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Autore: Black Swallowtail    18/08/2018    0 recensioni
I ricordi più difficili da serbare, quelli che ci marchiano come una maledizione, sono quelli dei giorni più felici, macchiati dal proprio errore, distorti dal senso di colpa.
Aidan Reiss, l'esperto dell'occulto che cammina tra la realtà e il mondo sovrannaturale, è costantemente tormentato dalla promessa che ha compiuto, una croce che ha scelto per se stesso.
Dopo gli eventi che hanno portato al salvataggio di Jeiv Kondras, Azure Kuri, in un parco in rovina, abbandonato e distrutto, su un'altalena arrugginita, ascolterà la storia di Aidan — una storia di sofferenze, apatia, abbandono e rosso cremisi.
La storia della sua più grande perdita.
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Scary Monsters and Nice Spirits'
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VII

—“Remember the me, the way I used to be.”

 

“Credevo fossi scappato. Mi sono svegliata ed eri sparito. Non ti avrei biasimato.”

Le parole che mi accolgono, non appena spingo lentamente la porta sui suoi cardini che scorrono lisci senza nemmeno uno scricchiolio.

Più che parole, sono un sussurro malinconico, quasi amarognolo, che scivola dalle sue labbra socchiuse come un respiro trattenuto a lungo.

Le esili ginocchia tirate al petto, la testa leggermente piegata in avanti, come se fino ad un attimo fa avesse poggiato la fronte su di esse, il suo intero corpo sembra perdere una sorta di rigidità che intravedo sotto la leggera vestaglia bianca, immacolata. Se non per il sangue sulla spallina, due o tre gocce cadute in un perfetto triangolo, quasi come se fosse un disegno studiato ad arte. Un disegno del mio sangue, colato dalla sua bocca, dai suoi denti che hanno scavato nella carne quasi disperatamente.

Nei suoi occhi, appena nascosti dai capelli, in mezzo a quella nebbia vorticosa ed indecifrabile, riesco a leggere una sorta di vago sollievo; come se per tutto questo tempo, non avesse fatto altro che starsene rannicchiata sul divano, in attesa. Riesco a vedere quella vaga, caratteristica patina umida, che sono riuscito ad osservare solo due volte, ieri notte, nel parco gelido, quando l'ho incontrata; e nel suo letto, quando le ho sussurrato che poteva farlo. Che non c'era altro modo, dopotutto.

Credeva sarei scappato, come è già successo. Credeva che sarei fuggito, vedendola come una creatura orrenda, una bestia assassina. Lei stessa è più che consapevole della sua natura, della sua singolare maledizione che la tormenta, che la riduce ad un fantasma pallido destinato alla solitudine e al senso di colpa; sa di apparire come un mostro, agli occhi degli altri.

Il rumore dell'orologio che ticchetta ritmicamente è assordante, tanto da poterlo sentire rimbombare nelle ossa, rimbalzare nella mia testa offuscando i miei pensieri, fili annodati e contorti che non hanno un capo, né una fine. Solo una serie di sconclusionate immagini dai colori indecifrabili, dove le parole non sono altro che statiche violente.

Più la guardo, più osservo la pallida, debole figura, schiacciata, devastata dal suo peso invisibile, più sento una sensazione pungente che si diffonde nello stomaco, come se le viscere volessero annodarsi; più catturo i dettagli del suo corpo stravolto, dei suoi lividi, del suo viso provato, dei suoi occhi cerchiati, del loro riflesso lucido, della loro amarezza e disperazione, abbandono e soffocamento, più il ronzio nella mia testa aumenta. Più parole, frammenti di discorsi, si accavallano l'uno sopra all'altro, emergendo dal rumore bianco che mi divora e mi impedisce di ragionare. Di capire cosa pensi di lei.

Perché più la guardo, più in lei vedo una vittima di se stessa… ed una vaga ombra che le torreggia sopra, come se ne deformasse i lineamenti, dettagli mostruosi che prima non ero riuscito a percepire. I canini affilati, la pelle tanto bianca da sfiorare il cadaverico, il corpo che sembra sempre più fragile. Come se stesse lentamente avvizzendo.

La luce grigiastra fatica a filtrare attraverso le finestre, riesco ad intravedere le gocce di pioggia che, scivolando tra le persiane, battono ritmicamente contro i vetri delle finestre, inumidendoli con piccoli, desolati rivoli, una vaga orchestra di sottofondo che riempie il silenzio tra di noi, il silenzio vibrante di chi vorrebbe parlare, ma non riesce a dire nulla.

Come se il silenzio rimandasse l'inevitabile, come se inconsciamente ognuno frenasse le parole in gola, soffocandole sulla lingua, cercando di non aprire la bocca per respirare, per timore che possano sfuggire e distruggere la sospensione irreale in cui siamo immersi fino al collo, sperando, magari, che arrivi fino al mento, alla bocca, congelandola, alla testa, al cervello, spegnendolo, bloccando il flusso di pensieri fuori controllo.

Entrambi sappiamo che il filo sta per spezzarsi. Ed una parte di me non riesce a tollerarlo, vorrebbe poter rimanere disperatamente aggrappata a questo sottile nastro rosso che ha annodato le nostre esistenze fino ad oggi, come se un beffardo gioco del destino, o una realtà folle avesse deciso di stringerlo per spingerci fino a questo punto.

Ne eravamo entrambi consapevoli, lo siamo stati fin da quando mi sono avvicinato esitante, fin da quando mi ha lasciato avvicinare esitante, che entrambi danneggiati come eravamo, come siamo, non avremmo potuto fare altro che cercarci fatalmente a vicenda. Perfino in questo momento, perfino fino all'estremo limite della nostra coscienza.

...perché abbiamo esitato. Perché ci siamo lasciati prendere da quello che provavamo per lei.

Parole, frasi, che sembrano ripetute da un vecchio grammofono rotto, che sputi fuori echi attraverso le statiche assordanti dei miei pensieri, attraverso il respirare faticoso del mio petto, attraverso lo sfuggire dei miei occhi, dei suoi occhi, l'uno dall'altro. Perché toccarli, sfiorarli, vorrebbe dire rompere questo attimo di finzione che ci concediamo. Forse l'ultimo della nostra lunga, contorta relazione.

Ancora un po', solo per un po', ti prego, voglio fare finta che tutto questo non sia accaduto. Voglio credere che lei sia la Ayane indecifrabile e tormentata, ed io nulla più che una figura vuota che viveva alla sua ombra, solo per riempirsi di lei, del suo colore, dei suoi dettagli, unici in un mondo insapore e spento.

