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Autore: Final_Destiny98    16/08/2018    3 recensioni
[Kagehina]
Tobio si sentì strano: non poteva dire che il suo cuore si fosse fermato, né che avesse iniziato a correre. Piuttosto si poteva dire che il silenzio in cui si trovava passò da rilassato a tremendamente imbarazzato; sperò che quella dannata pioggia smettesse di scendere al più presto e lo facesse uscire da quella situazione.
Il ragazzo aveva la sua età, eppure non era minimamente alto come lui –forse quanto Nishinoya. Aveva i capelli di un particolare color arancione, ora completamente bagnati e appiccicati al capo e alla fronte, ma che sapeva essere sbarazzini e vaporosi. Anche se non aveva ancora alzato lo sguardo, poteva descrivere i suoi occhi come due grandi pozze sincere di un marrone chiaro, dentro cui ci si poteva specchiare tranquillamente; il suo viso sembrava essere ancora quello di un bambino, col naso leggermente all’insù e i tratti non troppo marcati.
Hinata Shouyou, ex-schiacciatore della Karasuno.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Koutaro Bokuto, Shouyou Hinata, Tetsurou Kuroo, Tobio Kageyama, Tooru Oikawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note iniziali*
Per la prima volta scrivo su questo fandom, sono agitata in verità. Ho intenzione di rendere questa OS parte di una serie, per cui se ci sono delle question in sospeso, soprattutto riguardo ai personaggi secondari, verranno chiariti nelle prossime storie! Ci metterò del tempo, perchè ho tanti progetti in sospeso, ma arriveranno.
Non poteva che essere su di loro l'esordio in questo fandom. Non ho inserito l'avvertimento OOC perchè non mi sembra sia necessario, ma se credete il contrario basterà farmelo sapere e provvvederò!
Non inserirò note finali, per cui scrivo qui: mi scuso per eventuali errori di battitura, ma scrivo di notte o in tarda serata e la stanchezza ha il sopravvento alcune volte. Ringrazio tutti coloro che leggeranno, spero sia di vostro gradimento!
Buona lettura, Final



«La verità è che sei solo uno stupido.»
 
Sbadigliò sfacciatamente mentre, con una tazza di caffè in mano e il corpo appoggiato al bancone della cucina, leggeva disinteressatamente il giornale alla ricerca di qualche notizia che non riguardasse la politica, l’economia o la cronaca nera. Magari qualcosa che trattasse di sport, di pallavolo specialmente, ma anche gli altri sarebbero stati apprezzati.
La luce del sole illuminava la stanza entrando attraverso i vetri delle finestre sprovviste di tende; era un sole pallido che, in realtà, non scaldava nemmeno così tanto, ma nonostante questo lui indossava un’anonima maglietta a maniche corte. Era inverno inoltrato, il freddo si faceva pungente sempre più, ma quando era a casa non riusciva a non rimanere con qualcosa di semplice addosso, soprattutto perché aveva un fantastico camino pronto a riscaldare l’ambiente e aveva sempre pensato che fosse giusto usarlo.
Kageyama Tobio, ventuno anni per oltre un metro e ottanta di altezza, rinunciò al giornale e si dedicò completamente ad osservare il panorama fuori dalla finestra, pensando se fosse la scelta migliore andare a fare una corsa mattutina o semplicemente aspettare che fosse l’orario giusto per uscire di casa e dirigersi all’università. Il caffè amaro che stava bevendo era ormai finito, ma anche lui era giunto alla sua conclusione: si sarebbe seduto tranquillamente sul suo divano, guardando qualche inutile programma in televisione. Prese con sé del cibo che di salutare aveva ben poco per poi gettarsi sul sofà con poca grazia, subito andando alla ricerca di qualcosa di interessante da guardare, mentre con la mano destra scorreva la schermata del cellulare. Ignorò bellamente qualsiasi cosa dicessero i suoi amici riguardo la festa della sera prima a cui lui non aveva avuto la minima voglia di partecipare, per cui si era rintanato in casa e ne aveva approfittato per studiare qualche lezione che aveva tralasciato.
In verità, alle superiori non era stato per niente uno studente modello. Troppo proiettato verso altro, aveva finito col tralasciare gli studi. Aveva dovuto cambiare modo di lavorare per poter accedere all’università che agognava –non voleva ripetere l’esperienza con la Shiratorizawa, che l’aveva cacciato proprio perché aveva voti troppo bassi- e aveva dovuto ammettere che, una volta trovato il giusto equilibrio, non era poi così impossibile gestire lo sport e gli studi. Era anche interessante, ma la sua passione sarebbe sempre e comunque rimasta la pallavolo, sport che da sempre –alle medie, superiori, e ora all’università- aveva fatto da sfondo alla sua vita. Non avrebbe rinunciato alle emozioni che gli dava per nulla al mondo, ed era quello il motivo principale che l’aveva spinto a frequentare proprio quell’università, che era rinomata in tutta Tokyo proprio per la sua squadra. E aveva scelto bene, perché era tanto prestigiosa da potersi permettere di offrire agli studenti che lo richiedevano un appartamento in cui vivere che non fosse troppo lontano dalla sede, cosa che a Kageyama andava molto a genio –visto che non aveva alcuna intenzione di andare a vivere con i suoi amici rumorosi, e ancora peggiore era l’idea di affittarne uno e dover aggiungere un lavoro ai suoi impegni. Aveva accettato di buon grado di vivere in quel posto che, alla fin fine, aveva tutto quello di cui aveva bisogno: una cucina, nella stessa stanza in cui si trovavano il divano e la parete attrezzata con la televisione, un bagno e una camera con un letto comodo, armadio, scrivania e tutto ciò di cui aveva bisogno.
Ad ogni modo, Tobio aveva impiegato del tempo prima di abituarsi a vivere da solo, a provvedere a se stesso senza mandare tutto all’aria come era solito in realtà fare. Dopo aver concluso le superiori era sempre stato convinto della sua scelta: aveva faticato per raggiungere quei risultati, aveva dato tutto se stesso e non si sarebbe lasciato scappare quell’occasione per nulla al mondo; sarà facile, si diceva.
Per niente.
Ma, per fortuna, aveva rivisto vecchie conoscenze, alcune inaspettate, che l’avevano aiutato a superare i primi mesi fino a quando non era riuscito a cavarsela da solo. Amici che, a quell’ora, sicuramente si trovavano già lungo la strada diretti verso la sede, immersi nel caos di Tokyo che non smetteva mai veramente di esistere, e in cui sarebbe dovuto esserci anche lui vista l’ora -era davvero passato in fretta il tempo, che si fosse addormentato?.  Si sollevò con un sbuffo e si preparò in fretta per poi uscire di casa. Di certo non era quel tipo di persona che rimaneva minuti interi davanti allo specchio: i suoi capelli, nerissimi, andavano bene in quello stato.
 
Si concesse di togliere le mani dalle tasche del giaccone solo quando fu sicuro di essere abbastanza lontano dall’ingresso dell’edificio, in modo che il freddo non potesse raggiungerlo. Si sistemò meglio la tracolla sulla spalla, poi controllò il cellulare per sapere dove i suoi amici si fossero cacciati. Diamine, non potevano scegliere un posto fisso invece che cambiare continuamente idea? Era stufo di dover sempre giocare a caccia al tesoro.
                Dove diavolo siete?
                Cavolo Kageyama, quanto sei nervoso oggi. Nell’aula della mia prima lezione.
Sbuffò sonoramente per poi dirigersi a passo veloce verso il luogo indicato. Era diventato abbastanza popolare tra gli studenti, anche se non quanto quell’invasato del suo caro amico-vecchia-conoscenza-numero-uno, ma in ogni caso preferiva rimanere con le solite persone la maggior parte del tempo.
La prima cosa che vide entrato in aula fu la schiena di Nishinoya Shuu, perché il ragazzo era ovviamente seduto sullo spazio destinato ai libri invece che sulla sedia, dove sarebbe dovuto stare. Kageyama lo spinse leggermente, ma lo spavento fu tale che il ragazzo cadde rovinosamente a terra. Rise sotto i baffi.
                «Sei impazzito?» gli gridò contro quando si fu rialzato. «Potevo rimanerci secco, o peggio, potevo infortunarmi!»
                «Su su Noya-chan, non è successo nulla di grave.»
                «Kageyama, ciao anche a te!»
I suoi rinomati amici erano, in realtà, tre soggetti l’uno più diverso dall’altro che non aveva idea di come facessero a rimanere insieme. Senza contare le loro rispettive metà –maledizione, erano tutti fidanzati lì- non erano in molti, ma li conosceva abbastanza da fidarsi di loro. Forse.
Nishinoya era stato suo compagno di squadra alle superiori, il libero della Karasuno. Al tempo non arrivava al metro e sessanta, fortunatamente era diventato poco più alto, ma ancora non riusciva davvero a sembrare un ragazzo della sua età; dal fisico non molto robusto in apparenza, Noya aveva i capelli perennemente fissati in alto con quantità industriali di gel e un ciuffo colorato, attualmente biondo, proprio al centro della fronte. Piaceva alle ragazze –forse per i suoi occhi vispi, o il suo fare ancora allegro- ma a lui interessava altro, dove per altro si intendeva l’ex-asso ella Karasuno, Asahi Azumane.
                «Non ti ho fatto nulla, Noya» gli rispose alzando le sopracciglia.
Il più basso gli rivolse uno sguardo scocciato e tornò a sedersi esattamente dove si trovava poco prima. Il ragazzo alla sua destra si passò una mano tra i morbidi –o così Tobio credeva- capelli castani e ridacchiò leggermente. Fece qualche commento sulla situazione, qualcosa come “Noya-chan, sei semore così melodrammatico”, cosa che gli fece guadagnare in risposta un “Taci, Oikawa.” Era quello infatti il cognome del ragazzo, che di nome faceva Tooru, ed era una grandissima primadonna irritante, egocentrica e dannatamente cocciuta e manipolatrice.
                «Ricordatemi ancora una volta perché vi sopporto» mormorò Kageyama, poi sospirò leggermente.
                «Perché siamo dannatamente favolosi e ti abbiamo aiutato quando ancora non sapevi nemmeno dove fosse casa tua» proferì la quarta persona con la quale si chiudeva il cerchio in cui si erano trovati.
Avrebbe dovuto immaginare da lui, Bokuto Koutaro, una risposta del genere. Per un tipo esaltato e fiero di se come lui era impossibile evitare quel genere di considerazioni dopo una domanda del genere. L’aveva conosciuto anni prima perché, proprio come Oikawa e Nishinoya e lui stesso, giocava a pallavolo: era stato asso e capitano della Fukorodani, una delle più forte squadre di Tokyo, Tooru alzatore , come l’altro, capitano della Aoba Johsai –squadra della stessa prefettura della Karasuno, in cui avevano giocato invece lui come alzatore e Shuu come libero.
                «Certo, Bokuto. Per te deve essere facile parlare, visto che qui ci sei nato e cresciuto» ribattè Tobio.
                «In verità,» si intromise Oikawa «io e Iwa-chan non abbiamo avuto nessun problema quando ci siamo trasferiti. L’unico ad averne avuti sei stato tu, Tobio-chan.»
La sua voce zuccherina era così irritante che non si sorprendeva del fatto che Iwaizumi, lo storico e paziente ragazzo del castano, fosse sul punto di cacciarlo di casa ogni volta che lo usava. Ogni volta, però, era costretto a fermarsi, poiché si ricordava che era il tono di voce più usato da Oikawa e che, per smettere di ascoltarlo definitivamente, avrebbe dovuto lasciarlo, cosa che non era nei suoi piani. E, in ogni caso, si lasciava corrompere dai grandi occhi cioccolato dell’altro e
                «Ha ragione, Kageyama! Persino io e Asahi ci abbiamo impiegato meno.»
                «Fatela fini-» borbottò.
                «Comunque» lo interruppe Oikawa battendo le mani per richiamare la loro attenzione. Tobio borbottò qualche imprecazione. «Oggi in allenamento vediamo di impegnarci, non voglio ripetere l’esperienza dell’ultima partita.»
 Bokuto fissò i suoi particolari occhi dorati sul compagno mentre aveva sul viso un’espressione confusa. Nell’ultima partita avevano vinto due set di fila, gli ricordò. Si passò una mano tra i capelli –che dovevano essere originariamente neri ma che erano tinti di grigio e bianco sulle punte, con il risultato che sembrava uno di quegli aggeggi che usano le ragazze per truccarsi. Era stato un errore la prima volta, ma poi gli erano piaciuti e li aveva continuato ad acconciarli in quel modo.
                «Già, Oikawa, non ricordi il mio salvataggio in corner? Diamine, quella Rolling Thunder era perfetta!» aggiunse Nishinoya con fare fiero, e si lanciò con Bokuto in un discorso fatto di “sono proprio un grande” e “quella mia parallela è stata letteralmente perfetta”.
Tobio scosse il capo esasperato e si chiese come facessero Asahi e l’ex-alzatore della Fukorodani, Akaashi Keiji, due persone così pacate e silenziose, a stare con persone come loro. Guardò Tooru sistemarsi su una spalla la borsa con all’interno i libri e fece lo stesso dopo aver dato un’occhiata veloce all’orologio che aveva sul polso. Avvisò Koutarou che tra poco sarebbero iniziate le lezioni, poi si rivolse al castano riprendendo il discorso della partita.
 
                «Le mie battute, comunque, sono state migliori delle tue» sentenziò.
Gli venne lanciato uno sguardo di sfida. Se c’era qualcosa che poteva far crollare ad Oikawa l’immagine del popolare –letteralmente, lo conosceva l’intero corpo studentesco- e gentile ragazzo e far apparire invece il suo lato più competitivo, era la pallavolo. Non accettava di venir definito secondo in seconda occasione, era l’unico a potersi dichiarare inferiore a qualcuno.
                «Sarai anche migliore di me nelle alzate, d’altronde hai un talento naturale» gli rispose «ma dovrai ancora lavorare parecchio per raggiungere i miei servizi.»
                «Se ci sfidassimo sono certo che ti batterei su tutti i fronti» ribattè allora, fermamente convinto di quello che sosteneva. Il castano era, vero, un portento della pallavolo, era stato suo mentore e rivale, ma Kageyama non era rimasto con le mani in mano in quegli anni: era certo al cento percento che anche Oikawa non l’avesse fatto, ma era per lui concluso il periodo in cui lo temeva. Lo rispettava, ancora sosteneva che le sue capacità di adattamento allo schiacciatore fossero ineguagliabili, ma certamente non aveva più nulla da invidiargli. Per quel motivo non esitò nel tenere i suoi occhi blu in quelli marroni del’altro.
                «Lo vedremo questo pomeriggio in una sfida. Chi perde fa cento battute di fila come penitenza, niente scappatoie» propose allora.
                «Affare fatto.»
Era solo una delle tante sfide che si erano lanciati da quando erano entrati a far parte della stessa squadra. Anche se ad una persona esterna poteva che la sincronia tra loro fosse pari a zero, sul campo da gioco sapevano collaborare egregiamente per arrivare alla vittoria; nessuno dei due voleva perdere, e quello andava oltre qualsiasi interna rivalità potesse esserci –la quale, a dirla tutta, non era nemmeno così grande: era un aspetto normalissimo della loro amicizia.
Il fatto che fossero compagni non gli impediva, ovviamente, di distruggerlo, soprattutto dopo che lo sentì allontanarsi dicendo di dover raggiungere “Iwa-chan” che era finalmente arrivato, con quel tono irritante che lo mandava fuori di testa.
 
