti Oreste, la sua testa sudata di euforia, che saltava e saltava: mio padre è per mare, Ermione, è per mare! Ridevi della sua gioia, gli lisciavi i capelli corvini. I capelli di Ifigenia, di Agamennone. Sei il figlio migliore che tuo padre potesse desiderare. Ma l'ultimo saluto lo dedicasti ancora a Elettra, all'unguento di mandorla del suo corpo, al suo seno velato di blu, elegante per festeggiare la vittoria. Finchè vivrò mi sarai la più cara tra gli uomini, e possa Zeus fulminarmi se non è così. Li salutasti a lungo, finchè la carrozza rimase a loro visibile. Si allontanavano progressivamente. Già ti mancavano. Ma bisognava voltare pagina, cambiare vita. Bisognava lasciarli alla sofferenza che li attendeva, paziente, e che aveva lasciato svincolare te dalle sue maglie serrate. Se avessi saputo cosa sarebbe successo, quando la nave di Agamennone sarebbe attraccata al porto, forse saresti rimasta. Nonostante il pericolo, non avresti mai lasciato Elettra affrontare tutto questo da sola. Avresti preferito soffrire con lei che lasciarla soffrire sola. Ma non eri una profetessa, non ti era lecito sapere nulla, e partisti. 
Elettra sorrideva ancora mentre ti salutava, Oreste sventolava le braccia al suo fianco. Tu, sola con il tuo futuro incombente per la prima volta dopo tanti anni, ti lasciasti trasportare per inerzia ovunque saresti dovuta arrivare. 
Non sapevate niente. Il momento d'ignoranza più grande delle vostre vite.
Non sapevi, per esempio, come aveste vinto. Sulle prime poteva sembrarti irrilevante. Non sapevi che appena Achille era morto, un messaggero non diverso dal quello che era giunto da voi si era recato a Sciro, il più rapidamente possibile. Achille non vive più, Troia non può cadere senza il braccio del suo sangue. Non sapevi che un bambino di dieci anni, senza stupore nè timore, aveva posato le armi da allenamento con cui si preparava da anni a questo e aveva raccolto quelle da guerra, ed era salito sulla nave per Troia. 
Non sapevi che, se per te questo non era altro che l'inizio di una nuova terra di mezzo, per Elettra l'incubo era sul punto di sopraggiungere, ed era a ciò che la stavi abbandonando. 

~ • ~

La vera attesa scopristi cos'era in solitudine. L'attesa di Penelope, di tutte le mogli nelle loro regge. Il palazzo vuoto, le cene spoglie. Senza la compagnia di Elettra, la vivacità infantile di Oreste, non eri più abituata a vivere. Anche solo dormire da sola ti risultava amaro. Le ancelle erano tutte diverse da quelle che ricordavi a Sparta, non ci stringesti mai davvero un legame. Avesti la fortuna di avere a corte uomini fidati, che non ti disprezzarono mai perchè donna, che non tentarono di assoggettare il palazzo. Eri la figlia del vincitore, dopotutto. 
La notizia interruppe la monotonia della tua attesa, e desiderasti che non l'avesse fatto: all'improvviso volevi annoiarti altri cento anni. Perdesti la testa. Afferrasti furiosa il messaggero. Cosa è successo? cosa è successo? Lui potè solo ripetere, con pochi dettagli in più. 
Agamennone era tornato a Micene, sì. Su un tappeto cremisi. Il fumo dei sacrifici in suo onore nel naso. Il popolo in festa. Per il braccio Cassandra, la pazza, l'invasata, che puntava i piedi, si gettava al suolo per opporre resistenza, per non varcare quella soglia, il rogo di Troia nelle vene. Ma non si era diretto prima dai figli che smaniavano per riabbracciarlo. Era salito nella reggia per farsi il bagno. Quasi una frivolezza. Clitemnestra gli aveva gettato una rete addosso, come un pesce, e l'aveva massacrato con un'ascia bipenne. La vasca colma di sangue fino all'orlo, i brani delle sue viscere crude spiaccicati al marmo. Il lusso imbrattato di miseria. Il suo ritorno, vanificato. Dopo non erano riusciti dieci anni di guerra, avevano avuto successo i dieci giorni precedenti, quelli necessari per illudere Ifigenia. Ma si trattava ancora di Ifigenia? Aveva ancora una motivazione lo stato di sfrenatezza in cui versava la mente di Clitemnestra? Non era solo il nome pretestuoso di una rabbia più antica, a cui sarebbe stata altrimenti proibita, disdicevole, la manifestazione? Cassandra era morta allo stesso modo, macellata, senza che nemmeno scappasse più. Gli occhi aperti da tempo davanti alla fine. Probabilmente contenta, o forse solo arresa, che il mondo per lei si spegnesse. 