Per questo, quando sento la sua testa poggiarsi sulla mia spalla, quando sento le sue dita cercare vagamente le mie, sfiorandole appena per poi ritrarle, quando sento il gelo dei suoi polpastrelli, come se in lei mancasse il sangue, l'unica cosa che mi viene in mente, l'unica cosa che riesco a pensare è che ci sia qualcosa di estremamente sbagliato, in noi. Ma che proprio questo qualcosa ci ha spinti l'uno verso l'altra. Ed è questa screpolatura della nostra esistenza che ci ha portati fino a qui. Per questo, mi ritrovo a pensare, vorrei che fossimo senza tempo, congelati in questo istante, come se nulla fosse mai accaduto.

Sento la sua mano carezzarmi leggermente il braccio, ed un fremito incontrollabile passa lungo la spina dorsale, irradiandosi dalle sue dita che sfiorano la carne attraverso i vestiti, un riflesso che non riesco a nascondere nella mia espressione, perché scivola fino al suo viso, accartocciandolo leggermente, come se minacciasse di spaccarsi per il tempo di un battito di ciglia, prima che torni a nasconderlo da me, voltandosi, offrendomi soltanto i suoi capelli arruffati ed in disordine, i capelli di chi si è alzato dal letto e si è trascinato fino al divano, in attesa.

Non possiamo girarci attorno per sempre. Non possiamo rimanere sospesi qui. Lo sento attraverso il suo corpo, che cerca di non muoversi, ma che lentamente sembra come attraversato da un brivido inesorabile.

La domanda che fuoriesce, fievole, dalla sua bocca, che tocca appena le mie orecchie, “Dove sei stato?”

Mi mordo il labbro inferiore, la testa abbassata, gli occhi che osservano le mani immobili, poggiate sulle ginocchia, quasi come se sfuggendo i suoi occhi, potessi evitare di rispondere e allungare, ancora per un attimo, anche solo per lo spazio di un respiro, l'inevitabile. Allontanare ancora il dubbio e fare finta che tutto sia normale, che in me non si agiti quel dilemma, quella domanda divorante a cui non riesco a trovare risposta. Stringo i pugni, intravedo le nocche sbiancare attraverso il mio sguardo perso, ricoperto da una patina irreale che sfoca ogni dettaglio.

Ayane rimane in silenzio, senza ripetere la domanda, senza pressare per una risposta, in attesa che io prenda il respiro, collezionando, uno ad uno, fotogrammi sconclusionati e voci meccaniche per renderle immagini, ricordi, condensarli fino alla bocca ed aprire le labbra.

La mia stessa voce suona alle mie orecchie come una scarica, un'interferenza, nulla più che un bisbiglio di rumore bianco incapace di trasformarsi in parole.

“Nella tua vecchia scuola.”

“...Hai incontrato Ethan.” Non è una domanda. Lo ha sempre saputo, è sempre stata consapevole dello squarcio che si è lasciata alle spalle, perché è lo stesso che porta su di sé. Uno squarcio rosso cremisi, come quello tracciato sulla tela, in un solo movimento. “Ti ha parlato di quel che è successo?”

Dev'essere stato in quel momento che lo ha realizzato del tutto, che è riuscita come ad arrivare a patti con se stessa e con il senso di colpa. Quando ha avuto il coraggio di tracciare la sua stessa ferita e di mostrarla a qualcuno, come in un disperato atto di redenzione, alla ricerca di qualcuno che potesse comprenderne la profondità.

“Sono passati due anni. Mi sembra un'eternità o un battito di ciglia. A volte mi sembra di essere ancora lì. Mi sveglio la mattina e mi chiedo se fuori non ci saranno Ethan ed Ether ad aspettarmi, mi chiedo cosa diranno, di cosa rideranno; mi chiedo quante volte Ether mi rimprovererà per essere in ritardo, o quando Ethan mi darà un libro da leggere.” La sua voce trema leggermente, come se fosse uno specchio che si ricopra di sottili, invisibili crepe, ogni parola uno scricchiolio, ogni sospiro un frammento, “E poi la realtà mi cade addosso. Insieme ai sensi di colpa. Insieme al peso sul petto. Insieme alla sensazione di disgusto. Alla paura di guardarmi allo specchio. Al terrore di sentirmi tanto debole da dover…” Una pausa, come se esitasse, come se non riuscisse a strappare le parole dalla bocca, come se stesse per spaccarsi completamente, per andare in pezzi, in una nube di frammenti trasparenti tra le mie braccia, “...mangiare ancora.”

Vorrei poter allungare la mano per sfiorarla, ma qualcosa mi trattiene. Una parte di me ha il terrore assoluto che, se la sfiorassi, potrebbe rompersi e sparire, lasciandomi da solo, in questa casa vuota. Un'altra parte, invece, ha paura, un sottile, gelido terrore di fronte a lei, che cozza rabbiosamente con la sensazione di pietà, la volontà di avvicinarmi, di sfiorarla.

Non riesco a parlare, perché la bolla in cui siamo rinchiusi è fragile, tanto sottile da reggersi solo sul mio silenzio che la conforta e sulle parole che escono come rivoli da un rubinetto gocciolante, che sia rimasto serrato per tanto tempo. Ma che ora, dopo anni, si sblocchi ed inizi timidamente a singhiozzare e lasciare gocciolare acqua nerastra, intrisa di disperazione e colpa.

“Due anni fa ero sola, all'Accademia. Come ora, tutti mi giravano attorno, senza avvicinarsi, come se temessero, come se sapessero. Mi guardavo attorno, mi sentivo un'estranea, un mostro nascosto dentro alla pelle di un umano. Ether fu la prima ad avvicinarsi, tirandosi Ethan dietro; erano amici da tempo e lui la seguiva perché forse lei era l'unica persona che riuscisse a comprenderlo, almeno un po'.

Sai come ci si sente, quando qualcuno riesce a tenderti una mano. Quando, improvvisamente, non sei così abbandonato come credi, quanto il mondo che ti sembrava ostile e mostruoso ti rivela, per un attimo, uno spiraglio. Loro due erano le uniche persone che avessi al mondo, capisci? Una come me, un mostro maledetto dal suo stesso sangue, era felice. Non mi sentivo in diritto di esserlo. Mi sentivo sempre più disperata, nei giorni in cui la fame e la debolezza mi costringevano a nutrirmi.

