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Autore: Giada_wx    15/08/2018    0 recensioni
Niente rabbia, niente tristezza. Non me ne importava nulla che i miei diciotto anni di vita fossero ridotti a dieci inutili scatole. Mi chiedevo se fosse normale, o quando era stato il momento esatto in cui avevo smesso di lottare e avevo iniziato a sopportare. Poi l'immagine di quella stanza buia e umida tornava, il dolore lancinante che avevo provato al ventre si fece così vivido da dover trattenere un urlo. E mi servirono da risposta.
«Dov'eri finita, Ashlie? »
«Dove sapevo che non mi avresti trovata. »
☀ ☀
"Quello che abbiamo sofferto in passato ha molto a che fare con ciò che siamo oggi."
Qualunque analogia con fatti, luoghi o persone reali, esistenti o esistite, è del tutto casuale. Il carattere dei personaggi famosi descritto in questa storia non coincide con la realtà.
Questa fan fiction è un'opera di fantasia.
Tutti i diritti riservati.
Copyright © 2018 di Giada_wx
[La medesima storia è in corso anche su Wattpad, postata sempre dalla sottoscritta sotto il nome di Giada_Me.]
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Luke Hemmings, Michael Clifford
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Luglio 2016 ; Willmar, Minnesota.


Sei luglio. Sabato. Venti gradi e due corpi sudati.
Il mio corpo intrappolato tra il materasso caldo e il suo corpo nudo, in collisione con il mio.
La finestra aperta, il caldo nella stanza e i vestiti a terra.
Il silenzio intrappolato tra le mura, il buio intorno e i respiri pesanti. 
Lui che possiede il mio corpo, ma non le mie fantasie. Un corpo che non si incastra perfettamente al suo, un corpo che non riesce a capire l'altro. 
Due corpi che non vogliono conoscersi, che si sono avvinghiati tra di loro altre volte solo per soddisfare un'estrema necessità di evasione.
Ma non questa notte, non il mio corpo, non io.
Nella penombra della notte lo guardo muoversi su di me, senza sentirlo davvero. Senza forse averlo mai sentito fino in fondo, ma questa notte proprio no.
Non è fatta per perdersi, non per me.
Apro gli occhi e solo così posso avere la certezza che lui sia lì, ma continuo a non sentirlo.
È lì, con la testa inclinata, le labbra schiuse, il respiro pesante. Chiude gli occhi, ogni muscolo del suo corpo si contrae, e lui arriva. E anche questa notte il suo momento di evasione riesce a goderselo. Si lascia andare sul materasso, il suo corpo affianca il mio. Io mi giro sul fianco, delusa da questa notte priva di vie difuga per me. Delusa dalla mia incapacità di tagliare via i pensieri con questa scorciatoia, e durante. Una scorciatoia priva di sentimenti e ricca di egoismo. Priva di passione e ricca di frustrazione.
Lo sento muoversi e sento lo sfregare delle lenzuola che vengono scalciate via. È l'unico rumore nella stanza adesso che i respiri sono tornati regolari.
Non ho bisogno di guardarlo per sapere cosa stia facendo adesso. So che il pacco delle sigarette è sul davanzale della finestra, insieme all'accendino blu. È li che è diretto. Fa tutto parte della nostra routine, che di nostro non ha niente. Che se siamo immischiati in questo circolo vizioso è perché di nostro, in realtà, non abbiamo nulla. Neanche i nostri corpi, sono nostri davvero.
«Ashlie » dice, e mi volto verso di lui. È alla finestra, il suo corpo nudo avvolto dall'oscurità. Una sigaretta tra le dita e gli occhi sulla sveglia digitale che tiene sul comodino. Guardo anch'io la sveglia, segna la mezzanotte. 
Sette luglio. Domenica e vent'anni. I miei vent'anni. 
Vent'anni di imprevisti. Vent'anni di scelte sbagliate e di bugie. Vent'anni che, questa notte, non sono riuscita a lasciare fuori da queste quattro pareti bianche, e neanche fuori dalle pareti strette della mia testa.