Aveva rovinosamente perso contro quello schiacciatore bestiale che era, in realtà, Oikawa. Poteva considerare i suoi servizi sicuramente migliorati rispetto a quelli delle superiori sotto ogni punto di vista, ma poteva confermare che anche l’altro si era allenato, non volendo sicuramente essere raggiunto e superato. Quella sconfitta ai preliminari del Torneo Primaverile doveva averlo irritato tanto da costringersi a appesantire il suo carico di lavoro, e i risultati si vedevano chiaramente. Si appuntò mentalmente di allenarsi più intensamente mentre, fermo ad uno dei semafori della metropoli, attendeva che diventasse verde per poter attraversare la strada e correre verso casa, dato che da poco tempo forti tuoni avevano iniziato a sovrastare le voci attorno a lui.
                Ho di nuovo dimenticato l’ombrello, pensò. Una persona come lui non avrebbe mai pensato ad un temporale, soprattutto se al mattino il sole si era fatto vedere. Non era mica Akaashi, lui.
Notando come letteralmente tutti attorno a lui stessero iniziando a ripararsi, sperò con tutto se stesso che fosse solo per precauzione e non stesse già iniziando a piovere, ma a quanto pare non poteva essere così fortunato: nel giro di poco tempo, grandi gocce iniziarono a cadere e si ritrovò bagnato dalla testa ai piedi. Reagendo immediatamente, corse verso il primo luogo riparato che trovò –un bar a quanto pare chiuso, ma che fortunatamente aveva davanti all’ingresso un tendone abbastanza grande da potergli permettere di rimanere all’asciutto. Controllò che la sua borsa e i libri al suo interno non si fossero rovinati –tutto in ordine- e infine si appoggiò sbuffando alla saracinesca, arresosi all’idea di dover aspettare che piovesse meno per abbandonare quella postazione. Un lampione era abbastanza vicino da illuminare il rettangolo asciutto in cui si trovava, per cui decise di studiare alcune pagine per ingannare il tempo e, allo stesso tempo, portarsi avanti con il lavoro. Erano comunque cose che avrebbe dovuto fare a casa, si disse.
Certo, dopo aver mangiato qualcosa e fatto una doccia, magari seduto alla scrivania nel silenzio della sua stanza, e non accanto ad una delle rumorose strade principali della metropoli. Qualcuno gli stava sicuramente augurando del male, era l’unica spiegazione possibile a tutto quello che stava succedendo. Ad ogni modo, pregustando il totale relax che si sarebbe concesso una volta tornato a casa, si mise di buon anime e aprì uno dei libri che aveva con sé, provando a concentrarsi sulle parole. Tuttavia non ci riuscì per molto tempo, perché a fargli compagnia arrivò di corsa un’altra persona molto più fradicia di lui e che probabilmente si sarebbe preso un malanno, avendo sudato per l’evidente corsa e a causa dell’acqua.
Non appena alzò gli occhi verso di lui, Tobio si sentì strano: non poteva dire che il suo cuore si fosse fermato, né che avesse iniziato a correre. Piuttosto si poteva dire che il silenzio in cui si trovava passò da rilassato a tremendamente imbarazzato; sperò che quella dannata pioggia smettesse di scendere al più presto e lo facesse uscire da quella situazione.
Il ragazzo aveva la sua età, eppure non era minimamente alto come lui –forse quanto Nishinoya. Aveva i capelli di un particolare color arancione, ora completamente bagnati e appiccicati al capo e alla fronte, ma che sapeva essere sbarazzini e vaporosi. Anche se non aveva ancora alzato lo sguardo, poteva descrivere i suoi occhi come due grandi pozze sincere di un marrone chiaro, dentro cui ci si poteva specchiare tranquillamente; il suo viso sembrava essere ancora quello di un bambino, col naso leggermente all’insù e i tratti non troppo marcati.
Hinata Shouyou, ex-schiacciatore della Karasuno.
Si poteva dire, il ragazzo con cui, a quei tempi, faceva coppia in campo.
Rimase a fissarlo, aspettando che alzasse il viso per poterlo guardare meglio. Non appena lo fece, assunse un’espressione sorpresa, ovviamente non aspettandosi di trovarlo lì. Insomma, tra tutti i luoghi in cui avrebbe potuto ripararsi in una città tanto grande, proprio quello? A Kageyama sembrava la sottotrama amorosa di una scadente commedia. Eppure non aveva nessuna battuta spiritosa da rifilare all’altro, come ci si aspetterebbe da un copione di quel tipo, solo un sordo silenzio.
                «Ciao» gli disse il più basso all’improvviso, tentennando.
Si riscosse. Chiuse il libro, curandosi di lasciare un dito tra le pagine per non perdere il segno.
                «Ciao» rispose a sua volta.
                «Non mi aspettavo di trovarti qui.»
Che considerazione ovvia. Era palese che fosse lo stesso da parte sua. Scrollò le spalle. Gli rivolse le solite domande, quelle tanto normali da sembrar fatte solo per cortesia: come stava, cosa aveva fatto nell’ultimo periodo.
                «Sto bene» rispose allora Hinata, tenendo basso il tono di voce. Quasi non lo sentiva a causa della pioggia. «Vado all’università. Mi sono fatto degli amici e, sai, ho incontrato di nuovo Kuroo, Kenma e Sugawara. Ci troviamo bene insieme; me la cavo. Tu?»
                «Vado anch’io all’università» disse, come se l’altro non lo sapesse. Come se non l’avesse visto in televisione. «Ci sono anche Nishinoya, Oikawa e Bokuto. Si fanno le solite cose, cerchiamo di ammazzare il tempo.»
                Lo schiacciatore annuì. «Parlo ancora con Noya. In realtà sapevo già fossi con lui. Mi sono sorpreso quando ho saputo in quale università era riuscito ad entrate; avrei potuto farcela anche io, in fondo» gli rispose. Si appoggiò alla saracinesca come lui aveva fatto poco tempo prima.
Hinata e lo studio non avevano mai avuto un rapporto diverso da quello che aveva Tobio con esso pochi anni prima. L’aveva visto impegnarsi, però, perché aveva avuto un sogno nel cassetto; nell’ultimo anno delle superiori avevano dato il meglio di loro per arrivare ai loro obiettivi. Aveva ammirato Hinata.
Parlarono a lungo, anche dopo che la pioggia si fu fermata. Avevano tante, troppe cose da raccontarsi, mille aneddoti, mille sfaccettature delle loro giornate, dei loro percorsi di studi, mille parole da condividere, e Tobio si scoprì interessato a voler ascoltare tutto. Aveva sistemato il libro nella tracolla, si era avvicinato al ragazzo, commentato scherzosamente la sua altezza, poi entrambi si erano seduti sul piccolo gradino davanti all’ingresso del bar.
E, semplicemente, avevano parlato fino a dimenticare il tempo.
                «Vivo in un appartamento che mi offre la scuola non tanto distante da qui. Non è enorme, ma ha tutto quello di cui ho bisogno ed è abbastanza per me. Non riuscirei a mantenere anche un lavoro con tutti gli impegni, e poi ha un bellissimo camino. Credo che potrei viverci per sempre, visto che si trova anche in un’ottima zona, ma prima o poi me ne dovrò andare» raccontò con tono sconsolato.
                Hinata lo osservò con sguardo confuso. «Perché non sei andato direttamente a casa invece che rintanarti qui sotto?»
                Ci pensò. «Pioveva troppo forte» rispose infine. «Mi sarei bagnato troppo, soprattutto considerando i semafori. Le auto non si fermano solo perché non ho portato con me l’ombrello.»
L’altro annuì. Fu il turno di Tobio di porre le domande: gli chiese dove lui abitasse, se era lontano dalla sua università, se era stato faticoso cambiare città ed allontanarsi dalla sua casa. Hinata rispose di sì.
                «Una delle decisioni più difficili che abbia mai preso» ammise. «Vivo da solo, un appartamento che mantengo con un lavoretto e un aiuto dai miei. Riesco a trovare un equilibrio a tutto, non ho impegni pomeridiani stressanti eccetto lo studio, e devo dire che non è diverso da alcuni anni fa. Anche allora non passavo mai a casa i pomeriggi, per cui va bene così.»
Una domanda gli balenò nella mente. Strinse le labbra, guardando un punto imprecisato dietro la figura di Hinata, indeciso se porla o meno. Sarebbe risultato insensibile? Tornò a concentrarsi sulla figura del più basso al suo fianco, ed era certo che fosse consapevole di quello a cui stesse pensando. Doveva capirlo dall’espressione del suo viso, un’unione tra dispiacere, rimorso e curiosità.
                «Hai più…»
                «No» ribattè prima ancora che finisse di parlare. Lo guardava, ma non davvero. Il suo sguardo correva ad anni prima, a quello che era successo. A quando tutto si era concluso, a quando aveva lasciato che gli scivolasse addosso come la pioggia di poco prima.
Aveva sempre amato la pallavolo, gli scorreva nel sangue; i suoi palmi erano nati per schiacciare, le sue gambe per scattare, correre, saltare più in alto della rete, i suoi occhi erano nati per osservare i movimenti del pallone, decidere la traiettoria di una schiacciata dalla vetta, attraverso la difesa avversaria. Eppure aveva ammesso la sua sconfitta.
Aveva lasciato portarsi via tutto.
Spostò lo sguardo chiudendosi in un silenzio teso. Si accorse solo allora che la pioggia aveva smesso di cadere, che probabilmente era tardi e lui non aveva cenato né tantomeno studiato, che era stanco dagli allenamenti e non vedeva l’ora di potersi riposare. Si alzò in piedi per poi pulirsi come meglio poteva dalla polvere; vide Hinata fare lo stesso, lentamente, per poi sistemarsi la tracolla sulla spalla e guardarlo.
                «Ci vediamo allora» lo sentì dire. Iniziò ad allontanarsi mentre estraeva dalla tasca un paio di auricolari.
                «Potremmo vederci qualche volta» propose prima che lo vedesse girare l’angolo.
Quello si fermò, voltandosi verso di lui e dicendo al alta voce che sì, sarebbe stata una buona idea, che avrebbero dovuto farlo presto. Poi sparì, e lui riuscì finalmente a dirigersi verso casa, mettere qualcosa sotto i denti e riposarsi abbastanza da poter sostenere, il giorno dopo, le lezioni e gli allenamenti. Presto avrebbe dovuto dare degli esami, ma stranamente non si sentiva nervoso; in quel momento era solo stanco.
 
Hinata Shouyou aveva appena indetto a casa sua una riunione straordinaria a cui avrebbero partecipato lui stesso, Sugawara, Kuroo e Kenma. In una scala di gravità da uno a dieci, l’oggetto della riunione arrivava al livello nove e lo trovava un numero decisamente abbastanza alto da poter far alzare tutti e farli radunare. Camminava tra le strade movimentate della città, immerso nelle luci degli appartamenti, dei semafori e dei fari delle migliaia di automobili che circolavano. Attorno a lui c’era confusione, ma al tempo stesso sembrava che tutta quell’atmosfera fosse studiata, coordinata per non sembrare tremendamente fastidiosa e opprimente; non c’era un particolare suono che prevalesse sugli altri, tutti invece si univano tra loro, e mai calava il silenzio. I locali rimanevano aperti fino a tardi, i ragazzi comandavano nelle strade per tutta la notte e chiunque, anche la più timida delle persone, avrebbe potuto trovare qualcuno con cui scambiare due chiacchiere in quell’ambiente caotico che, col tempo, Hinata stava imparando ad apprezzare. Si era trasferito quando aveva cominciato l’università e, anche se inizialmente aveva avuto problemi di orientamento, di adattamento, di qualsiasi tipo, ed era sicuro che avrebbe rinunciato a tutto e sarebbe tornato nella sua tranquilla zona natale, aveva incontrato proprio i suoi amici, e loro, soprattutto chi in quella città ci era nato e non l’aveva mai lasciata, l’avevano aiutato in tutto.
Si chiese se davvero lo avrebbero ascoltato: forse li aveva chiamati mentre erano impegnati, forse non appena sarebbe arrivato davanti casa li avrebbe trovati lì, seccati per l’improvvisa richiesta. Da quando si era trasferito, abbandonando la propria tranquilla vita di campagna, aveva sempre contato su di loro. Non credeva fino in fondo che ce l’avessero con lui in quel momento, ma di certo avevano pensato che un ragazzo della sua età avrebbe dovuto imparare a cavarsela da solo invece che contattare immediatamente i suoi amici.
Aveva ventuno anni, arrivava a stento al metro e settanta –anzi, a dirla tutta non lo raggiungeva-, per cui tutti lo scambiavano per un ragazzo delle superiori di bassa statura. Era sicuramente vivace, ma non troppo, determinato, mediamente responsabile; si poteva dire che fosse equilibrato, e che fosse cambiato rispetto a pochi anni prima, quando ancora non amava prendersi le proprie responsabilità e cercava di evitare qualsiasi incontro che potesse risultare spiacevole. Eppure questo non bastava ad impedirgli di contare sui suoi amici quando sentiva di averne bisogno.
L’università che frequentava era abbastanza distante dal suo piccolo appartamento –situazione che già conosceva, perché per andare alla Karasuno impiegava mezz’ora in bicicletta-, cosa che lo obbligava a svegliarsi abbastanza presto al mattino. Ciò nonostante era soddisfatto della sue scelta sia per quanto riguardava gli studi sia la casa, che riusciva bene o male a mantenere. Non era più grande di quella di Kageyama, in fondo.
Quando arrivò davanti alla porta di ingresso del condominio, i suoi amici erano già lì: Kuroo e Sugawara parlottavano tra loro, mentre Kenma era completamente preso nello scrivere un messaggio che sembrava essere di vitale importanza, ma che probabilmente non lo era.
                «Spero sia veramente una gravità livello nove, o potrei prenderti a schiaffi fino a farti stare male» lo minacciò Kuroo.
                «Dai dai, calmati, non era mai successo prima, nemmeno quando Daichi si era dimenticato di venire all’appuntamento e ho chiamato io la riunione. Sono sicuro che sia veramente importante» disse Sugawara.
                Kenma distolse lo sguardo dallo schermo mise le mani nelle tasche e lo guardò direttamente negli occhi, cercando di capire il motivo di quella chiamata improvvisa. Sembrò illuminarsi. «Oh. Veramente un grado nove.»
Kuroo, il suo ragazzo, lo guardava confuso e gli chiese diverse volte di spiegarsi mentre Hinata li superava per fare strada fino alla porta di casa al secondo piano.
Non sapeva, in realtà, come spiegare al meglio la faccenda. Lasciò che i suoi amici si sistemassero come volevano –Sugawara e Kenma seduti sul divano, il secondo aveva addirittura appoggiato i piedi sulla seduta, incurante del fatto che quello non fosse il suo arredo, mentre l’ultimo tra i tre aveva optato per accomodarsi su una sedia che aveva preso da vicino al tavolo- e appoggiò la borsa sul pavimento. Si diresse a passo veloce verso il frigorifero, perché  all’improvviso si era sentito assetato, come se gli effetti della conversazione avvenuta poco prima si stessero manifestando solo in quel momento. Sentiva la gola e le labbra secche e un caldo incredibile, ma cercava di imporsi di rimanere lucido: come dire ai suoi amici di aver appena rivisto, improvvisamente, il ragazzo che gli aveva fatto perdere la testa sin dalla prima superiore, e che questi era diventato ancora più bello di quanto fosse e si aspettasse? Come dire loro che, nonostante il tempo passato, la sua vicinanza gli mandava ancora in pappa in cervello, che la sua voce era ancora il suono più melodico che avesse mai ascoltato?
Appoggiato al frigorifero chiuso –beveva rigorosamente acqua ghiacciata, abitudine presa col tempo e mai dimenticata- aveva l’aria di chi aveva salutato il proprio amato prima che questi partisse per un lungo periodo, non di chi l’ha appena rivisto; nulla da biasimare, perché Tobio non provava le stesse cose e lui era solo uno stupido senza speranza.
                «Allora, cosa è successo di tanto grave?»
                «Ho rivisto Tobio» disse tutto d’un fiato, abbassando il capo.
Silenzio. Peggio di quanto si aspettasse. Trovò il coraggio di guardare i suoi amici solo dopo una ventina di secondi.
Kuroo aveva un sorriso sghembo sul volto, le sopracciglia sollevate e aveva la sua completa attenzione; si era seduto sulla sedia rivolgendo il petto allo schienale, sopra a questo v’erano le braccia, con le gambe divaricate in modo da poterlo guardare al meglio. Hinata avrebbe voluto sentirlo parlare, invece si ritrovava solo i suoi occhi da felino puntati addosso –occhi color nocciola, chiarissimi.
                «Sul serio? E non sei svenuto sul posto?»
Tipico do Tetsurouu, trasformava ogni occasione in una buona per qualche commento sarcastico, anche se sapeva essere maledettamente serio quando la situazione lo richiedeva. L’aveva detestato per la sua altezza –sfiorava il metro e novanta, dannazione- e i suoi capelli neri tirati in alto di certo non lo aiutavano a sentirsi meglio.
                «Molto simpatico, Kuroo. No, sono ancora qui» rispose piccato Shouyou, andandosi a sedere sul tavolo con le gambe penzoloni.
L’ex-capitano della Nekoma, una delle squadre di pallavolo più forti di Tokyo stessa, lo guardò ancora più divertito; il suo compagno, Kenma –si erano conosciuti alle superiori, entrambi giocavano a pallavolo ed erano compagni anche sul campo, il primo centrale e il secondo alzatore- lo guardò in malo modo con i suoi occhi dorati e affilati, e tra i due ci fu un breve e silenzioso scontro. Alla fine il più alto perse –Kuroo superava il metro e ottanta al contrario dell’altro che arrivava circa alla sua altezza- e si trovò obbligato a iniziare a riflettere seriamente alla sensazione.
Avevano entrambi deciso di abbandonare lo sport dopo le superiori, anche se a malincuore; in ogni caso, il corvino si concedeva di coltivare la sua passione in amichevoli con vecchie conoscenze. Hinata non aveva idea di come potesse stare con una persona riservata e apatica come l’ex-alzatore, dato che erano completamente opposti, e non solo caratterialmente.
                «Come hai fatto? Credevo saresti scappato nella direzione opposta al solo vederlo» commentò Sugawara, decisamente interessato alla cosa.
                «Non l’ho mica fatto di proposito» borbottò. «La colpa è del temporale di poco prima, sono dovuto correre a ripararmi sotto il primo tendone che ho trovato. Vi sembra giusto che Kageyama, tra tutti i luoghi disponibili, dovesse scegliere proprio quello?»
                «Tecnicamente» obiettò Kenma con voce pacata «Da quello che dici sembri essere stato tu il secondo ad arrivare. Sei tu che ti sei intromesso, non lui.»
                «Non c’è bisogno di essere così fiscali.»
Sugawara cercava sempre di calmare la situazione, e il più delle volte riusciva nel suo intento. Forse grazie ai tratti dolci che trasmettevano tranquillità solo a vederli, i grandi e rassicuranti occhi nocciola o la sua voce, ma era in grado di calmare molte situazioni che altrimenti sarebbero risultate spinose. Dai singolari, lisci, capelli grigi, Sugawara Kooshi era stato suo ex-compagno di pallavolo alla Karasuno, nonché alzatore titolare prima dell’arrivo di Tobio. Era stato felice di averlo ritrovato all’università, anche perché era stato lui a permettergli di riallacciare i contatti con Nishinoya, Kenma e Kuroo.
                «D’accordo, tecnicamente, ma non vi ho chiamati per discutere su chi è arrivato prima e chi dopo. Il fatto è che sono passati anni e io ancora non l’ho superata.»
                «Non l’hai superata perché non hai mai voluto farlo. In fondo aspettavi di incontrarlo in qualche modo, ammettilo» rispose Tetsurou.
                «Forse» commentò Kenma. «Scommetto che vi siete accordati per vedervi ancora, o quasi.»
                «Gli hai dato il tuo nuovo numero, vero? Non è colpa tua» lo rassicurò l’ex-compagno.
                «Lo ferirà ancora, e noi dovremo raccogliere di nuovo i cocci del suo cuore…» iniziò il corvino, serio.
                «E del suo orgoglio» aggiunse la sua metà.
                «…e la cosa non mi dà assolutamente problema, ma vorrei non doverlo fare. L’hai visto come si era ridotto la prima volta che ci ha parlato di quello che era successo» concluse, voltando l’intera sedia per poter guardare Sugawara.
                «Siamo cresciuti tutti, sono sicuro che anche per Tobio sia così» ribattè prontamente l’alzatore della Karasuno, mentre i due più bassi rimanevano in silenzio; Kenma sembrava stesse cercando di decidere quale delle due parti fornisse la migliore argomentazione per la sua causa.
                «Vorrei vederlo con i miei occhi invece di basarmi su supposizioni.»
                «Vorrei ricordarti che anche tu sei cambiato rispetto ad anni fa, e che tutti possono farlo. Non distruggere così le aspettative di Hinata, o sarai tu a fargli del male.»
                «Volete smetterla di parlare come se io non ci fossi?» si intromise il ragazzo in questione alzando il tono di voce, seccato e confuso.
Ebbe la totale attenzione degli amici, oltre che il silenzio. Kuroo sapeva essere alquanto protettivo nei suoi confronti –anche se non aveva idea del perché, ma sospettava una qualche relazione conclusa male prima di innamorarsi di Kenma- e il suo ex-compagno non avrebbe permesso a qualcuno di parlare in quel modo di un suo amico; sembravano essersi scambiati i ruoli in quel momento, ma anche lui, che in realtà era il diretto interessato, voleva dire la propria.
                «Sì, gli ho dato il mio numero di cellulare, ci siamo detti che ci saremmo rivisti. Kageyama è stato parte fondamentale della mia adolescenza» disse, per poi fare una pausa. Gli risultava tremendamente difficile spiegare quello che provava. «Ma non voglio ripetere le esperienze passate. Kuroo, hai ragione, ma non voglio nemmeno negarmi questa possibilità.»
                «Finirai col farti male, Hinata» gli disse.
Kenma, alle sue spalle, sospirò. Non c’era niente a quel punto che potesse fare. Lo sapeva: l’amico aveva scelto di rischiare già dal momento in cui aveva rivolto la parola a Tobio, dandogli la possibilità di riprendere velocemente quel posto nel suo cuore che sembrava non esserci più. Il suo ragazzo avrebbe potuto usare le migliori argomentazioni senza smuoverlo di un millimetro: quello che Shouyou provava per Kageyama era lo stesso tipo di sentimento che legava loro, con la sola grande differenza che, a quanto pareva, era a senso unico.
Sugawara si appoggiò al divano mentre Kuroo, sconfitto, si sedeva correttamente sulle sedia, dandogli le spalle. Hinata abbassò il capo mentre si mordeva lentamente il labbro inferiore; stava prendendo la giusta decisione? L’amico gli sarebbe stato accanto ancora una volta nel caso in cui Tobio lo avesse ferito ancora? Si sentiva forse ignorato, tradito?
Sospirò, pronto a ritirare tutte le sue parole, perché avere un amico certo era meglio che un amore traballante e non sicuro, ma si fermò; l’altro l’aveva anticipato sul tempo, parlando per primo.
                «Sarò qui se andasse male. Saremo qui» concluse serio, come se glielo stesse promettendo. «Ma ora apri il frigorifero a passami una dannata birra, lo so che lei hai per me. E prepariamo il divano-letto, non ho voglia di camminare fino a casa.»
Kenma sorrise e Hinata lo imitò, contento della reazione dell’amico, e subito fece ciò che gli aveva chiesto. Sugawara rimase fino a tardi, poi decise di tornare al suo appartamento –non troppo lontano da quello di Shouyou- visto che il giorno dopo, in realtà come tutti loro, avrebbe dovuto alzarsi presto.
Quando, una volta preparato il letto per gli amici, Hinata si stese sul proprio nella stanza non lontana dalla sala principale, poté sentire ancora la coppia parlare di quella situazione: di come si sarebbe scottato, di quanta poca fiducia avesse Kuroo in Tobio, di quanto tempo ci sarebbe voluto prima che lui superasse la pesante delusione che presto sarebbe arrivata. Kenma gli rimproverava di essere pessimista: il fatto che fosse successo una volta non significava che ce ne sarebbe stata una seconda: si trattava di aspettare, vedere l’evolversi della situazione nel vivo e agire di conseguenza. Se fosse andata male, ci avrebbero pensato loro, al contrario l’amico sarebbe stato felice. Bisognava che Hinata si buttasse, o l’avrebbe rimpianto per sempre.
Certo che quel dannato gatto riusciva a far parlare Kenma più di quanto quello facesse con tutti gli altri in un anno. Doveva essere quello uno degli effetti della totale fiducia che li legava.
Chissà se anche lui sarebbe riuscito a ottenerla.
 