Il senso di colpa mi distruggeva. Ogni volta, mi sembrava di tradire la fiducia che mi era stata tesa. Mi sembrava di bruciare e consumare il filo che ci legava. Mi sentivo sporca ed indegna, mi sentivo morire ogni volta che Ether mi abbracciava, ogni volta che Ethan esitava nel parlarmi. Mi sentivo morire quando rimanevo sola con lui e il mio cuore accelerava leggermente. Provavo disgusto per me stessa quando osservavo i loro colli, le loro vene, e immaginavo solo il sangue che pompava dolcemente al loro interno.

Per questo, ho iniziato a trattenermi. Ho provato a non mangiare, a tentare di trovare delle vie di fuga, di soffocare il bisogno con altri vizi. Ma quando il tuo sangue è anomalo, niente può infettarlo e la tua mente non sembra voler dimenticare il bisogno. L'alcool mi disgustava, mi sembrava di ingollare veleno dal sapore ributtante, ma finivo bottiglie su bottiglie pregando che arrivasse l'ubriacatura, la sbronza, il coma etilico.

Ether mi vedeva sempre più debole, macilenta, come se stessi appassendo, come se stessi lentamente morendo. Un giorno, dopo due mesi di astinenza, Ethan mi prese da parte e mi chiese cosa non andasse, se si trattava dell'alcool; io riuscii solo a negare, debolmente. Lui insisteva. Mi aveva stretto per le spalle. Il suo sguardo mi uccideva ogni volta, ogni volta, ogni volta. Era come il tuo.

Disperatamente fiducioso, assolutamente preoccupato.

Forse è stato in quel momento che qualcosa in me si è spezzato. Deve essere stato in quell'istante, che ho realizzato di non avere speranza. Di non poter fare nulla per combattere la mia natura. Ho capito di essere un mostro. Un mostro che non può guarire da se stesso. Non riuscivo a sopportare i loro sguardi, le loro occhiate, le loro attenzioni; per quanto volessi, per quanto lo desiderassi, mi sentivo incapace di accettarle. Mi sentivo indegna, sporca, distorta. Ogni giorno mi chiedevo per quanto avrei potuto resistere, quando sarei crollata.

La risposta arrivò quella notte, quando scappai dalla presa di Ethan e corsi via nella notte, piangendo disperatamente sotto la pensilina di un autobus. La sua uniforme era della mia stessa Accademia. Non la conoscevo, non la odiavo, non aveva fatto nulla per provocarmi; si era solo avvicinata, poggiandomi una mano sulla spalla, chiedendomi se andasse tutto bene.

Non la vidi nemmeno in faccia, perché stavo piangendo troppo forte, e continuai a singhiozzare perfino quando la sbattei a terra, affondando i canini nella giugulare, succhiando disperatamente tutto il sangue che riuscì ad ingollare.

Trascinai il suo corpo in un vicolo e scappai, corsi fino a casa, barcollai dentro senza nemmeno rendermi conto di quello che mi accadeva intorno.

Tentai il suicidio, quella notte. Bevvi bottiglie su bottiglie, ingollando pasticche e pasticche di medicinali sparsi per la casa, senza la forza di urlare o di lamentarmi, semplicemente asciugandomi le lacrime silenziose che continuavano ad appannarmi la vista. Mi trovai distesa sul pavimento, debole ed incapace di alzarmi, con del vomito nerastro e macchiato di sangue rappreso.

Da quel giorno, tornai a nutrirmi regolarmente. Come è accaduto anche quest'anno, iniziarono a notare le aggressioni, le sparizioni ed Ether si preoccupava fin troppo per me, che passavo proprio nel luogo dove le persone venivano assalite più frequentemente.

Per un periodo, mi sembrò che tutto potesse andare per il verso giusto. Ebbi l'illusione che, nonostante tutto, il legame tra di noi sarebbe potuto rimanere per sempre. Ed è lì che ho sbagliato, lì ho commesso l'errore peggiore: mi sono illusa di poter essere felice.”

L'orologio si è fermato, la pioggia ha smesso di battere violentemente contro il vetro; il tempo si è immobilizzato, lasciando che la storia di Ayane si dipani e si condensi. Riesco a vedere, ora, quello che Ethan intravedeva nella scuola. Riesco a vedere le persone nei corridoio, marionette e fantocci senza volto e senza fili; ma sopratutto, riesco a vedere loro tre, poggiati contro una finestra, seduti attorno allo stesso banco, abbandonati sui gradini dell'ingresso con la pioggia che colpisce l'asfalto del cortile, come se fossi lì, con loro, nei resti distrutti dell'Accademia improvvisamente abitata da immagini scolorite.

“Avevano capito che qualcosa non andava. Non immaginavano che io fossi un mostro, ma c'erano i segni, evidenti, che ci fosse qualcosa che mi tormentava, che avessi un peso inspiegabile sulle spalle. Forse era la mia costante solitudine o i periodi in cui apparivo più debole; forse era la difficoltà con cui comunicavo, quanto poco comunicassi a parole.

Lo fecero solo perché ci tenevano a me molto più di quanto mi meritassi. Forse credevano fossi caduta nell'alcolismo. Lo avrei preferito, sarebbe stata una verità facile da accettare, da spiegare. Mi seguirono, una sera di febbraio, mentre tornavo a casa, scivolando in un vicolo secondario. Di solito, una studentessa di un anno più grande tagliava per quel vicolo, risparmiando qualche minuto di camminata. L'avevo osservata per giorni.

Ogni volta che arrivava il momento, una nausea violenta si impadroniva di me. Un disgusto per quello che stava per accadere, una divorante, rabbiosa sensazione di repulsione—eppure, allo stesso tempo, non potevo fare a meno di sentire l'adrenalina, l'anticipazione, pregustare vagamente il momento; ed era questa la cosa che più mi disturbava e mi distruggeva lentamente, pezzo per pezzo, la testimonianza che, in fondo, ero pur sempre la creatura ripugnante che nessuno vedeva.

Sono consapevole del fatto che avrebbero potuto abbandonarmi, addirittura uccidermi, se solo lo avessero voluto. Non avrei protestato, avrei capito perfettamente. Nessuno dovrebbe vivere accanto ad un mostro pericoloso come me… Eppure, hanno deciso di rimanermi accanto.

Non capivo perché lo stessero facendo. Non mi sentivo sollevata, non credetti ingenuamente che le cose sarebbero andate per il verso giusto; avevo solo un'assoluta paura del mostro che ero e che non riuscivo a contenere del tutto. Lentamente, i miei bisogni si fecero più impellenti, più urgenti. Iniziavo ad avere paura per loro. Ho perso il conto delle volte in cui sono tornata a casa in preda allo choc, il viso imbrattato di sangue, le mani sporche di liquido rossastro gocciolante, ancora tiepido.