«Elettra?» chiedesti, la gola secca. 
«Al castello, degradata di rango» fu la risposta.
«Oreste?»
«Scomparso.»
Sapevi che cosa aveva fatto la tua più cara amica. La conoscevi abbastanza per sapere che aveva messo in atto il piano che aveva già rivelato a te anni prima. Non eri a conoscenza di dove, ma eri certa che Oreste fosse in un luogo sicuro. Trascinato via in fretta e furia, correndo, niente pianti, solo l'istinto di sopravvivenza piantato nel petto, con gli abiti che aveva indosso e nient'altro, fatta eccezione per la guida di un'intelligenza pratica d'emergenza, appena la notizia era uscita da quella stanza da bagno allagata di sangue. Sentivi nel tuo petto la paura di Elettra come fosse la tua, la paura non per se stessa, ma per il fratellino. La loro sorte t'impietosì. Non era giusto che tu fossi lì al sicuro tra quelle mura e loro condannati all'incertezza. Ti stillarono lacrime per la loro attesa incompiuta, per la loro sete di vendetta insoddisfatta, per la loro piaga inasprita, per la gioia negata. Per Oreste che voleva un padre orgoglioso di lui, per Elettra di cui nessuno avrebbe riconosciuto la fedeltà, quando era così facile e conveniente inchinarsi al nuovo padrone. Calcolare nelle notti vuote di sonno non servì a niente. Non potevi intrometterti, tornare a Micene, portarla via con te. Troppo pericoloso. Eri una donna e senza neanche un esercito, a malapena guardie sufficienti a proteggere il palazzo. Ti opponesti al sentimento che ti spingeva ad azioni incaute. Confidavi nella forza di Elettra, e allo stesso tempo odiavi che avesse dovuto essere messa alla prova in quel modo. Niente nozze per lei, schiava in casa sua, e niente per te, ancora orfana del ritorno del padre. Eravate ancora uguali. Le due sponde di uno specchio difettoso. 
Nel frattempo, proprio come sospettavi, Elettra aveva cavalcato senza sosta nella notte, per ore, una figuretta infagottata abbracciata alla sua vita dietro di lei, scossa dai singhiozzi, fino a giungere nella Focide, dove era ritornato dalla guerra anche il re Strofio, marito di Anassibia, sorella di Agamennone, e dunque zio acquisito di lei e Oreste; e fu lì, a quell'uomo costernato di non avere più un esercito sufficiente per muovere guerra all'usurpatore Egisto, ma pronto ad assumersi il rischio di nascondere il piccolo, a lui Elettra consegnò Oreste, al sicuro dal dominio ormai inconstrastato del figlio di Tieste e della sua scellerata madre. Resta anche tu, le propose Strofio. Qualcuno deve restare a corte per tenere alto l'onore della mia stirpe e per avvertirti in anticipo se c'è il rischio che scoprano tutto, obiettò Elettra. E fu così che si separò, con il cuore spezzato, dal fratello che amava più di se stessa, che dovette staccarsi a forza dalle ginocchia, piangendo, per ripartire verso la sua prigione. Strofio aveva un figlio poco più giovane di Oreste, un bambino che, svegliato dal chiasso, scese nell'atrio del palazzo per assistere all'arrivo di quel piccolo estraneo, quel corpicino su cui sembrava che si fosse abbattuta la furia della guerra di Troia, quel poveretto che non la smetteva di piangere di rabbia sotto lo sguardo triste degli zii, e gli chiese ma perchè piangi? e che sette anni dopo gli avrebbe giurato eterna fedeltà, e avrebbe sposato la ragazza intrepida che se n'era andata svelta come Artemide nei boschi notturni. 
Il tempo dell'attesa ti diede modo di apprendere tutto della fine di Troia. Uno spettacolo che aveva fatto piangere anche i greci stessi, tanto era penoso. Qualcosa di tanto colossale ridotto a nulla. Un po' come un re preso a colpi d'ascia. L'espediente del cavallo, tutti i guerrieri con le loro corazze sonanti stipati in un ventre di legno, costretti all'immobilità. Il tradimento del patto d'onore siglato su quella guerra. Ma d'altronde l'onore era morto con Ettore, con Achille. Dopo c'erano solo iene arrivate a becchettare gli avanzi della selvaggina degli eroi, farsi mantelli delle loro carogne. In campo restavano gli sciacalli, i macellai, quelli che volevano farla finita. Tagliare quella testa ad ogni costo. Con un colpo anche approssimativo, di quelli che non assicurano la morte istantanea, che innescano una lunga agonia inutile. Elena era sulla nave di ritorno, questo contava per il nemico. Come ci fosse salita, era roba da aedi, chiacchiere da donnicciole. Uomini uccisi, bambini trucidati, donne sulle navi dei vincitori, scopertisi schiavisti. Madri, figlie, sorelle, come Elettra, come te. Questa è la guerra, Ermione, ti dicevi. Ma un'altra voce, più profonda, diceva: no. Non devo adottare il linguaggio dei carnefici solamente perchè sto dalla loro parte. Va bene considerare sbagliato tutto questo. Va bene pensarlo anche se mi è convenuto così. 