                «E così all’improvviso te lo sei ritrovato davanti? Cos’è, uno scherzo, Tobio-chan? E smettila di fumare, Iwa-chan, ti ricordo che fai sport.»
Si trovavano in un locale; una serata di svago per tutti, letteralmente, visto che si erano portati dietro le dolcissime metà facendolo sentire tremendamente in imbarazzo. Bevve un sorso del suo drink e tornò a fissare lo sguardo su Oikawa che, con le gambe fasciate da un paio di jeans neri oscenamente aderenti, camicia bianca parzialmente sbottonata e anfibi, era seduto sul divanetto dal lato opposto del loro tavolo. Se non fosse stato appoggiato ad Iwaizumi, che dal canto suo si era conciato alla meno peggio indossando una comoda felpa senza maniche e dei jeans abbinati che doveva aver trovato al volo, in modo così palese, si poteva credere che fosse alla ricerca di qualcuno con cui avere una sveltina. La pelle diafana, così in contrasto con quella abbronzata del suo ragazzo, lo faceva apparire quasi innocente –ma tra gli aggettivi che avrebbe usato per descriverlo quello non vi rientrava nemmeno per sbaglio.
                «No, sto dicendo sul serio. L’attimo prima stavo leggendo un paragrafo e quello dopo me lo sono ritrovato di fronte.»
Si trovavano in quel luogo da un’ora circa. Avevano ballato sotto le luci stroboscopiche a ritmo di musica per tutto il tempo e solo da poco si erano seduti per riposarsi e forse passare così il resto della serata. Con “avevano ballato” intendeva ovviamente Tooru, Nishinoya e Bokuto inizialmente, seguiti dai rispettivi fidanzati solo in un secondo momento, che erano stati mossi da altro più che dalla voglia di ballare. Iwaizumi dalla gelosia, perché Oikawa si muoveva dannatamente bene ed era guardato da fin troppe persone che facevano di tutto per finirgli accanto, ma che facevano fatica a causa di tutte le persone ammassate in poco spazio; tuttavia, l’ex-ace dell’Aoba Johsai aveva deciso che anche solo gli sguardi fossero un motivo sufficiente per alzarsi, anche perché Tooru sembrava che volesse fargli saltare i nervi di proposito, forse per ottenere qualcosa a letto. Nonostante anche Nishinoya, inaspettatamente, si muovesse bene quanto Oikawa, con movimenti fluidi e provocatori, reso attraente anche dal modo semplice, ma allo stesso tempo studiato, in cui si era vestito –quei jeans gli stavano dannatamente bene- Asahi si era alzato solo per evitare di perderlo di vista per poi non impiegare troppo tempo a trovarlo in seguito: si fidava troppo dell’ex-libero per pensare male di lui, voleva solo che non rimasse solo. Non che Iwaizumi non si fidasse nel suo ragazzo, erano gli altri a preoccuparlo.
Bokuto si muoveva malissimo, lo capiva anche uno come lui che di ballo non ne capiva nulla, e Akaashi si era alzato solo per evitare che si mettesse troppo in mostra per poi pentirsene il giorno dopo; nel momento un cui aveva lasciato il suo posto sul divanetto di fronte a lui, Tobio aveva potuto leggere l’esasperazione nei suoi occhi. Aveva osservato il ragazzo dirigersi lentamente verso l’altro –doveva ammettere di aver anche posato lo sguardo un po’ troppo in basso, ma a sua discolpa era da sottolineare che la schiena di Akaashi, nascosta dall’aderente maglietta blu scuro, non era meno attraente che il resto di lui- e finalmente raggiungerlo. Gli aveva poi sussurrato qualcosa all’orecchio, stringendogli un fianco con un fare che Tobio non seppe ben definire, e subito Bokuto aveva fatto retromarcia, seguendo il suo ragazzo verso il divanetto e sedendosi su una delle sedie accanto al tavolino; le spalle erano lasciate scoperte dalla canottiera larga e Kageyama fu costretto a distogliere lo sguardo.
Non provava quel genere di cose per i suoi amici, ma aveva gli occhi e non poteva negare che fossero un gruppo non poco attraente. Lui stesso era consapevole di esserlo –dopotutto era uno sportivo come loro e si notava dal suo fisico, ora parzialmente esposto grazie ai pantaloni aderenti e la camicia dalle maniche arrotolate.
Si era perso parte della conversazione, nemmeno ricordava quale fosse l’ultima cosa che aveva detto ad Oikawa. Imbarazzato, sperò che non si notasse troppo, ma fortunatamente il suo amico doveva essere stato distratto da qualcosa, poiché solo in quel momento tornò a prestargli attenzione.
                «E cosa hai fatto?» gli chiese proprio l’ex ace della Fukorodani.
Quando? Una parte della sua mente gli vene in soccorso, suggerendo che Tooru si riferiva al momento in cui si era ritrovato davanti Hinata. Si riscosse e bevve un altro sorso del suo drink.
                «Cosa avrei dovuto fare? Ho continuato la conversazione, e gli ho chiesto il numero di telefono. Siamo pur sempre ex-compagni.»
                Tooru alzò le sopracciglia, finendo il suo alcolico. «Peccato che non abbiate continuato a giocare insieme, quel piccoletto sembrava davvero destinato a diventare grande» commentò sistemandosi meglio sul suo “cuscino personale”, il quale non sembrava farci troppo caso, troppo impegnato a lanciare occhiate a tutti coloro che li guardavano.
                Nishinoya, che fino a quel momento era rimasto in disparte con Asahi, disse poche ma efficaci parole, quasi intimandole: «Fa’ silenzio, Oikawa.»
Il ragazzo alzò le mani e sorrise, come a dire che aveva capito di dover stare lontano da quell’argomento. Si impegnò in una conversazione con Bokuto e Akaashi, lasciando cadere quella con Kageyama, che si rivolse alla coppia rimanente. Noya non sembrava contento che avesse incontrato nuovamente Hinata, mentre Asahi fungeva da spettatore, come se sapesse che era una questione che l’altro non toccava facilmente.
                «Sembri pensieroso» disse improvvisamente, tentando di muovere la situazione. Era quasi tentato di andare al bar e prendere un secondo drink, visto che il suo era finito, ma l’amico gli rispose prima che potesse muoversi.
                «Sono preoccupato» gli rispose, sorprendendolo. «Potrebbe non essere la migliore delle situazioni per Shouyou.»
                Scrollò le spalle. «Non è andata male, davvero. Considerando come ci siamo salutati non credevo sarebbe stato così semplice.»
Vide l’amico alzare le spalle, silenzioso come mai l’aveva visto. In quel momento si rese conto di quanto tutte le persone che lo circondavano fossero cambiate rispetto a quando le aveva conosciute, o addirittura come queste si fossero rivelate totalmente diverse. L’esempio più lampante era stato Bokuto, che aveva considerato in modo totalmente errato: nonostante l’apparenza, aveva loro detto che non era stato difficile per lui riuscire ad accedere a quella prestigiosa università, e si era rivelato molto più responsabile, serio e logico di quanto credesse –anche se non mancava il suo lato esuberante, lunatico e a tratti infantile che il tranquillo e calcolatore Akaashi gestiva alla perfezione. O almeno, quasi: quando, all’inizio del primo anno di università di Tobio, Bokuto aveva dichiarato davanti a mezzo corpo studentesco che amava Akaashi Keiji, l’altro non l’aveva presa nel migliore dei modi. Pur frequentando università diverse, sapeva quanto il suo ragazzo fosse popolare, e aveva loro raccontato di essersi sentito tremendamente in imbarazzo quando aveva saputo della cosa.
Aveva quindi creduto di aver incontrato due persone che conosceva perfettamente quando si era ritrovato con Asahi e Noya, ma si era sbagliato ancora.
L’ex-asso si era sciolto dalla sua timidezza. Non che fosse diventato un gran chiacchierone, ma non era sicuramente più impacciato come lo ricordava –e in questo doveva aver aiutato la costante presenza dell’ex-libero attorno a lui-, ma anche l’altro l’aveva sorpreso con grande serietà e senso di responsabilità, senza tuttavia abbandonare quell’orgoglio che l’aveva accompagnato durante quegli anni.
                «Posso capire che per te sia stato semplice parlarci come se nulla fosse successo, ma Shouyo non è come l’hai sempre immaginato, Kageyama» gli rispose a tono, mentre Asashi gli stringeva un fianco per farlo calmare.
                «Avevo giudicato bene la sua incoscienza, visto quello che ha combinato» ribattè piccato. «La colpa è sua, ha deciso lui di buttarsi in questa situazione, non l’ho certo spinto io.»
                «Kageyama…!»
                «Nishinoya» lo richiamò Akaashi, il quale era seduto accanto a Iwaizumi sul divano. «Meglio fermarsi qui.»
Dall’azzurro sguardo glaciale, perfettamente consapevole di ciò che lo circondava anche quando sembrava l’opposto, capelli neri ed una perenne espressione mista tra l’annoiato e il seccato, l’ex-alzatore della Fukorodani aveva sempre avuto con Tobio un rapporto a compartimenti stagni: andavano d’accordo su molte questioni, ma si fronteggiavano apertamente su altrettante; quella rientrava nel secondo caso, e lo capiva non solo dal fatto che si fosse “schierato” con l’ex-libero, ma anche dal modo in cui lo stava guardando: lo stava trapassando, giudicando, si vedeva chiaramente.
Tobio non se la prese, ma fu costretto a tacere e a cambiare repentinamente argomento, oltre che direzione del proprio sguardo.
 
                «Non è stato facile nemmeno per te» gli disse d’un tratto Oikawa
Iwaizumi gli aveva affidato il suo ragazzo, facendolo andare a piedi mentre lui sarebbe comodamente tornato a casa in auto, perché “non ho più la forza di stare dietro alle sue stronzate un secondo di più, pensaci tu e fallo arrivare a casa intero”, e dato che avrebbero comunque dovuto fare la stessa strada, accettò l’incarico. Ma Oikawa non era ubriaco, nemmeno lontanamente –si era meritato quella punizione solo perché aveva fatto dannare il suo ragazzo per tutta la sera, provocando chiunque gli capitasse a tiro- e stava anzi per iniziare con lui il peggior discorso che potesse. Strinse le mani nelle tasche e non rispose, perché quella non era una domanda, ma un dato di fatto.
Dannazione, era lui ad essere un libro aperto o Tooru a saperlo leggere bene?
Il castano era sempre stato un dannato damerino con i capelli troppo perfetti ed un talento innato per la pallavolo, spocchioso e egocentrico, ma era stata la prima persona in quella scuola ad avergli rivolto la parola -«Sei davvero tu, Tobio-chan, non ci vediamo da parecchio.»- e a non averlo fatto sentire come un pesce fuor d’acqua. L’aveva aiutato, sorprendentemente, sebbene le cose tra loro non fossero sempre state rose e fiori, ad ambientarsi, a giocare meglio, gli aveva fatto conoscere altre persone. Gli era grato, perché si era dimostrato disponibile con lui, mostrando un lato della sua personalità che Tobio non credeva avesse.
                L’amico si passò una mano tra i capelli. «Tu e il piccoletto siete sempre stati una strana coppia» continuò. «Non ti ho creduto, inizialmente, quando mi hai raccontato cosa fosse successo, cosa aveva scatenato tutto. Mi sono deciso a prendere la faccenda sul serio dopo aver notato che effettivamente non parlavi mai di lui, non lo chiamavi, non gli scrivevi» mormorò, non certo abituato a parlargli in quel modo. «Non so se il vostro incontro sia stato positivo o negativo, ma so che sarà la vostra ultima occasione: potrete rimediare, o lasciare che tutto vi scivoli dalle mani senza controllo.»
Camminarono in silenzio per diverso tempo. Kageyama guardava la strada davanti a sé, immerso in pensieri che, lo sapeva, avrebbe riordinato a fatica. Avrebbe procrastinato come sempre, evitando di pensare alla matassa nella sua testa fino a quando non sarebbe stato un enorme nodo senza più filo a renderlo più grande; solo allora si sarebbe reso conto di dover prendere in mano la situazione.
                «Come faccio a sapere qual è la scelta migliore?» chiese di getto, ma a bassa voce.
L’altro sospirò; riuscì a vedere, a causa del freddo, l’aria che lasciava le sue labbra. Sembrò rifletterci per un momento, e nel mentre continuavano a camminare l’uno accanto all’altro, con le mani affondate nelle tasche –ora entrambi indossavano una giacca pesante.
                «Non lo so» gli rispose infine. «La situazione è completamente diversa da quella da me vissuta. Quello stronzo di Iwa-chan e io siamo sempre stati amici, sempre insieme, vicini. Abbiamo quasi sempre discusso per brevi periodi, e solo perché ha uno strano modo di consolare le persone che prevede l’alzare la voce invece che usare parole dolci. L’unica volta in cui abbiamo rischiato di non tornare più come prima è stata tanto tempo fa» continuò con tono dolce e malinconico, facendo capire che quel periodo lo ricordava ancora come se si fosse concluso solo il giorno prima, ma che, nonostante tutto, non faceva una colpa ad Iwaizumi di ciò che era successo. «Tu e chibi-chan siete davvero incasinati, lasciatelo dire. Spero di poterti dare delle risposte migliori con il passare del tempo.»
 
Si erano visti diverse volte, ma la cosa che accumunava più le uscite era stato l‘orario ogni volta improbabile a causa dei loro impegni, il lavoro di Hinata e l’allenamento di Tobio, gli studi di entrambi. E avevano degli amici ai quali non potevano rinunciare, per cui intere giornate volavano dedicate a loro. Si incontravano spesso in un bar abbastanza sconosciuto che aveva conquistato Hinata sin da quando era arrivato alla metropoli, perché era accogliente e poco movimentato. Diceva che gli ricordava le strade silenziose di casa, quando ancora riusciva a dormire sdraiato sulla morbida erba di un parco senza che fosse disturbato dal rumore assordante delle auto. Kuroo ripeteva che non era poi così tremendo, ma lui era originario della città ed aveva sempre vissuto in quel modo, e probabilmente era per quello che riusciva a riposare tranquillamente senza troppi scrupoli. Di certo non potevano dormirci, ma almeno lì si sentivano più al caldo, non solo fisicamente.
Era arredato in modo accogliente e ogni volta sedevano allo stesso tavolino. Parlavano per ore saltando da un argomento all’altro, ridevano di aneddoti che avevano accumulato, si facevano seri su questioni che lo richiedevano. Hinata ordinava sempre della cioccolata calda, e Kageyama ricordò quanto già alle superiori l’amasse; lui preferiva il caffè, sia perché lo aiutava a tenersi sveglio –la stanchezza aumentava con l’avanzare dell’anno, aveva davvero bisogno di una pausa- ma anche perché non riusciva a rinunciare al gusto amaro che lo caratterizzava.
In quel momento stavano parlando dei loro compagni, scambiandosi le notizie che avevano su di loro in modo da informare l’altro.
                «Daichi frequenta un’università diversa da Sugawara, ma sono ancora una coppia. Tsukishima l’ho sentito poco tempo fa, dice che la sua vista continua a peggiorare, ma che se la cava, Yamaguchi gli dà una mano quando si sente troppo male per fare qualsiasi cosa.» Tsukishima aveva scoperto di essere affetto da “Retinite Pigmentosa” durante l’ultimo anno delle superiori –una malattia genetica che nel suo caso, però, si era verificata in maniera sporadica. Portava ad una continua degenerazione della vista, prima crepuscolare e notturna, in seguito anche periferica e centrale, e non era curabile. Aveva allora capito perché, sin da bambino, la sua vista avesse continuato a peggiorare fin troppo velocemente, anche se generalmente i primi sintomi si verificavano verso l’età adulta. «Deve essere frustrante sapere di non poter fare nulla. Vorrei andare a trovarlo a breve.»
Kageyama rimase in silenzio, perché doveva ammettere di sentirsi in colpa: nonostante lui e il biondo non fossero andati mai troppo d’accordo, avrebbe dovuto chiamarlo per sapere le sue condizioni; si appuntò mentalmente di farlo non appena fosse tornato a casa, o magari quando ci fossero stati anche Bokuto e Akaashi –erano diventati amici quando ancora erano in prima superiore, ma Tobio non sapeva se Tsukishima avesse loro detto della sua condizione.
                «Di Nishinoya e Asahi immagino tu già sappia» cominciò allora a raccontare. «Da Yuu ho notizie sia su Tanaka, che da quando si è trasferito all’estero non fa altro che raccontare tutto nei minimi dettagli, tanto che ci sembra di vivere con lui, sia sulle ragazze, che stanno bene e si sentono tra loro, pur non frequentando la stessa università. Hitoka ha seguito le orme della madre e ha scelto grafica.»
Vide l’altro portare la tazza di cioccolata alle labbra e berne una quantità generosa, poi sembrò ricordarsi di un avvenimento importante. Gli mollò la notizia all’improvviso.
                «Lo sai, Kuroo e Kenma si sposano!»
Quasi si strozzò con il suo stesso caffè. Tossì alcune volte sotto lo sguardo preoccupato di Hinata, che si era alzato di scatto dalla sedia facendo per raggiungerlo; si calmò prima e tornò a fissarlo, con gli occhi lucidi a causa dell’incidente.
                «Sul serio? Quando è successo? Avrei scommesso sarebbero stati Bokuto e Akaashi i primi, dannazione.»
                L’altro scosse le spalle. «Una settimana fa, anche se Kuroo ne aveva parlato con me e Suga da diverso tempo –era tremendamente insicuro, cavolo! Ci ha impiegato più tempo di quanto pensassi» raccontò, tornando a dedicare la sua attenzione alla cioccolata calda. «Alla fine è andata ancora meglio di quanto pensasse, perché per una volta Kenma non aveva immaginato quello che avesse in mente ed è riuscito a mantenere l’effetto sorpresa. Anzi, l’altro aveva anche chiesto consiglio a me su come comportarsi con Kuroo, perché gli era sembrato così strano negli ultimi tempi che stava iniziando a preoccuparsi.»
Tobio si appoggiò allo schienale della sedia, aggiungendo alla lista delle cose da fare anche chiamare quell’uomo-gatto per congratularsi con lui. Era, in verità, sorpreso che Bokuto e Akaashi non gliel’avessero detto, e anche Oikawa doveva esserne a conoscenza. L’idea che, forse, non sarebbe dovuto venirlo a sapere, si insinuò nella sua mente molto rapidamente, e più ci pensava più credeva di aver ragione.
Ormai il danno era fatto, si disse.
                «Non me l’aspettavo» ripetè. «Akaashi è sempre stato il più maturo dei tre, pensavo avrebbe tirato fuori una scatolina di velluto da un giorno all’altro, e Oikawa sembra aspettare la proposta da una vita. Sono sorpreso.»
                «Questo l’hai già detto» ridacchiò Hinata.
                «Sta’ zitto!» ribattè spostando lo sguardo verso la strada che si vedeva attraverso la finestra.
Era passato un mese da quando l’aveva incontrato. Si chiedeva se avrebbe mai trovato le risposte che cercava, se tutto sarebbe finito, e soprattutto come. Guardò una persona camminare solitaria lungo la strada: aveva in testa un berretto, il collo coperto da una sciarpa e un lungo cappotto. Il capo era basso. Si chiese se anche lui apparisse in quel modo, se anche lui fissasse la strada vicino ai suoi piedi invece che dritto davanti a sé.
Era in silenzio da diverso tempo. Decise di parlare lui per primo questa volta, con il solo argomento che ancora non avevano toccato.
                «Gli allenamenti di pallavolo procedono bene» mormorò. «Oikawa e gli altri sono migliorati tantissimo, anche se io cerco di darmi da fare il più possibile. Tooru è ancora  convinto che sia più bravo di lui come alzatore per via del mio talento naturale, ma continua ad avere il dominio delle schiacciate. Inoltre, combinato con Iwaizumi è inarrestabile, e ora che riesce a trarre anche tutto il potenziale di Bokuto –ti ho detto che Akaashi frequenta una scuola diversa, vero?- è formidabile. Io non riesco ad adattarmi in così poco tempo.»
Hinata abbassò lo sguardo sulla tazza bianca quasi vuota e si prese del tempo per pensare. Kageyama sentiva le sue gambe muoversi nervosamente sotto il tavolino; anche lui provava la stessa cosa, anche se per natura diversa. Si poteva dire che il più basso fosse ansioso o spaventato, mentre lui era di quel nervoso che sfocia nel seccato: lo prendeva quella sensazione che avrebbe potuto permettergli di alzarsi e lasciarlo da solo da un secondo all’altro. Non sopportava il modo in cui Hinata stava affrontando la situazione, soprattutto considerando come i fatti si erano svolti, anni prima.
                «Sei sempre stato egocentrico, ma davanti ad Oikawa ti sei sempre inchinato, come un re si inchina davanti ad un sovrano più forte, ricco e amabile di lui. Assurdo che Tooru faccia la stessa cosa; non potreste semplicemente ammettere di essere alla pari?» domandò a voce bassa.
“Essere alla pari” di qualcuno non era ammissibile per uno come lui; voleva superare gli altri, o essere inferiore per poterlo fare. Non aveva senso tentare di vincere una sfida che sapeva sarebbe rimasta per sempre in quello stato, in bilico tra due scelte. In squadra in quel momento erano entrambi titolari solo perché l’allenatore credeva che fossero indispensabili, ma ci sarebbe stata una scelta, un giorno, e lui non voleva essere scartato.
Voleva rimanere in campo, proprio come diceva il ragazzo di fronte a lui fino a pochi anni prima.
Se si concentrava poteva ancora sentirlo gridare, steso sul pavimento freddo e pieno di sudore della palestra in cui si trovavano.
                «Smettila di pensarci» si sentì dire.
                «Non dirlo, non ora.»
Hinata sospirò pesantemente prima di alzarsi e portare la tazza al bancone –perché non la lasciava mai al tavolo. Era ancora seduto quando gli passò accanto, si avvinò al suo orecchio e gli parlò, tremando, come se fosse tremendamente difficile anche solo pensare quelle parole. Dopotutto, se non l’aveva accettato Kageyama, come poteva farlo lui?
                «Non fissarmi con quell’espressione impietosita che ti cuci addosso ogni volta che mi vedi. Non giocherò più a pallavolo, Tobio.»
 