C'erano delle notti in cui, troppo sconvolta, mi trascinavo fino a casa di Ethan per piangere disperatamente fino ad addormentarmi sul suo letto, chiedendomi perché fosse ancora lì. Lo sentivo, nell'altra stanza, che aspettava mi addormentassi e non potevo fare a meno di pensare cosa passasse, in quei momenti, nella sua testa.

Forse, in qualche modo, ne ero consapevole; ed è proprio per questo che correvo da lui e non da Ether. Perché sapevo che lui avrebbe perdonato ogni cosa, mi avrebbe sempre accolto, qualunque cosa avessi fatto; e nonostante ciò mi desse una piacevole sensazione di tepore, mi spaventava terribilmente al tempo stesso, mi impediva di guardarlo in faccia, di specchiarmi nei suoi occhi come avrei voluto.

In quei giorni, la corda era già tirata, sul punto di spezzarsi.

Fui io stessa a reciderla.

—Aidan.

Ho ucciso Ether. Ho ucciso la prima persona che si è avvicinata a me. L'ho uccisa e poi l'ho abbracciata, mentre si spegneva. L'ho uccisa, l'ho abbracciata, ho sentito il sangue colare sui vestiti, sulla pelle, sul viso, mischiarsi alle mie lacrime. L'ho uccisa perché era nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Perché era buio, perché non sapevo fosse lei.

No, queste sono solo bugie che mi ripeto prima di dormire.

L'ho uccisa perché sono un mostro, Aidan.

Sono un mostro senza speranza che si merita la solitudine.”

Si volta verso di me, mostrandomi il suo viso distrutto e spaccato, ricoperto da crepe di lacrime e disperazione che colano lungo le guance, lacrime incolori, chiare come le sue parole, le sue scuse, pronunciate con una voce che non ha nemmeno una traccia del tremore.

Chiede scusa ad Ether, per averla uccisa.

Chiede scusa ad Ethan, per averlo distrutto.

Chiede scusa a me, per non essere riuscita a tenermi lontano. Per aver ripetuto gli errori del passato.

Vorrei riuscire a dire qualcosa, poterle stringere le spalle e lasciare che le sue lacrime inzuppino la mia spalla, soffocare i suoi singhiozzi fino a farli spegnere debolmente; eppure, mi sembra di non riuscire a muovermi, come se il mio corpo istintivamente rimanesse inchiodato al suo posto, un leggero brivido che si allunga sulla schiena, viticci gelidi che sfiorano la mia pelle, screpolandola appena di una vaga sensazione di paura. Un timore nero e tagliente, che germoglia nel mio petto come un rampicante, una grondante edera soffocante, stringendo i polmoni, la trachea, il mio cuore che sembra rallentare il suo battito. Eppure, in fondo a questa gramigna nerastra e piena di spine, riesco a sentire ancora quella vaga attrazione, quel magnetismo innato mi fa allungare lentamente la mano, le dita tremanti, quasi non fossero le mie, che formicolano leggermente mentre mi avvicino alla sua pelle bianca, innaturalmente bianca, terribilmente anemica. Terribilmente bisognosa di sostegno.

Quella stessa sensazione di ieri sera, la stessa che mi si attorciglia nelle viscere, è come un sottile sospiro nel retro della mia coscienza, un sussurro che mi sfiora leggermente le orecchie, quando la vedo ridotta in pezzi, lacerata e raggomitolata su se stessa, divorata dai suoi fantasmi, dai suoi sensi di colpa che non potrà mai lavare via. Riesco quasi a vederli, come se fossero tanti, lunghi graffi rossastri, che la attraversavo da cima a fondo, purulenti, che si attorcigliano e si scuotono seguendo il ritmo del suo affannoso respiro. Come tanti viticci di rose che sbocciano conficcando le spine nella carne, creano una rete, un rosario intrecciato orrido e pulsante che rappresenta ogni singolo peccato, ogni colpa, ogni stilla di sangue che ha bevuto.

Porta su di sé il peso divorante e la consapevolezza che non c'è modo per sfuggire, per sottrarsi a questa natura divorante che è parte di lei. Si può voltare le spalle a tante cose, ci si può lasciare indietro il passato, tentare di rimediare ai propri errori, infliggersi punizioni e sentirsi morire dentro ogni giorno, mentre ci si guarda nello specchio per vedere solo un'immagine distorta ed insopportabile; ma non ci si può strappare di dosso se stessi.

—Cosa ci rende umani? Qual è quel dettaglio, quell'infimo frammento di noi stessi che ci permette di stringere i denti e convincerci di essere come gli altri? La carne, il cuore che batte ritmicamente, il sangue nelle nostre vene, le emozioni che scaturiscono tra neuroni, il respiro affannoso dei petti, la paura inspiegabile e divorante di noi stessi, gli occhi vitrei o tremolanti, l'insopportabile sensazione della coscienza che si contorce, i polpastrelli che sfiorano esitanti, la consapevolezza dei nostri errori…

La risposta è semplice ma desolante. La risposta fuoriesce dalle mie labbra secche e screpolate, come se strisciasse a fatica attraverso la gola e le corde vocali non riuscissero a tirarla fuori del tutto, una risposta di rassegnazione assoluta, una ammissione di piccolezza – “Non lo so.”

Alza appena lo sguardo, gli occhi ancora umidi, dove ombre liquide si addensano e accumulano, di un profondo inchiostro come la sua pupilla che si riflette nelle gocce trasparenti. Uno sguardo confuso, in cui riesco a vedere riflessa la mia immagine. Forse è così che mi vede, è in questo modo che mi osserva sempre? Sono davvero così patetico, poco più che un relitto di un essere umano?

La figura riflessa in quegli occhi non è altro che un ragazzo impotente, dal viso scavato e pallido, gli occhi cerchiati che non riescono a stare fermi, che continuano a muoversi impercettibilmente, le labbra strette rabbiosamente, le spalle abbassate e rigide, come se fossero congelate insieme al suo corpo immobile, incapace anche solo di sfiorarla.

“Non so cosa ci rende umani. So solo che mi sento terrorizzato. Eppure, nonostante tutto...” le parole mi si strozzano in gola. Come sempre, sono desolante, incapace di riuscire a toccarla. Incapace di farle capire questo groviglio divorante di terrore ed attrazione ed incredulità, di pensieri corrosivi, che mi consumano di volta in volta, di immagini orrende e malinconiche. Una ad una, messe insieme, come tanti frammenti di specchi che riflettano un'immagine diversa, possono ricomporre l'Ayane che è davanti a me.

