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Autore: istherelifeonmars    23/08/2018    1 recensioni
Brighton, anni Cinquanta. Danny e Joe si conoscono per caso e sempre per caso le loro vite si intrecceranno immancabilmente, la loro è un'amicizia che cresce negli anni appena seguenti alla Guerra, in cui tutto è nuovo e ciò che è vecchio deve essere demolito e ricostruito. Gli anni più fiorenti dell'Inghilterra, che a quel punto ballava sulle punte dei piedi le canzoni dei Beatles e degli Who, faranno da sentiero ai nostri due protagonisti.
Una storia un po' romanzata, ma basata su avvenimenti reali - o almeno così mi piace pensare.
Ora che torno indietro con la memoria capisco che cosa vidi in Danny che negli altri non vedevo: allora lui era una scoperta, qualcosa di completamente nuovo con cui io avevo a che fare. Non era come gli adulti – impegnati a discutere sempre di politica, denaro o nuove ricette – ma nemmeno come gli altri bambini: stonava con l’ambiente in cui vivevamo. Stonava con tutto. Ha sempre stonato. Per il ragazzetto curioso che ero allora lui era una benedizione: un nuovo mondo da esplorare, questa volta per davvero.
Storia partecipante al contest Concorso a tema (l'amicizia), indetto da dramkath sul forum efp.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Disclaimer!: ammetto che solitamente non sono avvezza a fare avvisi del genere, ma a questo punto non si è mai troppo sicuri, quindi eccoci qua. Vorrei ricordarvi che l'autore di una storia non deve necessariamente condividere/giustificare i comportamenti di certi protagonisti, quindi, prima che qualcuno prenda i forconi, ci tengo a notificare a tutti che le mie opinioni riguardo ai temi (delicati) trattati in questo capitolo vertono su poli opposti a quelle descritte qua.
Ciò, detto, visto che ci sono, vi elemosino una recensione/un parere di qualsiasi tipo, che fa sempre piacere.







II. Occhiali da sole rossi



 