Una cosa di cui è certo è che gli allenamenti della Karasuno sono sfiancanti, non sa se si abituerà mai davvero. Scatta, corri, frena, salta, schiaccia, rotola. Si trova completamente immerso nel ripetere meccanicamente quelle azioni, sempre più in fretta, sempre con più forza; le gambe stanno iniziando piacevolmente a bruciare –ma il giorno dopo non sentirà altro che un leggero dolore muscolare, e solo nel caso fosse andata male.
Kageyama continua ad alzare da un lato della rete, a turno corrono e battono come meglio riescono. La sensazione di colpire la palla, mandarla dall’altra parte ad una velocità che spesso lasciava sbalorditi i loro avversari, lo ripaga di tutti gli sforzi che aveva fatto e continuava a fare. Deve ammettere, però, che anche i pallonetti non sono  male, e che essere l’esca gli riesce dannatamente bene –anche se rimane un po’ deluso quando il suo compagno non alza a lui, solo perché a Hinata non importa cosa succeda, lui salta al meglio delle sue possibilità.
Si piega sulle ginocchia e respira  profondamente, poi beve dalla borraccia gentilmente passatagli da Shimizu. Guarda i suoi compagni imitare i movimenti che aveva compiuto lui pochi secondi prima, l’ultima serie di questi. Non vuole fermarsi, può ancora dare molto su quel campo, può allenarsi fino a quando i suoi muscoli non reggeranno il suo peso. Per questo si affretta a rimettersi in fila, sotto lo sguardo divertito, esasperato o contento degli altri; Tobio gli rivolge uno sguardo complice, si prepara a ricevere la palla che Hinata stesso lancerà in aria.
Un salto in corsa dura pochi secondi, non importa quanta elevazione si possa raggiungere. Si svolge velocemente, eppure consuma notevole energia, soprattutto se ripetuto innumerevoli volte sempre di corsa. I muscoli non solo delle gambe lavorano, i piedi si staccano dal suolo, un braccio punta dritto davanti a sé mentre l’altro si prepara a colpire, a schiacciare. Il tempo si ferma, o almeno per Shouyou è così, i colori svaniscono, ma l’udito si affina. Sente l’oggetto delle sue attenzioni arrivare precisamente davanti alla sua mano, e non ci pensa nemmeno prima di agire, come un movimento automatico. Ciò che vede mentre si trova in alto, là, nel punto più lontano dal suolo che riesce a raggiungere, sarebbe capace di farlo scoppiare a piangere da un momento all’altro, anche se in realtà sono proprio momenti quelli che trascorre sospeso in aria.
Non piange, ma si distrae.
Il contatto col suolo non avverrà normalmente, lo capisce ancora prima che questo effettivamente avvenga. Lo sa, Hinata, che questa volta non si alzerà; è preparato, si dice. Pensieri, questi, che gli attraversano la mente in poche frazioni di secondo, prima che un rumore sordo gli invada le orecchie, seguito da un fischio acuto. La stanza gira in modo assurdo, e perché diavolo la luce è così forte? Perché vede quelle macchie bianche?
Sente, in sottofondo, qualcuno che urla. Cosa sta succedendo?Perchè così tante persone gli sono attorno? Quell’assurdo fischio non smette di riempirgli le orecchie, inizia a trovarlo fastidioso. Chiude di scatto gli occhi, li serra. Perché lo stanno spostando? Chi sta urlando così forte? Perché nessuno controlla?
Il dolore arriva improvvisamente. Il fischio sparisce, gli sembra di non avere più la gamba, ora capisce che quelle grida spaventose vengono da lui, Hinata stesso riempie la palestra con quel suono assordante. Si morde le labbra a sangue, cessando quanto più possibile di far smettere quella tortura. Le voci ovattate dei suoi compagni dicono che i soccorsi stanno arrivando, gli intimano di stare immobile quanto più riesce, nel mentre qualcuno cerca ghiaccio e qualcosa per alleviare il dolore. Sente in bocca il sapore ferreo di sangue, e ancora non accenna a riaprire gli occhi –teme quello che potrebbe vedere.
Sviene poco prima di ricominciare a gridare.
 
                «L’infortunio è grave. Ci sono due opzioni, la prima che ti dirò è quella che più ti suggeriamo: l’operazione. Richiede molta più riabilitazione, ma è ti eviterà problemi in futuro. Senza l’intervento, semplicemente aspettando un anno, solamente con l’esercizio, non ti sarà concesso di sforzarti troppo, o l’intera tua carriera verrà compromessa. Certo, in questo modo saresti in grado di giocare all’università per quasi un anno.»
                «Non credo di aver capito bene, mi scusi» risponde sentendosi leggermente scosso. I suoi genitori, al suo fianco, gli stringono una mano. Sua sorella è al lato opposto del letto.
                Il dottore sorride dolcemente. «Puoi decidere di sottoporti all’intervento, ma rimarresti fermo più a lungo poiché la riabilitazione richiede più tempo. Oppure puoi scegliere di saltare il primo passo, praticare esercizi appositi per almeno un anno e giocare per un periodo di almeno un anno all’università, ma in questo modo peggioreresti la tua situazione.»
Hinata ha concluso il secondo anno di superiori. Con l’operazione non ha idea di quando tornerà a giocare, mentre scegliendo la seconda opzione sarebbe stato chiaro, ma ci sono rischi pericolosi. Preme le labbra l’una contro l’altra, indeciso. Guarda i suoi genitori, e sa immediatamente quale scelta vogliono che prenda.
Vuole lo stesso?
Sposta velocemente lo sguardo dal dottore alla sua gamba, ai suoi genitori, al pallone che i suoi compagni gli hanno lasciato poco prima. Pensa a Kageyama, alla promessa che si sono fatti di impegnarsi per riuscire entrambi a entrare alla prestigiosa università di Tokyo a cui aspirano, e allora decide. Quella situazione creerà non pochi disaccordi con i suoi genitori, si dice.
                «Voglio giocare.»
Sente diversi sospiri, ma lui è convinto delle proprie parole. Non rinuncerà a giocare con Tobio all’università.
 
                «D’accordo, Tsukki, ma di tanto in tanto potresti farti sentire! Possiamo anche passare a trovarti, che ne dici? Non ci farà male staccare dallo studio» propose Bokuto a voce alta.
Kageyama aveva chiamato il suo amico –si era finalmente deciso a considerarlo in quel modo- quando erano presenti anche gli altri, dopodiché aveva messo la chiamata in vivavoce in modo che non dovessero passarsi a turno il cellulare. In quel momento attorno al piccolo affare c’erano lui, Akashi e la sua dolce metà, Oikawa e Iwaizumi; la conversazione era iniziata già da quasi un’ora, e sembrava che stesse per concludersi. Era da sottolineare che, in realtà, erano stati Bokuto e, sorprendentemente, Akaashi a tenere occupato Tsukishima per la maggior parte del tempo, mentre loro avevano avuto occasione di parlare poco e di ascoltare le sue risposte.
Sembrava stesse bene per il momento, solo alcuni giorni sembravano essere più pesanti degli altri, e in ogni caso non era solo. Si chiese se anche lui sarebbe stato aiutato come lui se gli fosse successa una cosa simile, e sperava di sì.
Chiusero la chiamata promettendo di vedersi in breve tempo, poi tornarono a sedersi comodamente sui divani presenti in casa di Oikawa. Tooru diceva di voler contare il meno possibile sulla sua famiglia, ma ciò non toglieva che avesse una casa molto più grande della sua –serviva per convivere con Iwaizumi, diceva- che, Tobio lo sapeva, avrebbe potuto ospitare tutti loro tranquillamente. Aveva una camera degli ospiti, in più c’erano i divani, semplicemente avrebbero dovuto dividersi i posti –ma Kageyama si sarebbe inevitabilmente ritrovato sul divano, essendo l’unico solo.
Il programma della giornata era una sessione di studio in vista degli esami, ma sembrava più un ritrovo tra amici che occasionalmente leggevano qualche paragrafo. Akaashi e Bokuto cercavano già di organizzare il viaggio, Oikawa e Iwaizumi sembravano nel mezzo di un’infantile discussione, e lui si sentiva l’unico ancora abbastanza concentrato da poter approfittare della situazione e mettersi avanti con lo studio. Sbuffando, si preparava a concentrarsi davvero.
                «E a te come va con Hinata, Tobio?» gli chiese Bokuto con tutta l’innocenza del mondo, senza accorgersi di come il suo ragazzo abbia immediatamente cambiato espressione, né di come Tooru abbia spostato lo sguardo.
                «Niente di speciale. Siamo amici, direi» risponde con tono neutro senza alzare lo sguardo dal libro.
                «Amici? Mi stai dicendo che in un mese di uscite avete raggiunto solo quel punto?» interviene Iwaizumi scrollandosi di dosso il castano appoggiato a lui, che finisce rovinosamente sul pavimento e gli lancia alcuni improperi.
                «Non so nemmeno se sia vero. Sembra quasi che il suo umore cambi nei giorni, a volte siamo amici, a volte sembra non conoscermi nemmeno. Mi manda in confusione, in verità.»
                Akaashi continua a fissarlo impassibile, anche mentre Bokuto riprende a parlare. «Il piccoletto sembra essere cambiato» dice, sorprendentemente serio. «Anni fa non avrebbe impiegato così tanto tempo ad aprirsi con qualcuno, e poi non stiamo parlando di uno sconosciuto. Con te? Si può sapere cosa è successo tra voi, Kageyama?»
Oikawa smise di lagnarsi con “Iwa-chan” su quanto fosse rude e assunse un’espressione tesa. Tobio sapeva di averne parlato solo con lui, e dall’espressione del suo ragazzo intuì che non doveva avergliene fatto parola, ma Akaashi… in un attimo, Tobio si rese conto che, effettivamente, lui avrebbe potuto sapere. Non perché glielo avesse direttamente detto, ma perché era dannatamente intelligente ed intuitivo; era a conoscenza dell’infortunio di Hinata come l’erano tutti –era anche andato a trovarlo in ospedale- e non doveva essere difficile per lui collegare la loro separazione con l’unico evento traumatico che avrebbe potuto scatenarla.
                «Abbiamo scelto università diverse» mormorò, sapendo che non avrebbe ingannato nessuno.
                «Anche io e Akaashi» ci tenne a sottolineare «ma non mi pare che questo sia bastato a farci allontanare, anzi.»
Sentiva la pressione farsi più pesante mentre cercava un modo per uscire da quella situazione spinosa. Avrebbe voluto chiudere il becco di quel gufo prima che potesse girare il coltello nella piaga.
                «Eravate una coppia, io e Hinata solo amici, e le amicizie si perdono, si trovano. Succede e basta.»
                «Ma-»
                «Bokuto» intervenne il suo ragazzo. «Non è il caso.»
Calò il silenzio. Oikawa, che si era nuovamente sdraiato sul divano e in quel momento aveva la testa appoggiata sulle gambe incrociate di Iwaizumi, sospirò pesantemente; gli altri si immersero nella lettura dei libri davanti ai loro occhi, non sapendo come spezzare l’atmosfera tesa che si era creata. Pensava, Tobio, che c’era un argomento di cui avrebbe voluto discutere con tutti loro. Non era certo fosse la cosa migliore da fare –anzi, probabilmente avrebbe solo peggiorato la situazione- ma si disse che era meglio approfittare della tensione di quel momento ed evitare di crearne altra in futuro.
                «Kenma e Kuroo si sposano. Lo sapevate?»
Bastarono pochi secondi a fargli capire effettivamente che sì, ne erano a conoscenza e che, ancora sì, lui non ne avrebbe dovuto sapere nulla. Lo vedeva da come Bokuto stringesse più forte le pagine del libro, da come Oikawa avesse chiuso gli occhi, sospirando ancora.
Non gli importava molto di Kuroo. Erano stati avversari, forse anche amici, ma non lo considerava indispensabile per la sua vita. Probabilmente ad un futuro e ipotetico matrimonio l’avrebbe invitato, ma la cosa non doveva necessariamente essere reciproca, si diceva. Ciò che più di ogni cosa gli importava, in quel momento, era il fatto che i suoi compagni non gliel’avessero detto. Nemmeno Akaashi, che odiava tremendamente i segreti quanto lui, nemmeno Iwaizumi, il cui senso dell’amicizia lo spingeva a non mentire mai, nemmeno nelle situazioni peggiori.
Tobio non si sentiva escluso, ma tradito. Gli sarebbe passata, pochi giorni e si sarebbe lasciato la storia alle spalle tornando esattamente come prima. In fondo era solo uno stupido matrimonio, a cui tutti eccetto lui sarebbero andati, a cui tutti si sarebbero divertiti tranne lui, che sarebbe rimasto a casa.
Forse gli importava più di quanto si rendesse conto. Sentiva gli occhi pizzicare fastidiosamente, sbuffò e iniziò a raccattare le sue cose. Sembrava un bambino capriccioso, appiccicoso e tremendamente seccante, e se ne rendeva conto, eppure non riuscì a impedire a se stesso di alzarsi in piedi e mettersi la tracolle sulle spalle.
                «Tobio» lo chiamò Oikawa.
                «Aspetta, Tobio» lo chiamò Akaashi mentre lui usciva dalla stanza.
Scese le scale, attraversò la porta di ingresso e se la chiuse alle spalle. Faceva freddo, forse perché aveva dimenticato dentro la giacca –ed era fermamente convinto che non sarebbe tornato a prenderla. Si strinse addosso la felpa pesante che indossava e lasciò casa di Oikawa prima che qualcuno avesse la brillante idea di seguirlo, rincorrerlo e costringerlo a rientrarvi. Sarebbe stato ragionevole, si disse, perché il modo in cui si stava comportando era al di fuori di qualsiasi schema in cui lo avessero inserito, perché era dannatamente orgoglioso e mai sarebbe uscito così di scena. Senza contare il fatto che aveva ventun’anni e avrebbe dovuto essere in grado di lasciarsi scivolare addosso le cose senza sentire la necessità di lasciare i suoi amici senza dire una parola, ignorando chiamate e messaggi con cui cercavano di contattarlo -lo sentiva da come il suo telefono vibrasse.
Ma cosa, esattamente, sentiva che avrebbe dovuto ignorare? Il matrimonio, il mancato invito, quella sensazione fastidiosa al petto quando pensava che i suoi amici gli avessero tenuto nascosto tutto, o forse ancora tutto quello che le domande di Bokuto aveva riportato alla sua mente e che sperava di non dover più ricordare?
Si fermò ad un semaforo rosso e questo gli diede tempo di pensare. Cercò di non concentrarsi sul rumore irritante che produceva il suo cellulare e si dedicò a districare l’ennesima massa caotica che i suoi pensieri erano diventati. Del matrimonio, ammise, gli importava: non perché Kuroo fosse un suo amico storico, ma, appunto, perché per un periodo si erano sentiti e sembrava che la loro amicizia fosse quantomeno stabile. Pensando ad un futuro matrimonio, Tobio lo avrebbe incluso tra gli invitati senza pensarci due volte; pur riconoscendo che non dovesse essere una cosa reciproca, non poteva fare a meno di sentirsi quantomeno deluso.
Attraversò la strada e si decise ad estrarre il cellulare, almeno per metterlo definitivamente in silenzioso. Oikawa l’aveva chiamato alcune volte, altrettante Iwaizumi. Da Bokuto aveva ricevuto decine di messaggi, mentre da Akaashi solo uno: si scusava.
Di cosa? Di avergli tenuto nascosto il mancato invito? Tobio odiava i segreti. Non da sempre, non tutti i tipi di segreti, e in verità non sapeva bene dividere in due categorie quelli che sopportava e quelli che invece no. Le opinioni erano personali e non gli creavano problemi, si ritrovò a pensare. Akaashi non aveva motivo di scusarsi, perché al suo posto avrebbe agito allo stesso modo; se lo sposo stesso gli avesse chiesto di non far parola del matrimonio con qualcuno in particolare, non avrebbe avuto alcun diritto di disobbedire. Era in momenti come quelli che il suo potere decisionale si riduceva drasticamente, costringendolo a fare cose di cui sapeva si sarebbe pentito, ma che non poteva in alcun modo evitare.
Prima di uscire di casa, rivelandosi tremendamente patetico, non aveva pensato che i suoi amici avessero potuto provare una sensazione simile. Sospirò pesantemente prima di aprire la porta del suo appartamento e finalmente sentire del caldo sulla propria pelle. Abbandonò la borsa accanto all’ingresso e si diresse a passo svelto verso il divano, davanti al camino –che accese immediatamente, essendo elettrico- e cercando di scaldarsi.
Sarebbe stato sensato, a quel punto, dare un segno di vita agli altri, che probabilmente avevano contattato anche Noya e Asahi, ma ancora non aveva del tutto chiarito il motivo per cui aveva lasciato casa di Oikawa. Sbuffò, coprendosi il viso con le mani e sdraiandosi completamente. Era rimasta l’opzione delle domande di Bokuto, e si rese conto che era l’unica che avrebbe dovuto considerare fin dall’inizio. Dal momento in cui aveva vissuto quei momenti, aveva deciso di tenerli chiusi in una scatola e isolarli in un angolo della sua mente, sperando di non doverla mai aprire e di non dover mai riaffrontare una simile situazione. Era ridicolo, perché non aveva fatto nulla di male, chiunque avrebbe reagito in quel modo, eppure…
Non aveva alcuna colpa. Chiunque…
 