L'Ayane davanti a me è la stessa che è sempre stata sola. La stessa che cercava di tenere lontano chiunque, ma che attirava fatalmente gli altri. La stessa che, malgrado tutto, malgrado le promesse fatte a se stessa, voleva soltanto che qualcuno la capisse e le stesse accanto – nella speranza di sentirsi più umana di quanto non si vedesse. La stessa che piange quando si macchia di sangue, che rimane sola in un parco in silenzio per tentare di rivedere vecchi fantasmi del passato. La stessa Ayane che, dentro di sé, ha un vuoto che la inghiotte, un vuoto assolutamente incolore in cui risalta solo un unico, squarcio rosso.

La stessa Ayane che riesco a vedere tinta di colori perfino quando tutto il resto scompare nella nebbia e nel grigiore, che dà colore a quello che la circonda.

Si avvicina di nuovo a me esitante, come se temesse di essere respinta, come se non toccasse più qualcuno, in questo modo così impacciato, da tempo. La pelle del suo braccio è gelida, come ieri notte, e quando le sue dita scivolano sul mio viso, cercandone i lineamenti alla cieca, ho un leggero, impercettibile sussulto. Sotto la mia maglietta, brividi di freddo mi percorrono irradiandosi dai suoi polpastrelli. Mi accarezza il collo e la schiena, seguendo la colonna vertebrale centimetro per centimetro, come se stesse cercando di passare su ogni brandello della mia carne.

Il suo tocco arriva al morso, al segno sulla spalla, ne percorre il bordo con studiata lentezza, quasi a volerne imparare alla perfezione la forma, volerla imprimere nella sua mente. Una grandezza pari a quella dei suoi canini, dei suoi denti perfettamente bianchi, che ho visto solo digrignarsi.

“...nonostante tutto, non riesco a non pensare che tu non sia un mostro. Volevi solo essere umana. Volevi sentirti meno sola.”

“Non sai quanto a lungo ho desiderato essere come gli altri. Perciò, ho commesso un errore, ed ho finito per sporcarmi di quel rosso che mi attraversa da parte a parte.” La sua mano scivola lungo il mio avambraccio, seguendone la linea, fino a sfiorare il polso, soffermandosi sulle vene, sulle diramazioni, per sentire il sangue che scorre. “Non mi sono mai perdonata quello che ho fatto. Non potrò mai farlo. Ho ucciso chi aveva creduto in me. Quel giorno, credevo di aver pianto tutte le mie lacrime; è stato il momento in cui ho realizzato brutalmente che, per quanto lo desiderassi, avrei procurato solo sofferenza a chi mi sarebbe stato attorno.” I polpastrelli solleticano il palmo della mia mano, muovendosi lentamente in una spirale pensierosa, fino a che le nostre dita non si sfiorano, come tante schegge di ghiaccio che mi pungano. “Non saresti dovuto starmi vicino. Avrei dovuto allontanarti fin da subito. Il mio problema, Aidan… è che io non ho mai smesso di sperare di poter avere, per qualche momento, la sensazione di essere umana. Perdonami. Sono un'egoista, ora come allora.”

Le nostre dita si allontanano, senza riuscire ad incrociarsi, così come i nostri sguardi. Istintivamente, per quanto provi a cercarla, continua a sfuggirmi, allontanarsi dai miei occhi, senza però staccare il suo fianco dal mio, senza rompere il contatto fisico, quasi come se la cosa la spaventasse. Come se tentasse di imprimerlo in sé, in qualche modo.

“Saresti dovuto essere terrorizzato da me. Sarebbe giusto così. Saresti dovuto scappare. Ed invece, mi hai detto che credevi fossi umana anche io.”

Si alza in piedi, malferma sulle gambe che tremolano leggermente, minacciano di lasciarla crollare, ma combatte contro se stessa, combatte contro il suo corpo esile che sembra volersi spezzare, che si agita appena, quasi come se volesse abbattersi, quasi come se trattenesse all'interno qualcosa. È sempre stata così, d'altronde. Non ha mai lasciato fuoriuscire nulla, non a parole. C'è sempre qualcosa che, per lei, possa sostituire la voce che non riesce a tirare fuori. La sua mascherata, la sua lunga, infinita mascherata non ha mai nascosto del tutto quello che è davvero – perché, come ha detto lei, alla fine era quello il suo desiderio più profondo e corrosivo. Essere capita, avere qualcuno che la facesse sentire ciò che non le era mai stato concesso essere.

“Non riesco a sopportare l'idea di condannare qualcun altro, Aidan. Ho già troppi pesi sulla coscienza per portare anche il tuo… quello dell'unica persona che mi sia rimasta.”

Si deve sforzare per muovere quei pochi passi che la separano dalla porta, prima di fermarsi sull'uscio, esitante, le spalle sottili curvate. Ormai so quanto le costi cercare di resistere all'impulso di fremere o di muoversi di scatto.

Per me, è come se fossimo immersi in acqua, in un'atmosfera sospesa e distorta, tanto surreale da rallentare le nostre azioni, soffocare le nostre parole. L'unico rumore che sento, è quello del battito del mio cuore che si contorce e pompa sangue, sangue che arriva fino al segno lasciatomi dai suoi denti, e ad ogni nuovo rivolo, ad ogni nuova contrazione, corrisponde un dolore sordo ed appena percettibile. Il dolore che lei mi ha inflitto e che ho accettato io stesso, per permetterle di nutrirsi. Per permetterle di vivere.

“Ho vissuto troppo tempo con questo senso di soffocamento, Aidan. Averti vicino mi ha ricordato tutto. Ma, per qualche istante, mi ha fatto credere che ci fosse un po' di speranza, per me.” La sua voce sembra quasi incrinarsi, per un secondo, e la mano raggiunge lentamente il viso, stringendolo con violenza, senza che io possa vederla. La sua voce è soffocata. Ma la sento, rotta. Spezzata. La sento squarciata, come lei. “Non seguirmi, per favore. Non fare nulla per fermarmi. Tutto andrà al suo posto. È la cosa giusta da fare. E nessuno, in fondo, sentirà la mia mancanza.”

Posso solo guardarla, incapace di muovermi. Il respiro congelato.

Posso solo riempirmi di lei per un attimo, incapace di pensare.

Ci sono dei momenti in cui i pensieri sono così ingarbugliati da esser intraducibili. Da poter essere rappresentati solo come un assoluto susseguirsi di statiche senza rumore.

 

 

 

 

E poi, lo scatto della serratura.

“Sai che non è vero.”