«Buon compleanno » mi augura, ed io non mi smuovo. Non faccio nulla. Non sorrido, non piego le labbra in alcun modo, non assumo alcuna smorfia. 
Guardo il soffitto e non vedo niente, solo il buio. Come guardarmi dentro e non trovare niente. Non sentire niente, senza sapere quando davvero ho iniziato. Senza sapere se davvero era quello che volevo. Ma a volte è così, a volte non te lo chiedi cos'è che vuoi davvero, a volte devi farlo e basta. A volte lo fai e basta, senza darti tempo, senza darlo agli altri. Che gli altri di tempo forse ne hanno sempre avuto troppo e non hanno mai saputo sfruttarlo. Che a te di tempo ne sarebbe bastato poco, ma non te lo hanno mai dato.
Vent'anni e un tempo che non mi è mai appartenuto davvero. Tanti auguri a me.
Interrompo il contatto con quel buio che sembra inghiottirmi, recupero un elastico dal mio polso e lego i lunghi capelli neri e disordinati.
«Non devi andartene per forza » mi dice, butta quel che resta della sigaretta e mi guarda. Mi guarda e anche se mi ha davanti non mi vede per davvero. Mi guarda senza capire ciò che vede, come tutti. Ma lui, diversamente da tutti, non fa domande. 
È per questo che vengo qui. Perché lui prende ciò che pesa, ciò che mi opprime dentro, e per qualche ora lo fa suo. Per qualche ora tutto qui diventa più leggero, se diviso in due. Qui, per qualche ora, posso annullarmi senza dover dare nessuna spiegazione. Da qui, dopo qualche ora, posso andarmene senza troppe parole. 
«Devo, invece. Lo sai anche tu » mi metto seduta e recupero ciò che mi appartiene. E lo sappiamo entrambi, che dobbiamo. Sappiamo che il nostro è un modo per scappare da qualsiasi cosa pesi troppo. Un'ora pesante, una giornata, o una vita.
E sappiamo che dopo, dobbiamo scappare l'uno dall'altra.

Un passo dopo l'altro, senza fretta, scendo le scale. La suola dei miei anfibi che stride contro la superficie in marmo degli scalini, e un passo dopo l'altro mi avvicino sempre di più ai tornelli. Estraggo la tessera e passo. Faccio appena in tempo a fermarmi davanti alla linea gialla che la metro mi si ferma davanti. Le porte si aprono e una decina di persone scendono, io salgo. 
L'aria sembra essere più pesante qui dentro che fuori. 
Nonostante sia quasi l'una di notte, c'è un po' di gente. Qualcuno in piedi che aspetta la prossima fermata, qualcun altro seduto che è di ritorno a casa, e altri invece che hanno appena dato inizio alla loro nottata. 
L'aria pesante sembra premere sulla mia testa e tenermi inchiodata a terra, le spalle ricurve e la testa pesante. Per me la giornata è finita, ha preso ogni mio singolo brandello di forza, e si è finalmente conclusa. Ma le mie gambe sembrano non reggere più quel peso, così mi avvicino ai tre posti liberi e mi siedo.
Di fronte a me c'èuna signora, mi fissa per un po' e fingo di non notare il suo sguardo disgustato. Non mi crea alcun disturbo, non m'importa.
Guardo davanti a me, le ombre che si susseguono velocemente al di fuori del vetro che mi sta di fronte e poi la vedo. Vedo la mia figura riflessa, e allora un po' la signora la capisco. I capelli lunghi e neri sono disordinatamente schiacciati, qualche ciuffo mi ricade sul viso, gli occhi sono cerchiati da una matita nera ormai sbavata. Il mascara colato e il mio vestito nero sgualcito mi danno l'aria di una tutt'altro che a posto. Ma non importa, perché preoccuparmi di esserlo? Perché fingere di essere qualcosa che in realtà non sono? O che non sono mai stata, forse. 
So di avere l'aria di una consumata da qualcosa, l'aria di una i cui pezzi stanno insieme solo perché qualcosa li obbliga a farlo. 