Apre la porta della palestra, ha dimenticato le chiavi di casa all’interno degli spogliatoi. Non fa subito caso alle luci accese, né alla persona che ancora si allena instancabilmente. Non è così raro che qualcuno rimanga anche dopo li orari stabiliti, lui stesso lo fa diverse volte durante la settimana –semplicemente perché è fin troppo duro con se stesso e accetterebbe mai l’idea di poter rimanere indietro rispetto agli altri.
Tuttavia quando finalmente si rende conto di non essere solo, sposta lo sguardo sul ragazzo; nel giro di due secondi viene travolto da una serie di emozioni che vanno dalla sorpresa alla rabbia, passando attraverso l’incredulità e il fastidio. Abbandona immediatamente qualsiasi proposito di recuperare le chiavi e fissa intensamente il ragazzo che, evidentemente ignaro di essere osservato, prova l’ennesima battuta per poi piegarsi sulle ginocchia per riprendere fiato. La rabbia che sente è indescrivibile.
                «Si può sapere cosa diavolo stai facendo?» grida.
Vede chiaramente Hinata sobbalzare. La sua voce rimbomba all’interno dell’edificio e provoca un’eco assurdamente fastidiosa per i suoi gusti, ma per il momento decide di ignorarla. Gli occhi limpidi di Hinata affondano nei suoi e vacilla per alcuni secondi prima di parlare ancora.
                «Da quanto ti alleni così? Hai idea di quelle che potrebbero essere le conseguenze, Hinata? Hai la minima idea di cosa potrebbe andare storto, te lo immagini il tuo futuro scivolare dalle tue mani?» grida ancora. Una parte della sua mente gli dice chiaramente di star esagerando, ma la mette a tacere.
                «Kageyama, abbassa la voce per favore» gli risponde.
                «Non abbasso la voce finchè non capisci quanto diavolo tu sia stupido» ribatte.
Hinata sposta lo sguardo , iniziando a fissare un punto imprecisato alle sue spalle. Sembra stia riflettendo.
                «Non manca molto alla fine della riabilitazione» mormora. «Sono rimasto fermo per così tanto, vi ho visti migliorare così in fretta che non posso rimanere più fermo. Faresti la stessa cosa, Tobio» risponde finalmente tornando a guardarlo.
Probabilmente ha ragione, ma la sola idea che possa farsi ancora del male e giocarsi tutto quello che potrebbe avere non fa altro che aumentare la sua rabbia. Da quanto continuava ad allenarsi di nascosto, da quanto ne sarebbe dovuto essere informato? Da qualche mese, risponde Hinata a bassa voce.
Vede nero per qualche secondo.
Hinata gli passa accanto per raggiungere l’acqua. Si appoggia a lui per una frazione di seconoi, e Kageyama in quel momento sente che dovrebbe fare qualcosa, ma rimane semplicemente immobile, in attesa. Serra gli occhi, perchè gli pizzicano e le lacrime minacciano di uscire, ma si impone di non voltarsi fino a quando non sentirà il suo amico sedersi sulla panchina. Qualcosa non va, si dice quando sente un tonfo sordo alle sue spalle. Se lo ripete quando sente Hinata gridare, forse piangere.
Si rassegna.
 
Ha il coraggio di andarlo a trovare in ospedale solo dopo diverso tempo. La camera dalle pareti bianche sembra schiacciarlo tanto che non vede l’ora di poterne uscire, ma sa di dover parlare con lui. Hanno delle cose da dirsi, lui ha della rabbia da sfogare.
Cammina lentamente fino ad arrivare di fronte a lui, in piedi al lato opposto del letto rispetto a dove si trova il capo di Hinata. Vorrebbe improvvisamente correre fuori e non affrontarlo, perché sa che non appena alzerà lo sguardo sarà tutto molto più difficile. Si impone di tenere i piedi incollati in quel punto fino a quando non avrà detto tutto quello che pensa.
                «Ciao» gli dice per iniziare. L’altro ricambia a bassa voce, ancora non accenna a guardarlo.
Cala un silenzio teso.
                «I medici dicono che non potrò tornare a giocare, il ginocchio è ridotto troppo male.»
Gli scarica la notizia in quel modo come se lui già non lo sapesse, come se non l’avessero avvisato. Si trova lì proprio per quello, altrimenti sarebbe stato al suo fianco con qualcosa da mangiare. Stringe spasmodicamente le mani attorno alla struttura ferrea del letto.
                «Sei uno stupido» mormora, e finalmente ottiene dall’altro uno sguardo. Si dice che il tremito delle sue gambe è causato dalla rabbia e non dai suoi occhi. «Sei uno stupido egoista impulsivo!»
                «Volevo tornare a giocare!» gli grida a sua volta. Li staranno sentendo tutti, ma non gli importa.
                «E guarda cosa hai ottenuto, ti sei giocato il tuo intero futuro! E per cosa, per non essere riuscito ad aspettare ancora quei mesi che ti separavano da una traballante sicurezza?» gli chiede. «Sapevi di poter giocare per poco anche se avessi finito la riabilitazione, e nonostante questo hai pensato fosse giusto e da furbi mettersi a scorrazzare sul campo come se niente fosse! Perché tanto Hinata può fare sempre quello che vuole, vero?»
                «Ho iniziato ad allenarmi perché non potevo aspettare per poi vedere di essere rimato indietro! L’unico anno che avrei potuto giocare, l’avrei passato in panchina, dannazione, perché l’università è tutto un altro mondo e come avrei potuto anche solo pensare di poter essere titolare se le mie abilità erano ferme alla seconda superiore? E chi avrebbe schiacciato le tue alzate veloci se non io, Kageyama?» gli chiede. Stringe le coperte con rabbia, a questo punto nessuno dei due vuole più tenersi dentro quello che sente.
                «Pensi di poter essere l’unico a farlo? Maledizione, Hinata, hai veramente mandato all’aria il tuo futuro per il tuo egoistico desiderio di schiacciare le mie alzate, come se fossero tua proprietà?» domanda sorpreso.
L’altro preme le labbra l’una contro l’altra. Lo guarda dritto negli occhi, e Tobio crede davvero di non poter rimanere in quella stanza in sua compagnia un secondo di più. Il ragazzo di fronte a lui sta cercando di dirgli che, ancor prima di giocare a pallavolo, aveva solo pensato di dover essere l’unico a poter schiacciare le sue alzate più difficili?
                «Hai perso tutto perché sei egoista» gli dice freddamente, staccando una mano dal letto.
Può sentire chiaramente il cuore di Hinata frantumarsi.
                «Sei egoista ed egocentrico. Hai giocato il tuo futuro per nulla. Se solo avessi aspettato, allora avresti avuto la possibilità di farti valere nel mondo universitario. Avresti potuto avere tutto per un anno intero, almeno non avresti avuto questo rimorso. Ora cos’hai? Una gamba inutilizzabile e i ponti per la pallavolo completamente distrutti» dice ancora con tono freddo e pacato. Non vuole più vederlo; l’ha totalmente deluso. «Ti ho detto che avrei alzato solo a chi avessi ritenuto indispensabile alla vittoria. Lo eri ancora fino a pochi giorni fa, anzi, fino a quando non hai deciso di fare di testa tua. Ora non lo sei più. E ti dimostrerò che non sei il solo a poter raggiungere quelle alzate, che tutto questo è stato inutile. Non sei insostituibile, Hinata. Sei solo stupido.»
Esce dalla stanza a lentamente, ma l’altro non ribatte. Mentre cammina lungo il corridoio dalle pareti bianche, non si volta indietro, non cerca lo sguardo di nessuno. Non ha nessuna colpa.
 
Si morse il labbro inferiore e respirò profondamente. Sarebbe rimasto in quella posizione ancora per un po’, poi si sarebbe finalmente alzato in piedi per studiare e chiedere scusa ai suoi amici.
 
Si chiuse nella sua stanza. Sospirò pesantemente, appoggiando la giacca leggera sul letto per poi abbandonarsi alla sedia accanto alla scrivania. Il sole che entrava dalle finestre gli scaldava  piacevolmente la pelle e, davvero, non vedeva l’ora di provare di nuovo quella sensazione, perché l’inverno non l’aveva  mai sopportato. Apprezzò quel calore sulle braccia parzialmente scoperte, arrotolando le maniche della camicia fino ai gomiti.
Gli occhi pieni di lacrime finalmente poterono liberarsi di quella fastidiosa acqua salata che li riempieva.
Cercava di essere silenzioso, perché Kuroo sarebbe arrivato a momenti –gli aveva dato una copia delle chiavi dell’appartamento dalla riunione di mesi prima, perché il corvino non aveva più intenzione di aspettare al freddo per vederlo- e non voleva che lo vedesse in quelle condizioni, non di nuovo. 
Gli appuntamenti con Kageyama erano andati bene per le prime settimane, quando ancora dovevano riabituarsi l’uno alla presenza dell’altro e la neve rischiava di attecchire al suolo. Erano riusciti a mantenere uno stabile equilibrio, ma a distanza di mesi le cose avevano iniziato a prendere una piega diversa; la primavera incombeva, allo stesso modo i loro impegni iniziavano a sovrapporsi e l’organizzazione delle giornate iniziava a sfuggirgli dalle mani. Gli esami, il lavoro, il matrimonio di Kuroo, tutto sembrava andare troppo velocemente perché lui potesse anche solo pensare di poter gestire ogni cosa. A ciò si aggiungevano gli incontri con Tobio, che stavano lentamente dirigendosi verso il punto di non ritorno –lo dimostravano le sue lacrime.
Il suo infortunio non aveva mai impedito ad Hinata di rimanere informato sulla pallavolo; riusciva a parlarne tranquillamente, a patto che non fosse l’argomento centrale dell’intera conversazione, cosa che accadeva sempre più spesso quando si incontrava con il ragazzo. Esaltato per gli allenamenti e gli evidenti progressi, non riusciva a pensare ad altro che non fosse il giorno dopo, a quanto ancora sarebbe arrivato in alto con la sua squadra. Dal canto suo tentava di ascoltare sempre con interesse, ma ammetteva a se stesso che, da diverso tempo, cercava sempre il modo di sviare la conversazione su un argomento diverso. Non aveva  mai odiato la pallavolo dopo quello che gli era successo. Eppure sentirne parlare così naturalmente, così tanto, proprio dalla persona a cui un tempo si affidava per ogni singola schiacciata, non faceva che metaforicamente fargli sanguinare il cuore. Aveva forse raggiunto il suo limite?
Si asciugò malamente le lacrime con la sua stessa maglietta e respirò profondamente. Sentì la porta di casa aprirsi, Kuroo, dopo aver inutilmente annunciato di essere arrivato -l’aveva notato, grazie tante-, entrò all’interno del suo appartamento come un tornado, gridando ai quattro venti che aveva finalmente trovato un dannato abito che gli stesse bene e che fosse elegante senza farlo apparire un damerino, ma che aveva assolutamente bisogno –aveva marcato quella parola veramente troppo- del suo prezioso parere o avrebbe mandato tutto indietro, cosa che non aveva assolutamente voglia di fare. Sorridendo leggermente, si guardò allo specchio per controllare che fosse presentabile, dopodiché uscì dalla stanza.
Kuroo non aveva pensato che un matrimonio comportasse una spesa tanto grande, e soprattutto che fosse così complicato da organizzare. Nella sua testa era un semplice domandare e fare, non c’cerano altri passaggi. Era stato Hinata a fargli notare che, in realtà, quello che aveva immaginato succedeva nei film di bassa qualità che cercavano solo di guadagnare qualche spettatore, perché organizzare un matrimonio era una seccatura e mostrarlo avrebbe allontanato chiunque. Lo ascoltò mentre parlava di tutti i dettagli delle nozze e gli diede i consigli che desiderava riguardo gli abiti, che alla fine sembravano essere adatti e, se doveva essere sincero, gli donavano. Sembrava felice, Kuroo, perché finalmente sembrava consapevole di quello che voleva per il suo futuro e si stava avvicinando sempre più alla sua realizzazione. Hinata sorrise.
                «Ho sentito Bokuto prima» mormorò non appena tornò nella stanza principale della casa. Appoggiò il vestito, tenuto gelosamente nella fodera, sopra al tavolo e poi andò a sedersi sul divano.
                Non sentiva quel ragazzo da diversi anni. «Non è una novità, no? Siete amici da una vita» gli rispose.
                Kuroo si passò una mano tra i capelli e sospirò. «Dice che le cose con Akaashi non vanno molto bene. Stanno insieme dalle superiori, ancor prima di me e Kenma, non pensavo che a questo punto avrei sentito questo genere di cose.»
Hinata prese una sedia da accanto al tavolo e la posizionò in modo da sedersi di fronte all’amico. Quando anni prima erano andati in ritiro a Tokyo, ritiro a cui erano presenti anche la Fukorodani e la Nekoma, era stato lo stesso Bokuto a rivelargli di avere una relazione con l’alzatore. A quel tempo aveva diciotto anni, Akaashi uno in meno e sembrava impossibile che una coppia come la loro potesse anche pensare di esistere. Eppure persino quando il maggiore era andato all’università erano rimasti insieme, e la relazione proseguiva ininterrottamente da cinque anni nonostante non studiassero nello stesso luogo; era certo ormai che avrebbero raggiunto Kenma e Kuroo in poco tempo.
                «Come sarebbe a dire “non vanno molto bene”? Quanto?»
                L’amico scrollò le spalle, come a dire che, effettivamente, non ne aveva idea. «Sembrava fosse Bokuto stesso quello ad avere dubbi, ma non posso escludere che anche Akaashi ne abbia. Dopo tutti questi anni pensavo che i loro problemi iniziali li avessero superati, eppure…»
Hinata appoggiò i gomiti sulle ginocchia, seccato. Ci mancava solo che Oikawa e Iwaizumi decidessero di lasciarsi e non avrebbe più conosciuto una storia felice. Dovette ricredersi quando la sua mente gli ricordò che Daichi e Sugawara stavano insieme da ancor più tempo della coppia della Fukorodani, non mancavano di litigi eppure non avevano mai accennato ad avere drastici problemi. Si disse che finchè loro sarebbero stati una coppia non avrebbe mai avuto paura di rimanere da solo.
                «Bokuto riesce davvero a trovare qualcosa di Akaashi che non gli piaccia? Lo ha sempre adorato» disse.
                L’altro lo guardò come se fosse la bocca della verità e alzò le mani in segno di totale ignoranza. «La penso come te, ma non mi ha voluto dire nulla. In realtà, mi ha solo accennato alla questione con un piccolo commento mentre gli parlavo dell’abito del matrimonio» rispose. «La prossima volta che lo vedrò non avrà scampo.»
Si alzò per prendere una birra fredda dal frigorifero, poi la lanciò all’altro. Il ginocchio gli dava fastidio, bruciava leggermente e lo sentiva pesante. Era meglio per lui che Kuroo non se ne accorgesse, o si sarebbe beccato una ramanzina con i fiocchi e conseguenti cure da mamma chioccia.
                «Come va con Kageyama?» gli chiese dopo aver bevuto il primo sorso della bevanda.
Fortunatamente non aveva ancora nemmeno aperto la sua bottiglia d’acqua, o avrebbe rischiato di strozzarsi.
                «Va tutto bene» mentì. «Col fatto che frequentiamo compagnie diverse abbiamo sempre tante cose da dirci. La prossima volta potrei anche io avere delle novità riguardo Akaashi e Bokuto, anche se sicuramente sarai più informato.»
                «Potrei considerare l’idea di invitarlo al matrimonio» mormorò, soppesando l’idea. «Non l’avevo fatto perché sarebbe stato come un torto nei tuoi confronti, visto tutto quello che era successo. Se ora te la senti, però, per me non ci sono problemi.»
                Hinata scosse il capo. «A questo punto non si presenterebbe. Tobio è fin troppo orgoglioso, lo so a mie spese.»
Kuroo lo guardò di sottecchi, e Hinata si ritrovò a pensare di non poter negare che fosse bello. I suoi occhi avevano un qualcosa di così particolare che non aveva visto in nessun’altra persona e non si chiedeva mai cosa trovasse di bello Kenma in lui. Non fosse stato totalmente preso in parte da Kageyama, in parte dal suo rancore verso il ragazzo stesso, gli avrebbe chiesto di uscire diverso tempo prima, quando ancora credeva di poter avere una possibilità, il corvino non era impegnato, e passava più tempo con lui che con chiunque altro. Doveva ammettere che, però, Kenma fosse decisamente più adatto a Kuroo di quanto lo fosse lui.
Calò un silenzio rilassato. Ognuno immerso nei propri pensieri, si sentivano bene anche solo essendo consapevoli che l’altro fosse a poca distanza da sé. Hinata guardava la parete sopra Kuroo, precisamente l’orologio che, inevitabilmente, segnava lo scorrere del tempo e gli ricordava quanto in realtà fosse impotente contro di lui. Non era mai stato molto paziente, da sempre amava agire poco tempo dopo aver preso una decisione, e aspettava sempre con ansia quando non poteva fare altro che quello. La fine della scuola, il fischio d’inizio. Aveva imparato ad attendere quando era stato avventato e aveva permesso alla sua impazienza di rovinare tutto, spingendolo ad essere incosciente e ad allenarsi prima della fine della riabilitazione. Da allora amava rimanere minuti interi con lo sguardo sul’orologio, fissando il modo in cui le lancette, sempre con lo stesso ritmo, si muovevano.
Chissà se Kageyama aveva subito lo stesso cambiamento.
Kuroo rimase sul suo divano ancora per diverso tempo. Ogni tanto parlava dicendo di dover fare una certa cosa, ma Hinata aveva capito lo facesse più per se stesso che per iniziare una conversazione –era abituato a fare quel genere di cose a voce alta, diceva che gli rimanevano impresse nella mente. Se ne andò verso sera, salutandolo e dicendo che nei prossimi giorni non si sarebbero visti, perché era fin troppo pieno di appuntamenti e non doveva dimenticare che, in ogni caso, aveva impegni scolastici e lavorativi. Non sapeva davvero, gli disse, dove avrebbe ricavato tutte le energie.
Avrebbe dovuto capirlo in quel momento che le cose sarebbero precipitate. Forse dal fatto che i prossimi sarebbe rimasto solo, forse dalla sensazione che provò quando sentì la porta chiudersi, forse ancora dalle lacrime che, prepotentemente, minacciarono di uscire dai suoi occhi senza un apparente motivo. Era solo una sensazione, si diceva, un po’ come l’oroscopo. Non era detto che dovesse diventare realtà.
 