 

 

“Se è davvero così, allora ti chiedo solo una cosa. Promettimi che ti ricorderai di me, vivida come ero.

Come sarei voluta essere.”

 

Ayane sparisce così come è arrivata, in un battito di ciglia, riempendo i miei occhi, le mie retine, la mia mente di… qualcosa. Quel qualcosa che non so descrivere. Un qualcosa fatto di colori ed espressioni, talmente vivo da afferrarmi il petto e scuotermi, intorpidito.

Un qualcosa che non riuscirò mai a dimenticare, impresso a fuoco nella mia mente.

Abbiamo entrambi capito, che in fondo, ci cercavamo da tempo.

Alla ricerca di qualcosa di simile, nella speranza non di comprenderci, ma di colmarci, almeno un po'.

Almeno un attimo.

Entrambi danneggiati, ci siamo cercati disperatamente.

La porta si chiude.

Ayane sparisce così come è arrivata.

Una figura più viva di ogni altra.

 

 

Non so cosa ci renda umani. Ma sono convinto, come quella notte… che, in fondo, sia umana anche tu.

 

 

Apro gli occhi stanchi solo per trovarmi immerso nella solita, monotona semioscurità di ogni giorno; quella morbida atmosfera sospesa fatta di buio denso, tagliato appena dalla luce che filtra dalle imposte, solleticandomi le palpebre pesanti e dandomi una gentile, impercettibile scossa.

Il mio corpo ricoperto di un sottile strato di sudore gelido sembra stretto nel sudario di coperte e ci metto più di qualche secondo a realizzare che il respiro affannoso è il mio, che anche questa volta si è trattato di un sogno. È, come capita ogni notte, una di quelle esperienze oniriche tanto vivide da sembrare reali, nelle quali sono immerso fino alla testa, muovendomi tra figure stilizzate che non ho mai incontrato, partecipando a fatti che non ho mai vissuto, espedienti che il mio subconscio ha assemblato con frammenti di vita inconsapevoli, solo per decorazione.

Si tratta di una cornice, come ogni volta, uno sfondo che culmina sempre in lei. Nella sua figura seduta di fronte ad un quadro completamente rosso, sul quale sta apponendo la sua firma.

In questi momenti, sono consapevole che è una vana illusione, qualcosa nel retro della mia coscienza sa che mi trovo in un sogno. Eppure, fatalmente, sento il bisogno di avvicinarmi incredulo. Di toccarla, di sentirla, di parlarle. Solo per vedere tutto puntualmente infrangersi di fronte ai miei occhi. Ad accogliermi, c'è sempre la solita, monotona semioscurità.

Tirarmi a sedere sul bordo del letto, la testa stretta tra le mani sudate, è difficile come sempre. Mi gira sempre un po', quando succede, e ho bisogno di qualche istante per calmarmi, per riprendere il controllo di me stesso. Il respiro si affievolisce fino a tornare regolare, il battito del cuore si allenta e la vista annebbiata finalmente si schiarisce.

Puntualmente, ogni volta, mi trovo ad alzare lo sguardo verso il quadro. Forse l'ho appeso lì perché, inconsciamente, sapevo che lo avrei visto ogni giorno. Forse una parte di me vuole continuare a punirsi per quello che è successo e non riesce a perdonarsi per essere rimasto immobile, per non essere riuscito a trattenerla. Dev'essere per questo che non riesco mai a sfiorarla?

Il motivo per cui non riesco mai a parlarle nemmeno negli incubi orrendi?

La tela è rossa. È come se avesse assorbito un po' di lei, perché il suo colore è vivido come quando la vidi per la prima volta, nell'aula del club di arte. Allora, non era nulla più che un quadro bianco, con un singolo squarcio rosso. Mi sono chiesto quando ha avuto il tempo di cambiarlo. Se forse aveva già deciso tutto prima, quando non mi ha in trovato casa. O se è stata la sua ultima volontà prima di sparire.

Oggi sono quattro mesi e tre giorni dalla sua sparizione. Non posso fare a meno di tenere il conto, anche se ogni volta lo stomaco si torce per un secondo e, istintivamente, sento il bisogno di sfiorare il segno rimasto sulla spalla. Ormai sono poco più che due fori biancastri, l'unica vaga cicatrice rimasta come memento. L'unico segno evidente che abbia lasciato del suo passaggio su di me.

Il sole è ormai alto abbastanza da profilarsi attraverso le serrande e, con l'aumentare della luce qualche raggio sfiora il suo nome elegantemente tracciato in un angolo, mi ritrovo a pensare che queste pennellate cremisi, questa tela completamente, assolutamente rossa, sia l'unico dipinto che non abbia lasciato in bianco.

L'arte è espressione dell'animo umano. È stata lei ad insegnarmelo.

Quattro mesi scorrono lentamente, quando ogni colore si spegne, ma almeno non c'è bisogno di preoccuparsi di nulla, quando niente ha importanza. Basta trascinarsi ed aspettare, arrancando con le proprie catene strette ai polsi, abituarsi al rumore statico violento all'interno della propria testa, che soffoca i pensieri, ogni altro rumore.

È questo quello che mi sono ripetuto per tanto tempo, un giorno dopo l'altro, evitando accuratamente di ascoltare le voci attorno a me. Le voci che inevitabilmente hanno parlato di lei, di come sia sparita, senza lasciare traccia, così all'improvviso. Di come le aggressioni siano terminate di colpo. Chissà, forse hanno parlato anche di me, di come sono sprofondato ancora di più, di come mi sono ritrovato ad annegare senza nemmeno accorgermene, proprio quando mi sembrava di aver intravisto, per un battito di ciglia, la superficie al di là della pozza di inchiostro in cui annaspo.

Gradualmente, le chiacchiere si sono spente. Il tetto è stato chiuso, l'aula del club di arte si è svuotata, sostituita da visi senza lineamenti, fantocci che non riesco a ricordare.

Lei dava colore a quello che le stava attorno. Forse era perché, al contrario, lei si tingeva di colpe e disperazione, che tutto attorno si accendeva, prendeva tinte vaghe, morbide. Quasi ad ammorbidire la sua malinconica esistenza.

Quattro mesi e tre giorni senza colori e senza visi, passai ad osservare il cancello, sperando di riuscire ad intravedere qualcuno, lì fuori, poggiato all'ingresso, con un libro aperto. Quattro mesi e tre giorni in cui mi sono trovato circondato da persone senza volto, tanto vive da sembrare più vuote di quanto non sia io stesso.