Dopo due fermate la signora scende, evitando categoricamente di incrociare il mio sguardo, proprio come ha fatto durante tutta la durata delviaggio. 
Un'ultima fermata, poi siamo al capolinea e scendo.
L'ascensore è fuori servizio, così salgo su per le scale. Una volta fuori il caldo e l'umidità sembrano farsi sentire in modo più insistente, sembrano colpirmi in volto e ne resto in balìa per un po'. Giusto il tempo di essere urtata dalla spalla di qualcuno che scende in fretta giù per le scale, troppo impegnato in una corsa contro il tempo per notare me. 
Riprendo a camminare lungo lastrada che continua dritta davanti a me, una di quelle strade che ormai percorro ogni giorno. Una di quelle cose che ormai faccio senza pensarci troppo, che è così perché qualcun altro ha deciso così. Svolto a destra ed estraggo le chiavi dalla borsa e tra le tante cerco quella argentata. Il portone dell'edificio però è già aperto, così salgo. Anche questo ascensore ha un piccolo cartello con su scritto 'Fuori uso', ma ormai è da un paio di anni, fa parte della routine. È così da così tanto tempo che le persone ormai ci hanno fatto l'abitudine e neanche lo guardano più, questo ascensore.Tranne me. Io quando entro lo guardo sempre, ed è buffo, perché io sono l'ultima persona al mondo che si aspetta un cambiamento in questa vita. Lo guardo e penso a questo. Penso anche che quella scritta vorrei tatuarla in fronte, oppure appendere un cartello al collo con su scritto 'fuori uso', così che la gente vedendolo ogni giorno smettesse di guardarmi, sapendo che ormai sono rotta. Ch equindi da me non devono aspettarsi più niente, perché sono fuori uso. 
Mi fermo al terzo piano, infilo le chiavi nella serratura e apro la porta. Tutte le luci sono spente, tranne la lampada tra il camino e la poltrona, sulla quale riesco chiaramente a riconoscere la figura accovacciata del mio fratellastro. I week end sono gli unici giorni in cui condividiamo queste mura e va sempre così. 
Con passi leggeri e, con più fretta di prima, cerco di superare l'ingresso e arrivare alla porta della mia camera, ma la sua voce riecheggia nel silenzio. 
«Sì, sono io » gli rispondo, fermandomi con la mano sulla maniglia della porta. 
«Ti ho aspettata, pensavo avresti finito presto il tuo turno stasera », raccoglie il libro caduto sulla moquette e si passa una mano sul viso segnato dalla stanchezza. 
E io lo so che non sono l'unica ad avere una giornata pesante, ma io non riesco a fingere come lui. Io di fingere sono stanca, lui con la finzione ormai ci convive. È una delle cose che ora più che mai ci rende diversi, tanto diversi da essere quasi due sconosciuti che abitano - occasionalmente - sotto lostesso tetto.
«C'era più gente del solito », mento. «Va' adormire ora, buonanotte. » Con movimenti meccanici apro la porta della stanza, lascio cadere la borsa per terra e le chiavi sul comò. Mi lascio andare sul letto e non ho voglia di lasciar prendere il controllo ai pensieri.
Resto lì dove sono, sopra un groviglio di lenzuola sfatte, e la mia mente mi mostra sfacciatamente il volto di una serie di persone. 
Il volto di un ragazzo che non sa più cosa fare, che non ha idea di come oltrepassare il muro di ghiaccio che la sua sorellastra gli pone davanti. Quel ragazzo che ancora una volta mi vede rincasare tardi, che si fa stare bene le mie bugie. Il volto di un ragazzo che dalla vita ha avuto solo un padre assente e una matrigna avida. Un ragazzo che si ritrova a dover vivere una vita ben lontana da ciò che aveva immaginato, e che lotta pur di avverare i suoi sogni.
Poi è il turno del volto di una donna, una donna che non ha mai amato sua figlia, che non si è mai sforzata ad entrare nel ruolo di una madre.

   
 
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