Camminavano l’uno accanto all’altro, in silenzio. Il cielo minacciava pioggia, l’aria era stranamente pesante. Il più basso tra i due indossava solo un maglione leggero, abbigliamento anonimo, l’altro una maglietta a maniche corte con sopra una giacca di jeans dalle maniche arrotolate fino ai gomiti. Non c’era un motivo particolare per il quale si fossero chiusi in silenzio, semplicemente non avevano nulla da dire. Avevano preso una strada alquanto isolata, una zona residenziale che stranamente non era frequentata da altri se non da loro in quel momento –complice anche l’orario, visto che era ormai passata l’ora di cena. Superarono le case in cui numerose famiglie erano riunite, e si addentrarono in un anonimo vicolo che avrebbe permesso loro di risparmiare del tempo.
Avevano cenato in un ristorante di poco conto che si trovava non troppo lontano da dove si trovavano in quel momento. La serata sembrava trascorrere difficilmente, bloccata da silenzi tesi e chiusure in se stessi. Aveva offerto Hinata, perché Kageyama il portafogli lo aveva dimenticato, ma non riusciva davvero ad attribuire tutta quella tensione solo per il conto. C’era qualcosa che gli stava sfuggendo, qualcosa che aveva fatto chiudere l’altro in un silenzio ostinato rotto solo da monosillabi e mormorii. Tobio aveva pensato a dei problemi con i suoi amici, ma quando gli aveva chiesto di loro sembrava essersi ripreso, come se finalmente stesse respirando. Tornò allo stato iniziale non appena ricominciò a parlare tra un boccone e l’altro, e davvero non aveva idea di cosa stesse dicendo per provocargli una simile reazione. Dove stava sbagliando? Cosa non andava quella sera? Anche in quel momento sembrava che non fosse al suo fianco, completamente perso in chissà quali pensieri che, evidentemente, non aveva nessuna voglia di condividere con lui. Non si era comportato in modo diverso dal solito –doveva ammettere di aver già notato momenti come quello, ma erano stati brevi e mai aveva dato loro troppa importanza- per cui non capiva quale fosse la ragione; cosa stava spingendo l’altro a ignorarlo totalmente?
Kageyama fissò velocemente Hinata, trovandolo concentrato a guardare la strada davanti a loro. Non aveva idea di come riempire il silenzio, pur sentendo il leggero bisogno di farlo. Sembrava che ogni argomento sarebbe stato inadatto, e non gli sembrava il caso di informarlo della crisi di coppia di Bokuto e Akaashi –anche se non era completamente sicuro che ne fosse all’oscuro, vista la mia amicizia con quel cretino di Tetsurou. I rumori della città non erano troppo forti, anzi, era quasi piacevole ascoltare quel brusio, come un rumore di sottofondo. Ancora pochi passi e non avrebbero più avuto bisogno di un argomento di cui parlare, ma c’era una cosa che Tobio avrebbe voluto chiedere. Si disse che era l’ultima occasione che aveva per farlo.
                «Vieni a vedermi.»
                Hinata lo guardò confuso. «Vederti dove?»
                «Al campo. Vieni alla prossima partita.»
L’altro si fermò improvvisamente, guardandolo negli occhi. Era come se non potesse credere di aver ricevuto un invito del genere, come se Kageyama fosse andato completamente fuori di testa. Anche l’alzatore si era fermato, poi si era voltato per poterlo guardare. Aspettò una reazione, perché quella sua proposta sembrava aver reso quella mancanza di parole tremendamente pesante e quasi si pentiva di aver parlato. Con gli occhi cercava Hinata con sicurezza, ma le mani dentro le tasche della giacca si muovevano nervosamente, in attesa.
                «Vedere una partita di pallavolo? Una tua partita?» sussurrò lo schiacciatore, scettico. Mantenne lo sguardo fisso su lui anche mentre annuiva. «Non se ne parla» riprese poi con tono duro.
Kageyama aggrottò le sopracciglia. Sapeva che non avrebbe avuto successo –e aveva comunque fatto un tentativo-, ma non si aspettava certo un tono simile. Strinse, nella tasca, una delle sue mani a formare un pugno, perché non credeva che fosse ancora così sensibile su quell’argomento. Soprattutto dopo che si era rovinato da solo, insomma.
                «Per quale motivo?»
                «Non voglio vedere una partita. Non dal vivo, non se è tua, non ci riesco» rispose sinceramente.
                «Dopo tutto questo tempo?» ribattè con tono seccato.
Hinata rimase in silenzio per diverso tempo. Nei suoi occhi riusciva a leggere la determinazione e la debolezza alternarsi, come se fosse indeciso su quale delle due dovesse prevalere. Lo sentì sospirare pesantemente.
                «Non sono affari tuoi. Non sta a te decidere quanto tempo mi serva per sentirmi a mio agio in una palestra.»
                «Non puoi continuare in questo modo» mormorò. Sentì un tuono in lontananza.
                «Fa’ silenzio» gli rispose, in quel momento decisamente più fragile di quanto apparisse prima.
Tobio tenne lo sguardo fisso nei suoi occhi. Aveva accettato ogni sguardo seccato, ogni mormorio poco interessato, ogni sguardo non ricambiato per tutti i mesi in cui si erano visti. Aveva pensato che avesse avuto abbastanza tempo per realizzare quello che era successo, e quando si era reso conto che si sbagliava gli aveva concesso altri mesi. Eppure ogni volta era come se stesse facendo un errore, come se ogni sua parola inerente alla pallavolo andasse a gettare alcool su quella ferita ancora aperta e sanguinante, slabbrata e pulsante. Pensava che parlandone l‘avrebbe abituato all’idea che non tutto si era concluso dopo l’infortunio, che la pallavolo non aveva smesso di esistere solo perché lui non avrebbe più giocato. Era stanco del rifiuto di Hinata.
                «Il mondo non smette di girare se una persona scompare» disse. «Non smetteremo di giocare a pallavolo solo perché non schiaccerai più.»
                L’altro sembrò sussultare, abbassò lo sguardo. «Lo so.»
                «E allora perché?» chiese ancora, alzando leggermente la voce.
                «Perché non ci riesco! Entrare in palestra, guardare il riscaldamento, le battute, le schiacciate, esultare quando si fa punto, rassicurare i compagni quando si perde, gioire di una vittoria o piangere di una sconfitta, io non posso farlo!»
La sua voce, dal tono controllato, tremava leggermente. Aveva sollevato lo sguardo, e Kageyama poteva vedere quanto stesse tentando di non piangere, mentre si mordeva il labbro inferiore.
                «Il fatto che tu non possa giocare non significa che tu non possa tifare!»
                «Ma io voglio giocare!» gridò.
Una parte di lui suggeriva che quello non fosse altro che il suo modo di sfogare la frustrazione di anni, ma prevalevano l’irritazione, la rabbia, l’egoismo. Non era colpa di nessuno se Hinata non poteva esaudire i suoi desideri, come poteva in quel momento urlare in quel modo di voler giocare?
                «La colpa è tua, tu ha deciso di allenarti senza permesso, tu hai sforzato il tuo ginocchio, tu ti sei tolto la possibilità di stare sul campo come il resto della squadra, e non mi importa quali stupide scuse accamperai!»
                «Ed è colpa sua se sono ridotto in questo stato!» ribattè.
Cosa?
                «Io non facevo altro che amarti e tu invece mi hai distrutto, hai schiacciato ogni traccia di speranza e orgoglio sotto la tua prepotenza, il tuo orgoglio, le tue manie di protagonismo… mi hai guardato con quegli occhi sprezzanti, ed io ero seduto su un letto d’ospedale ben consapevole di aver perso il mio futuro, eppure tu non hai fatto altro che infierire e, dannazione, avrei solo voluto che tu fossi più presente quando avevo bisogno di te, Kageyama!»
Ancora, cosa?
Hinata singhiozzava, tentando di coprirsi il volto con un braccio e al tempo stesso non lasciare che questo tremasse. Si strinse il polso di questo con l’altra mano, allontanandolo dagli occhi –ora poteva vederli chiaramente, grandi, pieni di lacrime, arrossati- e spostandolo un po’ più in basso, così che coprisse la bocca. Kageyama era confuso, forse sorpreso? Cosa gli stava dicendo quel ragazzo in lacrime? Perché sentiva il petto fargli così male, perché gli occhi pizzicavano fastidiosamente?
                «E avrei solo voluto che tu ci fossi quando provavo a saltare per schiacciare e non ci riuscivo, avrei voluto che fossi con me per non farmi sentire più solo di quanto giù non mi sentissi, ma tu eri troppo impegnato a migliorare, a dare il meglio di te su un campo in cui io non c’ero e non ci sarei stato mai.»
Tobio sentiva l’inspiegabile impulso di scappare. Voleva correre lontano da lì, lontano da Hinata che piangeva e gli riversava addosso anni di sofferenza, lontano dalla pioggia che minacciava di scendere da un momento all’altro, correre senza fermarsi e chiudersi tra le confortanti pareti del suo appartamento. Voleva dimenticare, annullare quei mesi e quelle uscite, tornare a quando Oikawa era l’unico suo irritante problema e Bokuto ancora parlava con Akaashi.
                «In tutti questi mesi hai di nuovo messo te stesso davanti a tutto, perché i tuoi allenamenti meritavano di essere ascoltati, perché tu meritavi attenzione. E quando vuoi una cosa la ottieni, perché sei dannatamente egoista e egocentrico, dannatamente despotico e prepotente. Come non pensasti anni fa di distruggermi tagliando ogni ponte tra noi, sminuendomi, facendomi sentire nulla, ancora oggi non hai nemmeno tentato di pensare a quanto quello che dicessi mi facesse tare. Sei solo un bastardo, Tobio, non so come abbia fatto ad innamorarmi di te, ma so che mai vorrei averti incontrato mesi fa davanti all’entrata di quel bar!»
Sentiva il battito del cuore veloce, le mani, ormai rigide lungo i suoi fianchi, tremavano leggermente e guardava Hinata incredulo. Lo osservava in silenzio, scosso da singhiozzi che non riusciva più a fermare, non riuscendo a fare altro che lasciare che la pioggia lo colpisse velocemente.
                «La verità è che-»
                «La verità è che sei solo uno stupido!» gli disse come ultima cosa prima di correre. Lontano da quel vicolo, lontano da lui.
Rimase immobile. In tutta onestà non aveva idea di come fossero arrivati in quel punto, perché tutto era successo fin troppo velocemente. Sembrava una scena di un film, estrapolata dal suo contesto e completamente priva di senso, eppure se ripensava a tutto quello che era successo si diceva che era normale. Era normale che la pioggia lo stesse bagnando violentemente, che sentisse freddo, che tremasse e il petto gli facesse male. Era normale che Hinata urlasse, che scappasse via da lui, perché lo amava e lui l’aveva umiliato.
Hinata lo amava. Quella consapevolezza gli fece sgranare gli occhi e si vergognò di se stesso. Hinata lo amava e lui gli aveva urlato contro, lo amava e lo aveva umiliato, lo aveva ferito, sminuito, non ricordava nemmeno con quali parole. Era davvero stato così furioso da non avere nemmeno idea di quello che stesse dicendo? Aveva davvero parlato all’altro in modo così orribile da farlo reagire in quel modo? Si guardò le mani come se fossero sporche di sangue, perché metaforicamente era quello che era successo. Quante ferite aveva sopportato il cuore di Hinata prima che si decidesse a parlare?
La consapevolezza di tutto ciò schiacciava Tobio e lo lasciava inerme. Nemmeno si rese conto di aver scritto a Oikawa, di aver iniziato a camminare a vuoto, perché era l’unica cosa che in quel momento riuscisse a fare. Era come se fosse spettatore di quello che stava accadendo: il suo corpo si muoveva, lui lottava contro le sue emozioni e cercava di creare ordine nella sua mente, come aveva sempre fatto, ma sempre troppo tardi. Era a malapena consapevole di essersi seduto su una panchina, che il cellulare probabilmente aveva smesso di funzionare per la pioggia, proprio per la stessa che in quel momento gli bagnava i capelli e si insinuava sotto i suoi vestiti, provocandogli involontari brividi di freddo. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e distrattamente osservò le ghiaia vicino ai suoi piedi –quando era entrato in un parco?- riempirsi di pozzanghere. La matassa all’interno della sua testa si stringeva sempre di più invece che allentarsi, nonostante i suoi sforzi di far accadere il contrario.
Hinata lo amava e lui l’aveva fatto soffrire. Perché faceva molto più male di quanto si aspettasse?
Nemmeno si accorse di quando la pioggia smise di cadergli addosso e Oikawa lo coprì con il suo ombrello; piegato sulle ginocchia davanti a lui, gli scuoteva una spalla con il braccio libero mentre lo chiamava. Sembrava preoccupato. Perché diceva il suo nome in modo così insistente? Perché tutta quella apprensione?
Era solo pioggia, in fondo.
 
                «Kuroo» singhiozzò al telefono. «Vieni a prendermi, sono vicino al solito bar.»
                «Hinata? Stai bene? Cosa è successo?» gli rispose in apprensione l’altro. Sentì la porta di casa sua chiudersi.
                «Ti prego» chiese ancora. «Vieni a prendermi.»
 
Si sedette sul divano e sentì dopo poco un asciugamano frizionargli i capelli, tentando di assorbire l’acqua che li impregnava. In lontananza, Iwaizumi parlava al telefono con qualcuno che Kageyama non seppe identificare, ma non era poi così deciso a farlo. Seduto sul pavimento di fronte a lui, Oikawa lo guardava insistentemente chiedendogli spiegazioni con lo sguardo; riguardo a cosa?
Volse leggermente il capo per osservare meglio il corvino che sembrava stesse gridando. Perché a quell’ora della sera sentiva il bisogno di farlo? Aveva capito ormai che stesse chiamando i loro amici, ma davvero non credeva ci fosse bisogno di reagire in quel modo. La parte ancora attiva del suo cervello gli suggerì che, probabilmente, uno tra Akaashi e Bokuto non aveva intenzione di presentarsi a casa di Oikawa per via del fatto che ci sarebbe stato anche l’altro –pensava più allo schiacciatore, ma non ne era sicuro. Tooru richiamò la sua attenzione, chiedendogli ancora cosa fosse successo.
Hinata lo amava.
Tre parole così semplici da dire eppure così ingombranti e pesanti. Sentiva che sarebbe stato più leggero una volta che le avesse dette, ma aveva paura di lasciarle andare, di ripeterle. Tutto, a quel punto, sarebbe diventato reale, dalle lacrime dell’altro a tutto ciò che aveva fatto. Sentiva di essere sconvolto, ma non sapeva riconoscere quale parte dello sfogo di Hinata l’avesse più colpito. Strinse tra le braccia un cuscino del divano di Oikawa, tentando senza riuscirci di fermare il tremito del suo corpo che non accettava nulla di quella situazione, dall’aver sbagliato alla sofferenza dell’ex-compagno. Per quanto ancora l’immagine del Re egoista l’avrebbe perseguitato, allontanando da lui chiunque si meritasse la sua fiducia?
Non seppe quanto tempo rimase in quello stato, ma al suo fianco, il cuscino del divano si abbassò all’improvviso sotto il peso di Bokuto –che non aveva sentito entrare-, il quale lo guardò e rimase silenzioso al suo fianco. Era in quei momenti che più si rendeva conto di quanto avesse mal giudicato l’amico negli anni precedenti, perché in quell’istante sembrava più delicato di qualunque altra persona e, davvero, Kageyama si chiese quando avrebbe mai finito di stupirlo. Nel suo campo visivo entrò anche Akaashi; Tobio si chiese cosa stesse pensando. Asahi e Noya erano appostati sull’altro divano della stanza, Iwaizumi era in piedi, appoggiato al muro di fronte a lui. In quel momento sentì di poter piangere, forse solo un po’, forse silenziosamente, come la pioggia fuori casa, come il ghiaccio che si scioglie. Non piange da diverso tempo, ha dimenticato come ci si senta; forse perché non ne ha mai avuto davvero motivo, forse perché piangere, nella sua mente, ha sempre significato perdere, e lui non voleva. In bilico su un filo teso sopra ad una voragine, piangere significava guardare verso il basso e cadere, e forse Tobio soffriva di vertigini, forse aveva paura. Ma davanti a loro, davanti ai suoi amici, poteva.
Si accorse delle lacrime che gli rigavano le guance solo quando notò il lampo di preoccupazione malcelato negli occhi del ragazzo seduto di fronte a lui. Bokuto gli avvolse un braccio attorno alle spalle e lo strinse, rimanendo in silenzio, pur non capendo il perché delle sue azioni, non mettendogli alcuna pressione. Kageyama mormorò qualche parola sconnessa che per loro non aveva alcun significato, avevano senso solo nella sua mente che riviveva la scena di poco prima, riavvolgeva il nastro e faceva ripartire tutto da zero.
Iniziò a raccontare quello che era successo all’improvviso, parlando tra i singhiozzi. Nel silenzio della stanza, gli unici suoni provenivano da lui, dai suoi respiri profondi, dal suo tentativo di seguire un ordine logico dei fatti senza saltare di volta in volta al passaggio che gli attraversava la mente in quel determinato momento. Persino Noya, che del suo comportamento con Hinata aveva approvato meno che nulla, gli si fece accanto quando ebbe finito di parlare; persino lo sguardo di Akaashi gli lanciava comprensione, anche se non erano mai andati d’accordo su quella questione. Si chiese se Bokuto, ora che aveva avuto risposta alle domande che gli aveva posto tempo prima, lo giudicasse diversamente, se ritenesse imperdonabile ciò che aveva fatto. Tuttavia, l’ex-capitano della Fukorodani non lo lasciò nemmeno per un secondo, tenendo lo sguardo rivolto verso il basso, come se stesse cercando le giuste parole da dire. Era difficile, perché Kageyama aveva sbagliato su ogni fronte e sembrava non riuscire a trovare nulla che lo soddisfacesse, perciò si limitava a stargli accanto in silenzio proprio come tutti gli altri. Il corvino voleva gridare, perché ancora non riusciva a capire nulla, e voleva tremendamente che qualcuno gli tendesse la mano per permettergli di tornare sul filo, sollevandolo dall’abisso in cui stava cadendo. Metaforicamente, sentiva che le sue dita stavano cedendo una dopo l’altra, rendendo vano il suo tentativo di rimettersi in salvo.
                «Tobio, guardami» gli disse allora Bokuto. Si voltò verso di lui e vide lo sguardo rapace dell’altro fissarsi nel suo. Li avevano sempre giudicati simili, uno un gufo e l’altro un corvo, ma ora erano semplicemente due amici che cercavano un modo per superare il tutto. «Cerca di calmarti, respira con me, con calma» gli disse respirando profondamente.
Normalmente non avrebbe mai fatto una cosa del genere, e lui non l’avrebbe minimamente ascoltato, perché per loro era dannatamente insolito essere così apertamente preoccupati l’uno per l’altro. Quel momento, però, non era affatto come gli altri, non si trattava di Oikawa e Iwaizumi che si prendevano in giro un po’ troppo pesantemente, né di Bokuto e Akaashi che mandavano avanti la loro personale guerra fredda, ma di Tobio che parlava del suo passato, esponendosi, piangendo come se gli stessero facendo fisicamente del male. Tutta quella situazione era un’enorme eccezione che andava affrontata con misure diverse dal solito.
Seguì il ritmo del respiro di Bokuto fino a quando non si regolarizzò; piangeva ancora, ma almeno riusciva a vedere decentemente e non aveva paura di mancare qualche inspirazione. Si passò malamente una mano sul viso per tentare di fermarsi definitivamente, anche perché sentiva gli occhi bruciare e la gola tremendamente secca. Aveva sete, ma non voleva che qualcuno di loro lasciasse quella stanza. L’amico gli sorrise, e poté vedere i suoi occhi sciogliersi dalla tensione che li aveva attanagliati –da quanto erano in quello stato?
Oikawa interruppe il flusso dei suoi pensieri.
                «Allora…» cominciò, quasi cercando in soccorso con lo sguardo gli altri. Iwaizumi si limitava a fissarlo, perché le parole non erano il suo forte.
                «Io te l’avevo detto» intervenne Nishinoya, guardandolo dritto negli occhi nel momento in cui spostò lo sguardo su di lui. «Dopo il secondo infortunio, quando Hinata abbandonò il club senza che noi potessimo fare nulla. Eri stato troppo severo, eri andato a colpire le sue ferite aperte come se potessi permetterti di fare qualunque cosa. Te l’avevo detto che non avevi capito nulla e mai lo avresti fatto.»
                «Nishinoya…» disse Asahi a bassa voce per fermarlo.
Kageyama si morse a sangue il labbro inferiore. Aveva ragione, certo, e lui doveva riconoscerlo. Sentiva di doversi scusare.
                «Ma,» continuò il libero «mi rendo conto di quanto tu stia soffrendo. Riconosci quello che hai fatto, sii sincero con te stesso e torna da lui. Parlagli, Kageyama, perché è la cosa che più vuole in questo momento. Chiedegli scusa anche se ne dovesse rimettere il tuo orgoglio. Non stare con le mani in mano, e soprattutto non farlo più soffrire.»
Rimase in silenzio, ancora lo guardava. Nishinoya non gli aveva mai dato molti consigli, in parte perché lui stesso non ne chiedeva spesso, in parte perché si rifiutava di farlo visto che l’ultimo l’aveva ignorato pur essendo di vitale importanza. Il fatto che ora gli stesse rivolgendo quelle parole era molto più che simbolo di amicizia: lo stava perdonando per aver fatto soffrire Hinata, per quelle parole piene di veleno che gli aveva rivolto, e soprattutto gli stava ricordando che gli era accanto. Nonostante tutto, ancora una volta non era solo. Avrebbe potuto ricominciare a piangere come poco prima anche solo per averlo realizzato.
                «Insomma» intervenne l’ex-asso dell’Aoba Josai, staccandosi dalla parete «sarebbe stupido non andare da lui, si vede chiaramente quello che provi. Per me non dovresti nemmeno essere qui, ma se vuoi aspettare qualche giorno per far calmare le acque, dico, puoi farlo. Puoi anche rimanere qui fino a quando non te la sentirai, ecco» concluse quasi borbottando –era imbarazzato?
Cosa provava per Hinata? Quella era la sola domanda che riuscisse a far breccia nella matassa dei suoi pensieri. Aggrottò le sopracciglia, abbassando lo sguardo fino a incontrare quello di Oikawa –la stretta rassicurante di Bokuto ancora non era svanita.
                «Cosa provo per Hinata?» chiese, forse più a se stesso che agli altri.
Akaashi borbottò qualcosa sottovoce che somigliava a “proprio non ci arriva” mentre il ragazzo di fronte a lui gli sorrideva. Si aspettava che parlasse, quello era il momento in cui chiariva i suoi dubbi e scioglieva tutti i nodi. Era come se gli passasse le forbici per tagliare il groviglio di fili che occupava la sua mente.
Oikawa parlò a bassa voce, quasi temendo l’effetto di quello che stava per dire.
                «Lo ami, Tobio.»
 