Quattro mesi di sogni in cui l'ho vista, ancora ed ancora, un fantasma vivido e pulsante, che mi sfuggiva in ogni luogo, in ogni momento; ho rivissuto, ogni notte, i frammenti della nostra vita fino al suo cupo epilogo. Ed ogni volta, sono stato impotente come sempre, incapace di raggiungerla, fermo su quel divano in cui ero costretto ad osservarla sparire, divorata da quella porta oscura.

Ancora ed ancora, senza mai riuscire ad aprire la bocca. Senza mai riuscire a sfiorarla.

È la mia punizione, mi sono detto. L'ho accettata, come un prezzo per espiare la mia colpa, la mia incapacità di riempire il suo vuoto.

Oggi, tuttavia, è diverso. Guardandomi allo specchio, mi sembra di vedere una chiazza di colore. Mi sembra quasi che il segno biancastro del suo morso sia meno definito, più sbiadito. Come se qualcosa stia sparendo, insieme alla decisione. Come se il peso sulle mie spalle sia più sopportabile, come se riuscissi a respirare.

Oggi l'ho toccata, in sogno. Dopo quattro mesi, sembra che una catena si sia spezzata, liberandomi dalla mia stessa costrizione. Non sono ancora pronto a perdonarmi e forse non lo sarò mai.

Ma se ti ho toccata, forse vuol dire che è arrivato il momento di guardare avanti, non è così?

Forse è arrivato il momento di vivere come avresti voluto.

I miei occhi cadono sul quadro poggiato sul cavalletto, sullo stesso cavalletto dove lo vidi la prima volta. Completamente rosso.

Lo stacco dal cavalletto, poggiandomelo accuratamente sulle spalle, come se non avesse peso, come se potessi solo sentire un calore appena percettibile vibrare dal suo cremisi.

Sì. Completamente rosso.

 

L'ingresso dell'accademia è, anche oggi, deserto, se non per il solito arrancare di studenti che si accalcano come fantasmi verso l'interno, qualche gruppetto si attarda al limitare del cortile, sul cancello, a scambiarsi parole, frasi di cui sento solo un'eco distorta, che faticano ad arrivare attraverso l'aria pesante fino alle mie orecchie quasi sorde, tappate dall'apatia soffocante.

Per molto tempo, quando sono arrivato, mi è sembrato che il mondo andasse avanti, ed io fossi stato incollato a forza sulla sua pellicola. Un elemento estraneo, vuoto.

Per molto tempo, mi sono sentito più vuoto di prima. Ed ora, è come se mancasse un tassello nuovo, allo scoordinato e banale puzzle della mia esistenza ingrigita.

Sono tanti gli sguardi vacui che mi sento addosso, quando entro in classe con grande ritardo, affaticato per aver trasportato un peso per tutte queste rampe di scale. Il mio respiro affannato e le parole di scusa mormorate a mezza bocca non fanno che richiamare come una calamita l'attenzione. Mentre mi siedo al mio posto, lasciandomi praticamente crollare sulla sedia in legno scricchiolante, sembra che l'intera massa di presenti irriconoscibili voltino lo sguardo verso di me.

Tra di loro, sono una figura, solitaria, in disparte, completamente lontana da ogni cosa, non come se nulla la riguardasse, come se fosse finita in questo luogo per colpa di una coincidenza. Come se essere qui non provocasse in lei alcuna reazione. Una figura che prima non aveva colore, al pari degli altri—ma che ora, sembra essersi delineata vagamente, come se riuscissi a distinguerne qualche particolare attraverso un vetro spesso e deforme.

La porta del vecchio club di arte è chiusa. Un foglio di carta è stato affisso senza troppo impegno sulla vecchia targa, a coprire il nome; il cartello posticcio recita, a lettere cubitali, che questa è ora la sede del gruppo di fotografia. Dentro di me, c'è un moto stizzito, lo stesso che avrebbe avuto lei. Non le piaceva la fotografia. Forse perché non le piaceva la realtà nuda e cruda. Forse perché, nelle foto, è sempre stata sola.

Lascio il quadro, dove deve essere. L'ho faticosamente portato fin qui, l'ho appeso sul fondo. Non credo le sarebbe piaciuto esporlo, perché, per lei, questo quadro è tutta se stessa. E nessuno lo avrebbe capito. Ma è qui che deve stare; sono sicuro che questo sia stato il luogo dove, per un po', è stata felice.

Mi fermo sull'uscio, ad osservarlo un'ultima volta. A salutarlo silenziosamente con lo sguardo.

Sì, senza dubbio… quel quadro è lei. È davvero lei.

I corridoi sono vuoti.

Quando mi ritrovo ad uscire dal cancello, attraversando ancora una volta meccanicamente il cortile della scuola, vedo solo macchine sfilare rabbiosamente sull'asfalto, gettandosi all'impazzata nel solito traffico cittadino. Seguo un percorso già collaudato, infilatosi nella mia memoria con la forza, perché è divenuta una mia malsana abitudine.

Mi ripeto che lo faccio solo perché lo voglio. Ma so benissimo che è una bugia. So benissimo che non cammino più a lungo, non compio questa deviazione per arrivare all'ingresso scalcinato ed arrugginito di questa tomba di ferro ed erbacce perché mi va.

Lo faccio perché devo, perché non posso farne a meno. Perché, camminando in questa zona abbandonata, colma di ricordi amari, avvicinandomi all'altalena arrugginita, mi sembra quasi di poterla vedere seduta lì, a dondolarsi pigramente, come quella notte. Anche quella volta mi chiese di non seguirla. Anche quella volta, tentai disperatamente di dirle quello che pensavo, quello che si agitava nella mia coscienza, nella mia mente senza un ordine, senza una consapevolezza.

Anche quella volta, non sono riuscito a farmi sentire abbastanza.

La sensazione appiccicosa e stritolante che mi sale fino al petto si amplia, si diffonde alle gambe e devo fermarmi un secondo, ad osservare il profilo delle solite altalene rugginose e sporche, dalle catene consunte e scricchiolanti, sformate dal tempo e dalla pioggia, da chi come noi continua a visitarle. Le piante invasive si allungano e si impigliano nei miei pantaloni, quando mi fermo sul ciglio dell'acciottolato irregolare, le mani affondante nelle tasche, ad osservare la figura inconfondibile seduta sul seggiolino di destra, immobile, senza nemmeno accennare ad un pigro, stanco movimento.

Non ho un sussulto, il mio cuore non si mette a battere più forte, non digrigno i denti. La mia unica reazione e un profondo respiro. Immagino che, dopo tutto questo tempo passato ad aspettare, dopo tutti i giorni passati a cercare il suo profilo tra la gente, mi sembra solo naturale trovarlo qui, come se stesse aspettando pazientemente.