~ • ~

Ti trovavi davanti a uno specchio a giudicare la versione di te che avrebbe riabbracciato Menelao dopo diciotto anni, e ti rispondevano solo un paio di occhi spauriti, che si mangiavano il viso, qualsiasi attributo grazioso potesse vantare. In un certo senso, avevi cominciato a considerare quella la vera vita, e quell'altro qualcosa che non sarebbe mai successo, che non poteva succedere. Toglievi e rimettevi gli orecchini di quarzo verde, pulivi il kohl dagli occhi. Senza sembravi un topo spaurito, con sembravi una puttana. Ti toccavi indecisa i capelli. Volevi apparire bella, ma delicata, e allo stesso tempo sapevi che non aveva nessuna importanza, e che ti ci stavi impuntando solamente per non pensare al fatto che Menelao non conosceva il tuo volto. 
Padre. Quasi ti vergognavi a immaginare di chiamarlo così. Non ti sarebbe suonato naturale. Elena... Non pensavi nemmeno a Elena. Per te lei era più come morta. Non potevi credere che avrebbe costruito un rapporto di amicizia o di confidenza mai più, con nessuno. Chi la sarebbe mai stata a sentire? Chi lei avrebbe mai avuto l'ardire di credere che la sarebbe stata a sentire? 
Tu e la corte attendevate fuori dalla reggia, allineati. Ti sentivi sotto esame, niente affatto sollevata, niente affatto impaziente. In testa avevi solo il timore di apparire come una delusione al suo sguardo. Davanti a tutti loro. Erano generali che avevano appena combattuto una guerra di dieci anni, un viaggio di ritorno degno di un mito a sè. E tu... tu cos'eri? 
Menelao scese per primo, con un balzo quasi atletico, prima di qualsiasi guardia. Diciotto anni erano passati. Rivedendo i lineamenti del suo volto, fu come se venisse tolta della sabbia da una conchiglia. I ricordi furono messi a fuoco. Lui, una quarantina d'anni, che ti alzava sulle sue spalle per farti vedere una gara ginnica tra tre lottatori, corpo a corpo. I suoi capelli biondo paglia, il suo sorriso bonario, mentre ti aiutava a scrivere il tuo nome, tenendoti la mano nella sua. Ancora lui, che ti trovava mezza incastrata nell'inforcatura sul primo ramo di un ulivo, insieme a degli ospiti, e ti riprendeva con dolcezza: Ermione, ma cosa fai! All'improvviso provavi tutti quei sentimenti che temevi si fossero dileguati per sempre. Tutto veniva spontaneo. Era lui. Era lui, che adesso tendeva il braccio, ancora forte, per aiutare un uomo molto anziano a scendere cautamente sulla terra battuta, curvo, ingobbito, gracilissimo. E tu non tacesti. 
«Padre.» La tua voce cedette, incrinata. Le lacrime arrivarono e non le frenasti.
Lui si voltò, sbigottito, come se non se lo aspettasse per niente, come se ti considerasse perduta. Vedendoti, anche il suo viso franò. I lineamenti corrugati di tenerezza. Esauristi lo spazio di rispettosa distanza per gettarti tra le sue braccia, e continuasti a piangere. Ti lasciò fare, ti carezzò la testa.
«Mi dispiace» dicevi, senza sapere il perchè. «Mi dispiace tanto.»
«Non sei tu che devi dispiacerti, figlia mia» ribattè lui, dolcemente. I suoi capelli striati di grigio, la barba senza più forma, ma era lui. «Frena il tuo rimorso.»
«Mi dispiace per il vostro dolore, la vostra fatica... Mi dispiace non averne potuto prendere nemmeno una frazione. Non aver potuto condividere il fardello con tutti voi.» La verità uscì con facilità, come se fosse sempre stata dietro la lingua. 
«È finita» disse Menelao. E tu provasti un senso di smarrimento, nel risentire le parole che Elettra aveva pronunciato prima di crollare in una trappola ancora più insidiosa di quella che il fato le aveva riservato in precedenza.
«È finita davvero?»
Menelao ti indicò l'ospite, l'anziano signore. «Costui è Nestore, prezioso consigliere per noi tutti, di cui avrai certo sentito parlare.»