                «Esci da quella stanza, Hinata, o giuro che la tiro giù a calci!»
Sbuffò sonoramente mentre affondava il viso nel cuscino e allargava le braccia sul letto. Non voleva sentire nessuno, soprattutto quel gatto mal riuscito di Kuroo che era appena passato dalla fase “sono preoccupato per te” alla “continuo ad esserlo ma è più importante evitare che tu ti chiuda in te stesso che sapere cosa sia successo”, nome abbastanza lungo che sintetizzava tutti i tentativi dell’amico di aprire la porta di camera sua e farlo uscire a costo di trascinarlo. Era salito nella sua auto piangendo, aveva continuato durante tutto il tragitto senza dire assolutamente nulla –anche perché non sarebbe riuscito a parlare in ogni caso- e ancora quando erano saliti al suo appartamento. Si era barricato nella sua stanza a chiave, aveva ancora versato lacrime sul cuscino fino a quando non aveva sentito la gola secca e gli occhi bruciare, poi si era finalmente calmato ed era entrato nello stato in cui si trovava in quel momento, con Kuroo che non aveva lasciato la soglia della sua porta nemmeno per un secondo, se non quando era dovuto andare ad aprire a Kenma –che a sua volta aveva fatto entrare in casa Sugawara e Daichi. Pensava che sarebbe stato ragionevole alzarsi e parlare di quello che era successo, ma le forze gli erano venute completamente meno dopo quello che aveva urlato e non aveva alcuna voglia di ricordare il tutto. Non era nemmeno certo, in realtà, che i suoi amici effettivamente sapessero del suo appuntamento quella sera. Tra il matrimonio di una coppia e gli impegni dell’altra non ricordava di averli tenuti aggiornati sulla questione, per cui probabilmente nemmeno avevano pensato che si trattasse di quello.
                «Dovevi uscire con Kageyama, Hinata?» gli chiese improvvisamente l’amico da dietro la porta.
Come non detto.
Si morse con forza il labbro inferiore, chiudendosi in un ostinato silenzio che non fece altro che confermare l’idea dell’altro. Kuroo battè ancora una volta le nocche contro il legno, duramente, come se improvvisamente la questione fosse diventata mille volte più importante di quanto già non fosse.
                «Cosa è successo? Cosa ti ha fatto? Hinata, apri questa porta e parla chiaramente, dannazione!»
Sospirò pesantemente. Si obbligò ad allontanarsi dal materasso, non aveva nemmeno la forza di alzare i piedi mentre camminava, col risultato che sembrava stesse strisciando verso la porta. Girò la chiave nella toppa e, nonostante si aspettasse l’ingresso di un Kuroo infuriato all’interno della sua stanza, rimase sorpreso nel vedere come la aprì lentamente, quasi non volesse spaventarlo. Alle sue spalle poteva scorgere Kenma preoccupato, Daichi e Sugawara sembravano star preparando qualcosa da bere per calmare le acque. Non aveva idea del perché, ancora una volta, il suo viso si stesse riempiendo di lacrime, non aveva idea del perché la sua vista si stesse appannando e si sentisse così strano. Aveva sempre immaginato quel momento come ad un qualcosa che avrebbe vissuto in solitudine, e invece aveva degli amici al suo fianco a sostenerlo quando lui di forza non ne aveva abbastanza. Si appoggiò a Tetsurou mentre ancora sentiva il viso bagnato, e Kenma lo raggiunse per stringerlo timidamente in un abbraccio che sapeva di casa. Raccontò quello che era successo solo quando anche il resto di loro fu abbastanza vicino da sentirlo; lo fece in piedi, in quella posizione probabilmente scomoda per tutti ma che non avrebbe cambiato per nessun’altra. Rimase in silenzio quando finì, non sapendo cosa aggiungere, sentendosi come svuotato. Una parte di lui si pentiva di aver reagito in quel modo, di aver parlato così liberamente.
                «Mi dispiace» mormorò Kuroo, evidentemente a corto di parole. «Ti avevo detto che ci sarei stato, e invece ti ho lasciato affrontare Kageyama da solo ancora una volta.»
                «Nemmeno noi siamo stati molto d’aiuto» intervenne Daichi. Sugawara annuì per dargli manforte. «D’ora in poi faremo il possibile per non trascurare nulla, a cominciare da adesso. Sul tavolo trovi la tua bevanda preferita, ci sono sedie a sufficienza per tutti, possiamo parlare quanto vuoi. Anche tutta la notte se necessario, anche se sappiamo bene che non tutti ne sarebbero in grado» concluse guardando di sottecchi il suo ragazzo.
Quello gli diede uno scappellotto, offeso. Kenma, che dal canto suo era abituato a passare notti insonni alle prese con qualche nuovo videogioco o, semplicemente, con lo studio, alzò le spalle e approvò il piano. Ci teneva ad avere il massimo dei voti, cosa di cui Kuroo andava dannatamente fiero e per cui riusciva anche a passare sopra al fatto che tenesse accesa la fastidiosa lampada della scrivania mentre lui cercava di dormire, perché Kenma non sopportava di lasciarlo solo in stanza. Tetsurou non sembrava molto convinto di riuscire a reggere per una notte intera, ma cercava di trasmettere il contrario.
                «Cosa pensi di fare ora?» gli chiese Kenma quando si furono seduti attorno al tavolo.
                Hinata bevve un sorso dalla propria tazza e il sapore della cioccolata calda riuscì a rilassarlo leggermente. «Non ne ho idea. Non credo di volerlo vedere e-»
                «Non te l’avrei comunque fatto vedere, hai già penato troppo per Tobio» intervenne Kuroo, risoluto.
Sugawara gli scoccò un’occhiata contrariata. L’ex-capitano della Karasuno, invece, si limitò a rimanere in silenzio.
                «-e» riprese Hinata «ora come ora non so nemmeno se lui stesso voglia vedermi» mormorò mentre avvicinava la tazza alle labbra. Aveva la ginocchia vicine al petto, i piedi sulla sedia e sembrava avere dieci anni in meno di quanti in realtà ne avesse. Sentì addosso lo sguardo preoccupato degli altri e non sapeva se esserne sollevato o dispiaciuto.
                «In ogni caso» esordì Kenma guardando direttamente Sugawara, «nemmeno tu puoi negare che il comportamento di Kageyama sia stato inaccettabile. Mi sembra normale, o almeno per me e Kuroo, voler impedire che parli di nuovo con lui, per il semplice fatto che potrebbe finire ancora peggio di adesso. Tengo ad Hinata come se fosse mio fratello» e qui il ragazzo potè giurare di non averlo mai visto tanto determinato e mai di averlo sentito parlare così esplicitamente di quello che provava, «e non ho la minima intenzione di lasciare che venga ferito ancora, Sugawara, non importa cosa tu abbia intenzione di dire. Non si danno tre possibilità , tantomeno a chi ti ha ferito così profondamente.»
Eppure non ne sembrava convinto. O meglio, Hinata sapeva che lui avrebbe agito in quel modo, ma sembrava non sapere se sarebbe stato lo stesso per l’altro. Se Tobio si fosse presentato a casa sua, se si fosse scusato sinceramente e apertamente come mai aveva fatto, avrebbe avuto il coraggio di rimanere sulla propria strada senza praticare una violenta inversione ad U e rinunciare a tutto? Si morse il labbro, ben consapevole di quale sarebbe stata la sua scelta. Si diede mentalmente del debole.
Kenma sembrava essere tornato il solito, rispondendo a Sugawara a monosillabi o veloci constatazioni che difficilmente potevano essere attaccate. Il più basso smise di ascoltare la conversazione e si concentrò su Kuroo, che sembrava perso nei suoi pensieri tanto quanto l’era lui. Con lo sguardo fisso davanti a se, i capelli che iniziavano a cedere –il quintale di gel dato quella mattina doveva star perdendo effetto- e una mano stretta in un pugno appoggiata poco lontano dalla sua tazza, Tetsurou non rispondeva a nessun intervento degli altri. Si girò improvvisamente verso di lui, fissandolo. I suoi occhi dorati si scontrarono contro quelli di Hinata, le sopracciglia erano aggrottate –segno di grande determinazione e forse tensione. Potè giurare di leggere diverse emozioni darsi guerra in quelle iridi, tentando di prevaricare l’una sull’altra: tensione, senso di colpa, determinazione e forse paura, ma ancora non voleva lasciarlo. Lo teneva incatenato come un magnete il ferro, e Hinata sapeva che l’altro avrebbe dato grandissima importanza alle parole che stava per dire, frutto di ragionamenti e decisioni scartate; sapeva di non poter assolutamente prendere alla leggera tutto ciò che sarebbe avvenuto entro pochi secondi. Tenne lo sguardo in quegli occhi intensi, tanto da farlo quasi tremare. Era sicuro che, se l’avesse guardato in quel modo, anche sotto lo sguardo di Kenma avrebbe tremato.
Poi, dopo quelli che sembrarono interminabili minuti –pochi secondi, in realtà- parlò.
                «So di aver sbagliato» esordì «avevo promesso cose che poi non sono riuscito a mantenere e mi dispiace, perché avrei offerto qualsiasi cosa purchè questa situazione non si verificasse. Dovresti essere incazzato con me, ma non lo so, e ti ringrazio. Mi dispiace per tutto questo. Lascia che ora ti faccia un’altra promessa, e ti assicuro che farò il possibile per mantenerla: non permetterò che ti accada più nulla di male, Hinata.»
Pianse ancora.
 
Aveva provato con chiunque. Oikawa, Iwaizumi e Akaashi non ne avevano idea, Bokuto avrebbe potuto chiedere all’amico, ma sarebbe stato troppo sospetto e non gli avrebbe mai risposto. Nishinoya e Asahi si erano categoricamente rifiutati perché non spettava a loro decidere se accontentarlo o meno. Aveva così deciso di agire da solo, perché non avrebbe mai avuto il coraggio di rimanere immobile senza poter risolvere la situazione, non dopo che aveva chiarito ogni sentimento ed era deciso a non sbagliare più.
Aveva bisogno dell’indirizzo di Hinata. Era sicuro che l’altro glielo avesse detto, eppure non riusciva a ricordarlo. Sentiva il bisogno di incontrarlo di persona, di urlargli tutte le conclusioni a cui era giunto, ma sapeva non avrebbe mai accettato di vederlo ancora. Così aveva provato ad informarsi, ma senza risultati, e ora aveva poche opzioni: Kuroo, Kenma, Sugawara e Daichi. Aveva escluso i primi due senza nemmeno provare a pensare a come avrebbe potuto contattarli, perché ricordava quanto Hinata avesse detto di esservi legato, per cui sicuramente non avrebbero collaborato. Sperava, a quel punto, che i suoi ex-compagni non si chiudessero in un ostinato silenzio come gli altri, o non avrebbe più avuto alcuna possibilità di parlare con l’altro. Sperava solo che la loro amicizia fosse abbastanza forte da permettere loro di fidarsi di lui nonostante i suoi errori. Era quello il motivo per cui si trovava poco lontano dall’ingresso dell’università dell’ex-alzatore, sperando di riuscire a parlare con lui il prima possibile. Non poteva più aspettare, perdere tempo e lasciare che Hinata lo gettasse nel dimenticatoio –il che era tremendamente egoista da parte sua, ma non riusciva a pensarla diversamente. Teneva le mani nelle tasche e osservava attentamente chiunque uscisse, e quando finalmente vide Sugawara si allontanò da dove si trovava per avvicinarsi a lui. Una parte della sua mente sapeva che non aveva il diritto di farlo, che era sbagliato perché aveva ferito Hinata così tanto da non meritarlo, che era assurdo volersi presentare sotto il suo tetto e pretendere che quello lo ascoltasse, non poteva nemmeno immaginare che tutto si sarebbe risolto in breve tempo. Ci sperava, sperava fosse abbastanza da aprirgli uno spiraglio, seppur minimo, in cui potersi insediare, su cui poter far leva per farsi amare ancora.
                «Sugawara» chiamò indeciso.
Il ragazzo in questione si voltò verso di lui e fu evidentemente sorpreso di averlo di fronte. Tobio sperava solo che rimanesse tale e non iniziasse ad insultarlo, anche se immaginarlo dire determinate cose era così difficile che sembrava irreale. Strinse le mani a formare un pugno, nervoso.
                «Tobio? Cosa ci fai qui?»
                Non lo guardò negli occhi. «Passavo da queste parti» mentì spudoratamente. Era fin troppo poco credibile.
                «Puoi essere serio?» gli chiese.
Kageyama sbuffò leggermente. Perché era così dannatamente difficile fare quella richiesta?
                «Volevo sapere l’indirizzo di Hinata» mormorò.
L’amico rimase in silenzio con lo sguardo fisso su di lui. Evidentemente non si aspettava una richiesta così diretta, non dopo così poco tempo –erano passati solo pochi giorni dalla loro discussione-, non da lui, non detto in quel modo. Ebbe il coraggio di fissarlo nuovamente solo dopo alcuni minuti, quando l’aria divenne troppo tesa da sopportare e non riusciva più a rimanere senza una risposta. Notò che Sugawara era indeciso, combattuto tra le due decisioni, il che era meglio che un categorico rifiuto. Pensò di dover sfruttare la situazione, perché non ne avrebbe avuta un’altra: doveva convincerlo della sua serietà, delle sue buone intenzioni prima che ogni porta venisse chiusa davanti a lui senza che potesse impedirlo.
                «So di aver sbagliato» disse con più sicurezza. «Proprio per questo motivo ho bisogno di quell’indirizzo, Suga. Devo rimediare in qualche modo a quello che ho fatto prima che sia troppo tardi, ma non posso semplicemente fargli una chiamata. Per quella che potrebbe essere l’ultima volta, devo guardarlo negli occhi e giocarmi tutto. Per favore.»
Mantenne lo sguardo fisso su di lui. L’amico tentennò ancora, poi sospirò leggermente guardando alla sua destra prima di rispondere.
                «D’accordo» concesse. Gli disse ciò che voleva sapere.
                I suoi occhi brillarono per un momento e già si preparava ad allontanarsi. «Grazie di cuore» rispose inchinandosi leggermente.
                «Tobio» lo richiamò. L’altro si voltò immediatamente. «Sono successe tante cose. Io ti sto dando fiducia, ma altri non l’avrebbero fatto, sappilo. Questa è l’ultima occasione che anche io ti concedo, vedi di non sprecarla: nessuno di noi vorrà più vederti se Hinata soffrirà ancora. Se invece tutto andrà bene, sappi che non sarà facile riconquistare la fiducia di chi l’ha persa. Ma questo è lo scenario migliore che tu possa aspettarti.»
Rimase fermo per alcuni secondi, conscio che l’amico fosse dannatamente serio. Tuttavia non aveva detto nulla che già non sapesse, per cui non si spaventò. Annuì in silenzio prima di iniziare a correre verso casa di Hinata, iniziando a sentire addosso la pressione per tutto quello che sarebbe nato da quell’incontro. Poteva essere la fine o un inizio completamente nuovo di un capitolo che avrebbero vissuto insieme. Percorse numerose strade, attese ad alcuni semafori per poi scattare sulle strisce pedonali, mentre il cielo iniziava a diventare scuro e il sole spariva dietro agli alti palazzi della metropoli. Cercava di preparare un discorso nella sua mente che fosse abbastanza decente da convincere Hinata almeno ad ascoltarlo, perché era consapevole che la prima grande sfida sarebbe stata convincere l’altro ad aprirgli la porta. Fu per questo motivo che il suo cuore fece una capriola quando, giunto davanti all’ingresso dell’appartamento, notò che qualcuno ne stava uscendo in quel momento e riuscì ad impedire che lo chiudesse: se si fosse trovato esattamente davanti all’ingresso di casa, allora forse sarebbe stato tutto molto più semplice. Una parte di lui pensava sarebbe stato l’opposto.
Riuscì a capire quale fosse la porta giusta solo grazie al nome vicino al campanello. “Hinata Shouyou” sembrava minacciarlo da vicino al piccolo tasto come se l’avvertisse dall’enorme catastrofe che poteva causare il suo suono. Gli tremavano leggermente le mani ed era certo che il cuore non dovesse battere così in fretta, fu quasi tentato di allontanarsi e chiudere per sempre quella storia, ammettendo che non aveva alcuna possibilità che l’altro lo perdonasse. La tonalità dei suoi occhi sembrava passare dall’azzurro acceso ad uno più cupo e profondo a seconda che a prevalere fosse la decisione o l’angoscia. Non gli era mai sembrato così difficile muovere un dito in vita sua, ma concluse che doveva farlo. Respirò profondamente prima di annullare la distanza tra il proprio dito e quell’oggetto infernale, ascoltò il suono squillante e attese. Aveva la gola secca.
Quando Hinata aprì la porta gli sembrò che il mondo avesse iniziato lentamente a vorticare. Calò il silenzio, le parole di cortesia dell’altro che si spensero non appena videro chi effettivamente avesse di fronte. Si guardarono l’un altro, un misto tra paura, rabbia, delusione e senso di colpa che si poteva quasi toccare; poteva sentire l’altro gridargli di andarsene nonostante non stesse effettivamente parlando, e considerò seriamente l’opzione di ascoltarlo. Deglutì silenziosamente, poi respirò a pieni polmoni: gli sembrava di avere mal di testa e la gola bloccata, non aveva idea di come avrebbe parlato. Il discorso che si era preparato durante la precedente corsa sembrava essere del tutto scomparso della sua testa nonostante cercasse disperatamente di ricordarne qualche frammento.
                «Come?» gli chiese sussurrando. Tobio capì che si stava riferendo al suo indirizzo.
                Sentire la sua voce ebbe lo stesso effetto di un coltello piantato dritto nel cuore. Decise di non rivelare l’aiuto che aveva ricevuto da Sugawara «Me l’avevi detto tu, tempo fa. Era l’unico modo che avevo per parlarti.»
                Hinata aggrottò le sopracciglia. «L’avevo dimenticato. Cosa ci fai qui?»
                «Dobbiamo… dobbiamo parlare» trovò il coraggio di dire. Si impose di respirare normalmente.
Il ragazzo di fronte a lui sembrò pensarci attentamente. Aveva la maglietta nera sporca, perché probabilmente doveva aver combinato qualcosa al lavoro e non aveva avuto tempo di cambiarsi, o forse aveva deciso di studiare e farlo in seguito –sembrava più plausibile visto che aveva una penna tra le mani. Si chiese chi si aspettasse di trovare al posto suo.
Si spostò per farlo entrare. Kageyama, sorpreso, ci mise alcuni secondi prima di realizzarlo, poi avanzò silenziosamente nel piccolo appartamento ordinato e fece alcuni passi in avanti. Aveva un arredamento semplice, ma non per questo scontato o rovinato; di fronte a lui c’era una grande finestra che dava sulla strada, alla sua sinistra la cucina e al lato opposto un piccolo corridoio che dava ad altre due stanze, notò con la coda dell’occhio. Il divano si trovava poco lontano da lui e sembrava l’arredo più usato, e riusciva quasi ad immaginare Kuroo stravaccato sopra questo, con Hinata al suo fianco che cercava di studiare senza successo. Sentì di essere geloso fino al midollo, ma represse un motto di stizza perché sapeva che non sarebbe stata la mossa migliore da fare in quel momento. Si voltò quando sentì la porta chiudersi –l’ha forse sbattuta con forza?- e rimase ancora una volta immerso negli occhi dell’altro.
                «Hai cinque minuti prima che ti faccia uscire. Usali al meglio» gli disse.
                Non aveva parole. «Tutto quello che ho fatto, ecco io-»
Hinata continuava a fissarlo e non lo aiutava di certo. Cosa avrebbe dovuto dire? Come fare per farsi ascoltare?
                «Perché non me l’hai detto prima? Di quello che ti avevo fatto e di come ti eri sentito. Forse sarebbe andata del tutto diversamente, non avremmo mai discusso e non avresti mai pianto, e allora adesso non saremmo qui a guardarci come se fossimo due estranei che-»
                «Quindi adesso la colpa è mia? Sul serio, Kageyama?» lo interruppe il più basso. «Mi tratti male una volta, ti comporti nello stesso identico modo anni dopo e hai il coraggio di dire che la colpa è solo mia? Avrei potuto dirti tutto subito e probabilmente avrei dovuto, ma sarebbe finita male e avremmo preso due strade separate senza nemmeno pensarci due volte, tutto sarebbe stato completamente diverso da ora. Sei venuto qui per parlare con me o sfogare le tue frustrazioni sul tuo sacco da boxe personale?» concluse alzando la voce.
                Tobio lo guardò stranito, come se avesse parlato in una lingua impossibile da capire. «Diavolo, Hinata, stai esagerando! Ho sbagliato ancora, ti ho detto le parole sbagliate ancora una volta, ma non ti ho mai considerato in quel modo! E poi sono venuto qui per te, non per altro!»
                «Se non fossi stato così egoista allora non ce ne sarebbe stato bisogno!» urlò quello di rimando.
                «E se tu non fossi stato così sprovveduto non ci saremmo mai separati, d’accordo?»
                «Non avrei dovuto farti entrare in casa, sei solo uno stupido egoista che è venuto qui per dimostrare che ha ragione. Kuroo e Kenma mi avevano dato un ottimo consiglio, maledizione, non dovevo darti una terza possibilità» mormorò.
Kageyama sentì le orecchie fischiare. Non era quello che aveva programmato, niente stava andando come sperava. Perché non riusciva a dire due parole che fossero giuste? Doveva finire in quel modo, con lui che lasciava casa di Hinata e loro che non si parlavano più? Avrebbe dovuto definitivamente rinunciare a tutto quello, nonostante si fosse accorto solo negli ultimi giorni di quanto gli fosse mancata la presenza dell’altro accanto durante quegli anni? Non avrebbe mai più sentito il proprio nome, il proprio cognome uscire da quelle labbra?
                «Mi dispiace» disse tutto d’un fiato prima che potesse rendersene conto. «Sono uno stupido e ti ho fatto soffrire, sono un re egoista e ti ho trascurato, ma mi dispiace. Lo so che due parole non sono nulla, impiegherò mesi e forse anni a fari accettare totalmente, ma ti chiedo scusa, Hinata.»
La voce gli tremava, ma ancora aveva il coraggio di guardarlo negli occhi. E si rese conto che era bello, di una bellezza raffinata e intrinseca in lui e di cui non si rendeva conto. I grandi e limpidi occhi ramati, i capelli arancioni che gli ricadevano dolcemente sul viso, l’adorabile bassa statura, la sottile forma del viso. Era bello, e non voleva rinunciare a lui nemmeno se in quel momento lo osservava sorpreso, confuso e forse, finalmente, combattuto. Lo vide formare dei pugni con le mani e cercare di cacciare indietro le lacrime.
                «Sei uno stupido! Ora è troppo tardi!» gridò.
Lo spinse contro la porta e sentì il rumore sordo della sua schiena che vi sbatteva contro. Con un’ampia falcata lo raggiunse, mise gli avambracci ai lati del suo viso e lo guardò ancora negli occhi, perdendosi, immergendosi in quelli con l’intenzione di non risalire mai più. Osservò attentamente i suoi tratti, le labbra sottili e secche, il naso leggermente a punta, sentì il petto che si alzava ed abbassava alla ricerca di aria, faticosamente a causa del contraccolpo. Aveva gli occhi socchiusi. Kageyama sentiva caldo.
                «Sei… uno stupido» mormorò ancora.
                «Mi dispiace!» ripetè ad alta voce. «Mi dispiace.»
Si guardarono ancora, azzurro contro rame e vetro immerso nel metallo. Respiravano entrambi profondamente; non potevano guardare altro che non fosse il ragazzo di fronte a loro, e Tobio si avvicinava ad Hinata lentamente ed inesorabilmente. Lo voleva, e se non avesse detto nulla l’avrebbe fatto, non aveva più tempo di tornare indietro. L’aveva deciso, prima, che non sarebbe più riemerso. Ma Hinata non contestò quando spinse le labbra sulle sue.
 