L'erba produce un morbido fruscio sotto le mie scarpe, quando attraverso quel breve tratto che separa la pozza di terriccio fangoso per la pioggia, per sedermi nell'altalena che avrebbe occupato lei, senza dire una parola. Le catene sferragliano, protestano, abituate ad un peso molto più leggero rispetto al mio, ma è un gemito che si spegne poco dopo, divorato dal profondo, umido silenzio della sera.

Il cielo è coperto e non ci sono stelle, non come quella sera. Riesco a malapena ad intravedere una falce di luna biancastra che si profila, a fatica, in uno squarcio lasciato quasi per caso nella cappa bluastra sopra di noi.

“Ce ne hai messo, di tempo, per deciderti.” La sua voce non tradisce alcuna emozione, né noia o rimprovero né rabbia o rancore. È come se si fosse svuotato, dopo questo tempo, come se avesse trovato la sua catarsi. Perfino il grosso libro, quell'imponente bestiario in caratteri gotici e latino oscuro, ricolmo di aberrazioni, è chiuso sulle sue ginocchia.

Abbasso lo sguardo, per un secondo, su di lui, sul suo viso, alzato verso il cielo quasi a cercare qualcosa, proprio come ho fatto io, prima di rinunciare, deluso. Non c'è più quell'ombra afflitta sotto alle sue palpebre, non c'è più quell'espressione di rabbia, quasi di colpa, che ho visto trasparire dal suo viso quando ha raccontato quella storia, circondato dai ricordi del suo inquieto passato e dall'ombra del suo tormento.

Ethan Braig sembra aver lasciato qualcosa di sé, quella notte. Proprio com'è accaduto a me.

“Ho dovuto riflettere.”

Bugia. È una bugia.

Mi sono dovuto abituare, ho dovuto accettare. Ho dovuto rimettere insieme i miei pezzi.

E poi ho dovuto riflettere.

“Oh, hai pensato a lungo?”

Ci ho pensato a lungo, sì. Ho riflettuto su quello che è successo. Su cosa voglia dire essere umani e sul mondo che non riusciamo a vedere, sui mostri crudeli e sugli spiriti gentili che lo abitano. Ho pensato a lei, che non è stata altro se non una vittima dell'inevitabilità.

Ethan li crede tutti mostri, abomini che vanno tolti di mezzo, eliminati. Lo capisco, dopo quello che gli è successo. Anche se ha perso quella luce sinistra nei suoi occhi, quell'ombra di disperazione che si rifletteva nella sua voce, mi chiedo se la sua opinione sia cambiata. Se con la liberazione dal suo peso, il suo senso di colpa e il suo rabbioso cercare vendetta siano spariti.

“Sì, ci ho pensato a lungo.” Muovo lentamente l'altalena, con inerzia, spingendola appena con la punta delle scarpe contro il terreno fangoso, umido di pioggia; l'odore di erba bagnata impregna l'aria e si intreccia con quello del fumo delle case attorno, con quello del metallo arrugginito, il cui scricchiolare accompagna il mio sussurro soffocato, appena percettibile, più basso del vento che scompiglia le erbacce, i miei capelli, le maniche della mia giacca, “—Lei era una vittima. Non era l'aberrazione che vedevi tu.”

Silenzio. Ma riesco a vedere, con la coda nell'occhio, i suoi pugni che si serrano attorno al libro, stringendone violentemente la costola, al punto da far sbiancare le nocche per qualche momento, prima di rilassarle.

“Ci sono tante cose, a questo mondo, che non riuscivo a vedere. Ma non ci sono solo mostri spaventosi. C'è chi, come lei, ha bisogno di aiuto ma non riesce a chiederlo. Per questo… voglio sprofondare nell'occulto.”

Le labbra di Ethan si serrano per un istante. Posso quasi vedere i denti che si digrignano, sotto di esse, ma dura un'istante, si tratta solo di un momento, prima che la sua espressione torni ad essere la solita, corrucciata ed ombrosa, “Capisco. Se questo è il tuo modo per combattere il senso di colpa, non ti fermerò. È una tua scelta.”

Si alza in piedi, stringendo per un lungo momento il bestiario tra le mani, quasi come se potesse sentire una voce, uscire da quelle pagine. Le sue dita si muovono delicatamente, quasi sovrappensiero, ad accarezzarne la copertina, prima di allungarlo verso di me.

L'incredulità non ha la meglio solo perché lui me lo scuote davanti vedendo la mia esitazione, “Prendilo,” sussurra, scuotendo la testa, “a me non serve più.”

Quando lo tengo tra le mani, mi rendo conto non solo di quanto sia pesante, ma anche della strana, pungente aura che lo avvolge, quasi come se in esso fosse insita una sorta di vibrante magia sconosciuta che lascia scorrere, per qualche secondo, una sorta di brivido fino in fondo alla mia schiena.

“Lei... mi è venuta incontro. È morta scusandosi.” Una pausa. La pausa di chi trattiene qualcosa che si spezza in fondo alla gola. “Sembrava felice. Come non l'avevo mai vista.”

Alzo lo sguardo, cercando delle parole da rivolgergli, ma la sua figura si sta già allontanando, ormai sul ciglio della strada sconnessa. Il suo scalpiccio si ferma quando sente il mio sguardo sulla schiena, come se dovesse dirmi qualcosa.

Esita, per qualche momento, alza ancora gli occhi verso lo spicchio di luna che appena si intravede nel temporale che sta per rovesciarsi su di noi.

“Per quanti mostri salverai, per quanti spiriti scaccerai, il tuo senso di colpa non se ne andrà,” abbassa la testa, “io l'ho capito solo ora.”

Un attimo dopo, è già sparito nel buio del parco, insieme allo scalpiccio dei suoi passi e al rumore della ghiaia.

Lo so bene. Sono consapevole del fatto che non potrò mai guarirne. Questa sensazione bruciante rimarrà qui per sempre. Questo libro, quello che farò d'ora in poi, mi ricorderanno sempre quello è successo.

Il rosso se ne andrà da quel quadro ed il suo nome verrà lentamente dimenticato.

Ma non da me. Perché mi ha chiesto di ricordarla, vivida com'era. Come avrebbe voluto essere.

“Lo so.”

Mi porto una mano al viso, sfiorandolo appena. Caldo ed umido.

“Lo so bene.”

Il rosso rimarrà con me. Mi sembra il colore più adatto… per descrivere la perdita.

 

   
 
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