Ti scrutò con attenzione, sorrise con nostalgia. «Le vostre figlie ormai hanno l'età che avevano le vostre mogli quando questa guerra è iniziata. Ma non è stata invano, giovane Ermione. Gli dei ci appaiono crudeli, ma sono più saggi di noi uomini.»
Gli lanciasti un'occhiata di incomprensione. Era in momenti come questi che pensavi alla stanza di Ifigenia, da cui le ancelle avevano portato via bauli di oggetti che non avrebbe più usato, quella stanza sgombra, con dentro il letto nudo. Non bastavano le frasi fatte per mettere una pezza sulla guerra di Troia. 
E poi uscì lei. Abbagliata dal baluginio biancastro del cielo, schermandosi gli occhi. La ragazza di luce che era vivida come un'apparizione nei ricordi, che chinandosi faceva scintillare i fili dei suoi capelli cangianti, non c'era più. Il viso era segnato, non da rughe ma da una smorfia brutta, umana, che la tirava di nuovo a terra. Figlia di Tindaro, non di Zeus. L'impatto contro la realtà era stato traumatico. Il sogno era finito. Non restava che tornare in patria e sperare che la sua famiglia se la ripigliasse. Menelao non l'aveva giustiziata. La lasciò entrare a palazzo, da sola, sotto lo sguardo di tutti, fermo, gravoso. Non frenò il passo davanti a te, non ti guardò nemmeno. Non ti fece nè caldo nè freddo. Saresti stata invece a disagio nel ritrovarti a dover simulare, se Elena avesse improvvisato una sceneggiata di rincongiungimento. 
Ma gli ospiti illustri non erano terminati. Prendendosi il suo tempo, aspettando che cominciasse il via vai di schiavi e ancelle che scaricavano i bagagli, le ricchezze, le armi trasportate nei carri posteriori, un ragazzo smontò dalla stessa carrozza di Menelao. Una corazza che non poteva appartenere ad un soldato semplice, ma nemmeno fastosa. Alto, più di te, più di Menelao. Segaligno,  nervosamente asciutto, aguzzo, snello di torace ma privo di grazia, il passo pesante, marziale. Il gladio alla cintura. Nè Menelao, nè Nestore, nè nessuno dei generali al loro seguito l'aveva. Tuo padre interruppe il suo passo con un gesto cordiale.
«Se sono tornato vivo da te, Ermione, è anche grazie a lui, valoroso sul campo di battaglia così come nelle avversità impreviste» esordì. «Ti prego di ringraziare Neottolemo, figlio di Achille, non meno impavido, due volte responsabile del mio ritorno, per come agì a Troia e nelle terre d'Egitto.»
Non tradisti reazione alcuna. I tuoi occhi esitarono a un soffio dalla superficie di ciò che videro: lineamenti duri, labbra sottilissime, capelli fulvi, cresciuti incolti fino alle spalle, occhi chiari, forse verdi. Inespressivo.
«Grazie.» La tua voce suonò al limite tra l'indifferenza e l'ostilità. Lui sapeva che tu sapevi. Tutti sapevano. Le storie avevano preceduto i loro personaggi. La progenie sacrilega di Achille, che approfittava del contrasto dell'esempio paterno per guadagnarsi una fama di trasgressione, a muso duro contro i limiti, i tabù. Che provocava i greci, testava la loro capacità di sopportazione, la loro tenacia nel tenerlo contento e impunito pur di vincere la guerra. Per rimanere più a lungo sulle labbra degli aedi, permetter loro di abbondare di dettagli truculenti. E lo avevano lasciato divertire, il figlio di Achille. Gusto dell'orrido. 
Neottolemo non rispose. Ti squadrò dalla testa ai piedi, senza un'accezione sessuale e nemmeno valutativa. 
Un vaso scivolò ad un'ancella. Non si ruppe, era di rame. Tu ti chinasti, la aiutasti a riprenderlo in braccio. Tradisti un certo sforzo. Proprio come segretamente temevi, Neottolemo fece un sorriso di scherno.
«Credevo che a Sparta le femmine frequentassero le palestre.»
Furono le prime parole che ti disse. 
Sorreggesti il suo sguardo, senza lasciarti umiliare. «Sono cresciuta a Micene, signore.» Calcasti sarcastica sull'appellativo.
Neottolemo frugò nei tuoi occhi distrattamente, apatico. Poi lanciò un'occhiata svelta a Menelao. Disse: «va bene.»
E tu, nel tuo intimo, sapevi a cosa stava acconsentendo. 
Quel ragazzo, alla stessa età che aveva Oreste l'ultima volta che l'avevi visto, aveva scagliato un infante dall'unica torre rimasta di Troia.
  
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