Non credeva avrebbe ceduto a lui così facilmente. Nella sua mente aveva programmato di rimanere immobile nel caso fosse successo, e di non fare altro fino a quando Tobio non si fosse allontanato di sua spontanea volontà. Voleva riuscire a mantenere il punto, non buttare tutto all’aria per poche parole e soprattutto voleva evitare di illudersi ancora, credere ancora che quella sarebbe stata la scelta giusta da fare in quel momento, perché l’altro era finalmente cambiato.
Ma il suo cervello aveva deciso di abbandonarlo non appena sentì quelle labbra premere sulle sue; era come se tutte le connessioni nella sua testa fossero saltate improvvisamente, ignorando qualsiasi cosa che non fosse quella sensazione di averlo così vicino da poterlo finalmente toccare, accarezzare, sfiorare. Stringere. Il cuore sembrava volergli uscire dal petto, sentiva caldo e sapeva di star leggermente tremando, perché quel bacio valeva più di tutte le parole sconnesse e prive di senso che Kageyama avrebbe potuto dire, più di tutte le urla, di tutti gli insulti e le scuse. L’adrenalina lo invase completamente, e ormai aveva relegato la razionalità in un angolo della sua mente per concedersi di godere del momento, perché aspettava un gesto del genere dall’altro da troppo tempo per poter anche solo immaginare di rifiutarlo. L’aveva sognato, ma superava di gran lunga le sue aspettative. Lo voleva, disperatamente, come il disidratato l’acqua, come il corpo l’aria.
Fu un bacio confuso, pieno di morsi sulle labbra, di mugolii e saliva. Una lotta per la sopravvivenza tra due animali feroci che non ne volevano sapere di perdere. Aveva piegato leggermente il capo per permettere all’altro di poterlo baciare meglio; sentiva le mani di Kageyama infilarsi sotto la sua maglia, accarezzavano la sua schiena, la tastavano, la graffiavano, e non aveva idea di cosa fare perché tutto andava così in fretta da non dargli tempo di reagire. Come se fosse l’unica opzione disponibile, affondò le mani nei suoi capelli e lo tirò più a sé, sentendo sempre più caldo, e giurò a se stesso di poter venire incollato a quella porta perché, dannazione, tutto quello era così erotico e intenso da mandarlo fuori di testa. Un gemito acuto uscì improvvisamente dalle sue labbra quando Tobio, anche lui ormai immerso nella situazione, mise un ginocchio tra le sue gambe andando inevitabilmente a toccare il cavallo dei suoi pantaloni e lo spinse ancora di più contro la porta. Sembrò cambiare idea dopo averlo sentito gemere: allontanatosi quanto bastava per prenderlo in braccio, si fece indicare la porta che corrispondeva alla camera da letto. Hinata avvolse le gambe attorno ai fianchi dell’altro e sentì le sue mani palparlo, cosa che lo portò a gemere contro le sue labbra.
Kageyama non era vergine, lo capiva. Sapeva fin troppo bene come muoversi, cosa fare, mentre lui da quel momento in poi avrebbe vissuto una nuova esperienza. Una parte della sua mente aveva paura, temeva il dolore che avrebbe provato, mentre l’altra era troppo concentrata sulla frizione che otteneva muovendo il bacino per essere preoccupata. Quando si sentì stendere sul letto, guardò Tobio sovrastarlo e, ancora una volta, rimase colpito da lui: dai capelli neri, lisci, morbidi ora spettinati per colpa delle sue mani, ai taglienti occhi azzurri che ora sembravano profonde acque d’oceano, alle labbra arrossate e segnate dai morsi; era sicuro di non avere un aspetto troppo diverso dal suo, sperava di essere erotico almeno la metà di quanto lo fosse l’altro.
I vestiti superiori sparirono velocemente, seguiti a ruota da quelli inferiori; tutto finì disordinatamente sul pavimento, e Hinata poté finalmente ammirare il fisico tonico dell’altro, quegli addominali che risaltavano grazie agli allenamenti quasi quotidiani, che lo mandavano fuori di testa e gli fecero sollevare il bacino per trovare ancora quella frizione di poco prima. Tobio si fiondò sul suo collo, lo baciò, lo assaggiò, lo succhiò, beandosi dei gemiti che l’altro produceva, marchiandolo, dimostrando al mondo che finalmente era solo suo. Lo fece inarcare sotto di lui nel momento in cui andò a stimolare i suoi capezzoli.
                «Dannazione, Tobio…» mormorò con voce strozzata, mentre le sensazioni si accavallavano l’una sull’altra così velocemente che ormai aveva smesso di cercare di seguirle. Attorno a lui sentiva solo il profumo dell’altro ragazzo e di sesso, un’unione che gli inebriava la mente e lo mandava in estasi.
Gli chiese, tra un bacio e l’altro, se fosse la sua prima volta; tra il piacere si insinuò la tensione, e l’altro sembrò notarlo e capire. Sperava solo che quello non gli avrebbe impedito di andare avanti, perché non voleva che smettesse di amarlo.
                «Per la prima volta, mi prenderò cura di te» gli disse guardandolo negli occhi, serio. Hinata sorrise, forse quella volta poteva permettersi di illudersi ancora, illudersi davvero. Poteva credere che tutto quello fosse reale, e si convinse effettivamente che fosse così. Gli rivelò che non aveva nulla con sé se non un preservativo, ma nascose il fatto che era nel suo cassetto solo perchè una sera avrebbe voluto fare “qualcosa di diverso” –perdere quella verginità che, ad un certo punto della sua vita, gli era sembrata un peso-, anche se poi non aveva concluso nulla. Tobio annuì mentre ancora scendeva lungo il suo corpo con le labbra: sul petto, sul ventre, nell’interno coscia, sempre più vicino, ed Hinata sentiva così caldo che credeva sarebbe imploso. Lo sentì respirare profondamente, poi tre dita si posarono sulle sue labbra.
                «Bagnale» gli disse.
Oh, se non si fosse imposto di rimanere calmo sarebbe venuto in quell’istante al sentire il suono roco della sua voce.
Doveva ammettere di essere imbarazzato, ma non riusciva a pensare ad altro che svolgere quel compito come meglio riusciva. Contemporaneamente sentiva morsi leggeri sul suo corpo, sulle spalle, succhiotti ovunque l’altro potesse farne, ancora a sottolineare che fosse suo, che fosse stato il primo, nessun altro sarebbe riuscito ad arrivare tanto lontano.
Hinata sentiva il cuore esplodere, perché tutto stava diventando troppo: le sensazioni, i tocchi fugaci e quelli più decisi, i sussurri e i gemiti e i mugolii, avrebbe impresso ogni singolo attimo di quella sera nella sua mente sperando di non dimenticarlo mai. E quando sentì che Tobio lo invadeva con un dito, poi due, poi tre, che si prendeva cura di lui per non farlo soffrire, il fastidio iniziale divenne in breve piacere, e poi impazienza. Gemeva oscenamente, e Tobio sembrava apprezzarlo: con la fronte imperlata di sudore, l’espressione carica di piacere e apprensione per lui, era la persona più bella che avesse mai visto. Se avesse potuto fermar il tempo, si sarebbe preso alcuni minuti per piangere per quanto le sue emozioni erano forti.
Annaspò quando le dita vennero sostituite dell’erezione dell’altro; si era estraniato dalla situazione per alcuni secondi, e ora si ritrovava a stringere convulsamente le spalle di Kageyama. Faceva male, non poco, aveva bisogno di tempo. E lui lo lesse, si fermò per un tempo indefinito mentre gli baciava dolcemente il viso, gli occhi sigillati e la fronte tesa a causa dell’espressione corrucciata. Tobio lo baciò sulle labbra con una dolcezza inaudita, di quel tipo che fa sobbalzare il cuore e manda in pappa il cervello. Lo baciò con le labbra morbide e gonfie, e Hinata non riuscì più a trattenersi dal piangere. Tutte quelle emozioni… voleva solo stringerlo, non lasciarlo andare. Gli avvolse le braccia attorno al collo e ricambiò il bacio con trasporto mentre sentiva le dita dell’alzatore passare sulle sue guance per asciugarle. Gli avvolse le gambe attorno al bacino e lo invitò a continuare, finalmente.
Fu dolce, Kageyama. Hinata poté concedersi di assaporare ogni sensazione, ogni secondo di quell’amplesso. Spingeva come se fosse di cristallo, perché non voleva più fargli del male, e gliene fu enormemente grato. Sentì tutto l’amore e le preoccupazioni di Tobio, tutta quella paura che aveva di farlo soffrire ancora che non sarebbe riuscito ad esprimere a parole. Fu dolce non solo nei movimenti, ma anche nell’animo, anche nel venire –poco dopo di lui- anche nell’appoggiarsi al suo fianco dopo che tutto si concluse. Lo vide con la coda dell’occhio annodare qualcosa e poggiarlo sul pavimento accanto al letto, probabilmente segnandosi mentalmente di gettarlo in seguito. Si avvicinò a lui in silenzio, poggiando la testa sulla sua spalla e accoccolandosi come meglio riusciva; iniziò a tracciare segni immaginari sul suo corpo, scrisse il nome dell’altro diverse volte. Ricevette diversi baci tra i capelli, tutto in silenzio, tutto dolcemente.
Chiuse gli occhi, ascoltando il respiro dell’altro e beandosene. Si addormentò in quel modo, stretto a lui. Fuori, la città continuava a vivere ignara di tutto.
 
Kuroo non l’aveva affatto presa bene, e nemmeno Kenma. Hinata e Kageyama li avevano affrontati entrambi singolarmente, e soprattutto con Tobio avevano parlato per diverso tempo chiusi nella stanza del più basso; ne erano usciti in due soddisfatti, ma rassegnati, ed il terzo abbastanza scosso, ma almeno con un peso in meno sulle spalle. Era stata una conversazione intensa, perché la coppia lo aveva avvertito del fatto che non avrebbero abbassato la guardia su di lui così in fretta, per poi tentennare quando l’altro rispose che avevano completamente ragione, aggiungendo che avrebbe fatto di tutto per guadagnare di nuovo la loro fiducia. Non avrebbe più permesso che qualcuno, lui stesso, ferisse Hinata. I due non lo ammisero mai, ma già in quel preciso istante, vedendo l’espressione del corvino, molte delle loro paure crollarono come un castello di carte sotto il vento.
Lo dimostrarono invitandolo al loro matrimonio, a cui la neo coppia partecipò volentieri alcuni mesi dopo.
Tobio disse all’altro che lo amava improvvisamente, anche se dopo alcune settimane dalla riappacificazione, mentre entrambi aspettavano che il semaforo diventasse verde per attraversare la strada. Come se non riuscisse più e tenerlo per sé, l’aveva buttato fuori con la migliore delle sue espressioni dolcemente imbarazzate. Hinata, dapprima incredulo, gli aveva gettato le braccia al collo, si era dichiarato a sua volta e l’aveva baciato sul posto, ignorando alcuni sguardi rivolti insistentemente verso di loro. A casa, avevano scaldato per bene il letto.
Hinata aveva riallacciato i rapporti con le sue vecchie conoscenze, ovvero gli amici di Kageyama, ed era venuto a conoscenza di alcuni problemi che correvano tra loro; cercava di risolverli come meglio poteva, visto l’aiuto che loro avevano dato a lui e Tobio. Qualche volta riuscivano ad organizzare un’uscita di gruppo, e si rendevano conto di essere in parecchi: nessuna delle loro case riusciva a ospitarli tutti, e Oikawa qualche volta aveva borbottato che era arrivato il momento di cambiare la sua; Iwaizumi ogni volta lo guardava come se fosse impazzito.
Andarono a vivere insieme dopo alcuni mesi, trasferendosi in un casa con un adorabile camino che Tobio aveva preteso di avere. Era un po’ troppo lontana dalla scuola di quest’ultimo, ma rassicurò Hinata dicendo che l’avrebbe visto come un ulteriore allenamento, nulla che non si potesse aggiustare ed apprezzare.
Lo schiacciatore era andato a vedere una partita dell’altro, e poi una seconda ed una terza, ogni volta più sicuro di sé. Tifava per il suo ragazzo, e questo giocava anche per lui; la prima volta, quando l’aveva guardato intensamente dopo un tocco di seconda intenzione, era scoppiato a piangere e aveva sorriso per il resto della serata. Non aveva più perso una partita, ogni volta era in prima fila per lui. Riuscì a schiacciare alcune alzate di Kageyama, emozionandosi quando riuscì a eseguire una loro particolare veloce al primo colpo. Aveva abbracciato così forte l’altro da averlo sentito lamentarsi, ma al contempo Tobio gli aveva accarezzato teneramente il capo, sussurrandogli che era fiero di lui.
Pensando a tutto quello che era successo, Hinata si convinse che ne fosse valsa la pena aspettare così tanto e versare quelle lacrime. Seduto sul divano al buio, accoccolato alla persona che era diventata il suo punto di riferimento, lo ascoltava respirare profondamente, segno che si era addormentato –gli allenamenti, lo studio, le uscite e tutti gli impegni lo sfiancavano terribilmente e, anche se era strano a dirsi, era sempre stato lui il più nottambulo tra i due. Spense la televisione e lo fece stendere, poi si sistemò meglio tra le sue braccia, che si strinsero attorno a lui come se l’altro lo sentisse, come se fosse un riflesso involontario, e chiuse gli occhi sorridendo. Sentiva caldo, era emozionato. Si sentiva a casa.
Fuori il tempo non era dei migliori, il vento soffiava forte e i lampi squarciavano il cielo, ma non era nulla di cui preoccuparsi.
Solo pioggia.

 

 

   
 
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