Danny la chiamava deformazione professionale, io la chiamavo algidamente comportarsi come una testa di cazzo.
Avevamo all’incirca quindici anni quando ci accorgemmo di come fossimo diventati le due facce di una stessa moneta: lui meditava di lasciare la scuola, aveva iniziato a fumare erba e a strimpellare la chitarra, i miei studi invece procedevano brillanti, mio padre mi pressava affinché dopo il liceo potessi entrare nella facoltà di Medicina. Diceva che avrebbe voluto che suo figlio avesse una vita meravigliosa – i tempi stavano cambiando e lui aveva occhio per cose di questo genere: aveva intuito che se avessi seguito le sue orme come operaio il mio futuro sarebbe stato disastroso, e aveva ragione. Talvolta prendevo lezione private di biologia e chimica per affinare le mie conoscenze e talvolta ero io a darle ai ragazzi più piccoli, in modo da guadagnare qualcosa. Ero quasi sempre impegnato e quel poco tempo libero cercavo di dedicarlo a Danny, che ormai era così diverso che avevo paura mi sgusciasse via dalle dita.
Al Collins avevamo incontrato Ellen e Pete, due giovani più grandi di noi di un paio di anni: lei aveva le guance paffute e i capelli perennemente stretti in una crocchia bassa, ballava il charleston meglio di chiunque altro a Brighton; lui aveva il naso aquilino sempre affondato in un trattato di storia o in un numero del New Left Review[1]. Inizialmente io e Pete andammo d’accordo: con lui si poteva parlare di tutto e ci accomunavano diversi interessi, in primis, quello della storia del Novecento. Quando però Danny iniziò a preferire loro a me, venni inevitabilmente punto dalla gelosia, sapevo di non avere lo stesso tempo da dedicargli che avevo quand’eravamo bambini, ma l’idea che se ne andasse dalla mia vita era insopportabile. I suoi racconti mi mancavano e ora mi mancavano anche le canzoni che aveva iniziato a scribacchiare nel tempo libero, mi mancava parlargli, eppure inevitabilmente ci stavamo allontanando.
La prima volta che lo vidi fumare erba fui colto da una rabbia quasi ancestrale: era sbagliato. Era sbagliato che non avesse alcun interesse nel proseguire gli studi ed era sbagliato che volesse perseverare a festeggiare ogni sera con Ellen e Pete, che lo stavano lentamente portando su un sentiero parallelo al mio. Più tardi scoprii che i suoi genitori la pensavano come me: lo pressavano affinché si sbarazzasse definitivamente di quella stranezza che ormai gli si era appiccicata addosso, gli dicevano che avrebbe dovuto seguire il mio esempio e quando un giorno scoprirono il suo album da disegno, straripante di immagini morbose, di morte e di altre oscenità, insistettero a mandarlo da un medico. Questo Danny me lo confessò una notte che aveva passato a casa mia: ricordo perfettamente il suo profilo che si stagliava contro la finestra, i capelli gli arrivavano quasi alle spalle.
«Non riesco più a dormire, Joe.» bofonchiava «Il che solitamente non è un male: l’insonnia aiuta a vedere le cose da altre prospettive e mi piace guardare il mondo da altri punti di vista, ma ora mi sembra solo di marcire nel mio letto divorato dall’ansia: sto sempre a chiedermi se mai sarò capace di fare qualcosa che potrà soddisfarli.»
Io lo guardavo, in silenzio, mentre accarezzavo distrattamente le corde della sua ormai inseparabile chitarra.
«E so già anche quale sarà la risposta. Non farò mai niente che vada loro bene e non ho intenzione di cambiare adesso. È solo che–» si fermò, soppesando le parole. Ora che torno con la memoria a quegli istanti mi sbalordisce quanto fosse calmo allora, stava scaricando su di me una zavorra che gli pesava sulle spalle da anni e lo faceva con una struggente pacatezza. Era sempre estraniato dal mondo tangibile, come se non lo toccasse mai per davvero.
«Capisci cosa voglio dire, Joe?»
Io annuii in silenzio, anche se no, non capivo. Ormai mi ero arreso al fatto che non avrei capito molti anfratti del suo carattere e mi andava bene così, gli volevo bene lo stesso. Allora simpatizzavo per i suoi familiari: la loro linea di pensiero mi sembrava assennata, continuavo a ripetermi che a quell’età era ora di crescere e di iniziare a pensare come un adulto. E un adulto pensa a un lavoro, a una famiglia, a una stabilità, forse anche al successo: io puntavo a quello. Non voglio insinuare che non mi piacesse divertirmi di tanto in tanto, non ero un angelo nemmeno io a quei tempi, ma grosso modo sostenevo che alla lunga un certo modo di vedere il mondo avrebbe nuociuto a chiunque.
«Certo che capisco.» lo rassicuravo allora. Mi chiedo se avesse intuito che mentivo.
Danny aveva un comportamento binario, se da una parte predicava l’individualismo e voleva proseguire imperterrito con la sua strada, dall’altra sembrava bramare approvazione. Il bambino che era stato non si interessava del parere altrui, ma più gli anni scorrevano e più lo vedevo sciupato: ogni tanto si sentivano le urla sue e dei suoi dalla strada su cui le nostre villette si affacciavano. Quando iniziò a prendere parte a proteste e a frequentare movimenti di sinistra mi sembrò che fosse sfuggito al controllo di tutti: Pete studiava sociologia e aveva preso Danny e Ellen sotto la sua ala protettiva. Parlavano di politica e criticavano l’imperialismo inglese, che io avevo sempre ritenuto normale.
A quel punto tutti conoscevano Danny. Aveva mollato la scuola, portava i capelli lunghi e scompigliati e un paio di occhiali da sole rotondi, aveva quel sorriso sfacciato e quell’aria concentrata e per quanto esercitasse attrattiva su tutti quelli che lo conoscevano, ben presto la maggior parte delle persone si rendeva conto del suo carattere altalenante e lo liquidava senza farsi troppi problemi. Specie nel nostro quartiere, nel nostro quartiere uno come lui era visto come l’opposto polare dell’esempio da seguire. Un alieno approdato per caso tra gli umani
Una volta sua madre si precipitò a casa nostra incapace, a sua detta, di tenere a bada il figlio. Io origliai tutta la conversazione da dietro la porta del salotto e la sentii vomitare parole come malato, medico, pazzo. Parole brutte, che lasciarono sulla mia pelle una scia di disagio e tristezza generale.


Fu in quel periodo, probabilmente sulla scia dei Beatles, che decise di unirsi a una band. Suonava la chitarra discretamente e aveva una voce un po’ troppo roca per cantare, quindi fu relegato al compito di chitarrista. Si esibì per la prima volta al Collins: aveva il viso imperlato da gocce di sudore e i capelli color pece gli rimanevano appiccicati alla fronte, ma la serata fu un successo per la trentina di persone che, sedute ai tavoli, stavano ascoltando. Quando lo vidi lì, a suonare, mi resi conto che la musica era l’unico universo in cui non stonava, ci si amalgamava così bene che il manico della chitarra sembrava un proseguimento del suo stesso braccio e le note che lo strumento emetteva apparivano irradiate direttamente dalla sua persona. Era come assistere a un trucco di magia che sfidava qualsiasi legge fisica.
Io me ne stavo seduto a uno dei tavoli in fondo, e così facevano anche Ellen e Pete, che insieme a me sorseggiavano una birra. Se chiudo gli occhi posso ancora vedere con straordinaria nitidezza gli sguardi che ci scambiammo quella sera – davanti a uno spettacolo del genere non c’era bisogno di parlare –: solo allora ci rendemmo conto del fatto che Danny non sarebbe mai appartenuto a uno di noi, o al mondo che noi conoscevamo. Poco importava delle gite al porto. nascosti a fumare sigarette, o delle proteste studentesche nel centro di Brighton; quel ragazzo sarebbe appartenuto sempre e solo all’arte, in qualunque forma. Sempre e solo ad essa, senza alcuna eccezione.


Nel ‘67 Danny aveva diciassette anni e portava larghe camicie colorate, senza curarsi di infilarne i bordi nei pantaloni. Era ulteriormente dimagrito e appariva alto e dinoccolato, continuava a muoversi in modo disordinato, come se quel corpo non gli appartenesse veramente. I capelli neri, allora così lunghi, erano diventati ondulati e gli scendevano fin sotto il mento, per posarsi poi placidamente sulle spalle. Non rideva spesso, ma quando lo faceva la sua risata era intervallata da singhiozzi che io personalmente trovavo ilari. Non abbandonava mai i suoi occhiali da sole rossi, nemmeno quando era inverno, e dietro vi nascondeva quello sguardo perennemente assorto – come se stesse contemplando problemi che gli altri non potevano nemmeno immaginare.
Nel ‘67 Danny prendeva a cadenza quasi settimanale un treno per Londra e là aveva iniziato a frequentare i più disparati circoli, mi diceva che molti riguardavano l’arte e altri la politica, ma quando alcune sere non tornava a casa fino al mattino seguente ero piuttosto sicuro che mi celasse qualcosa. Avevo in gola un nugolo di dubbi e domande che non riuscivo a tirare fuori e ne ero così spaventato perché sapevo con estrema certezza di non voler conoscere le risposte. Non sapevo cosa ci stesse succedendo e ne ero terrorizzato.

I rapporti interpersonali sono monili delicati, preziosi e vanno maneggiati con cura, allora avevamo solo diciassette anni e ancora non comprendevamo appieno come comportarci in casi del genere. Io studiavo per il test di ammissione a Medicina e lui si occupava di scrivere canzoni, coricato supino nel bel mezzo del suo giardino. Quelli che per noi erano stati innocenti silenzi, semplici crepe nella nostra amicizia, si erano ingranditi così tanto da essere segreti, rabbia taciuta, impotenza. E allora le crepe si erano trasformate in baratri, ci separavano divari così grandi che sentire quello che stava dall’altra parte era difficile. Ormai le nostre conversazioni vertevano su chiacchiere inutili prive di un nucleo. Sapevo quanto Danny le odiasse eppure non potevo fare altro se non guardarci allontanarsi sempre di più.
A quel punto, forse, avrei dovuto essere sincero con me stesso e smettere di cercare di ancorare Danny a un mondo – il mio – a cui evidentemente non voleva appartenere. Ma si sa, l’egoismo sa essere la peggiore delle tentazioni e dunque io cercavo di aggrapparmi a quel poco che ci rimaneva. Per tutto quel ‘67 gli rimasi accanto come potevo, quando – ormai sempre più saltuariamente – superava la staccionata di casa mia e si piazzava ne cortile, bussando alla mia finestra per parlare, lo lasciavo entrare, nella speranza che quella volta sarebbe stata differente.
Dopo due settimane di silenzio, si presentò da me con gli occhi rossi dal pianto, la calma in cui era solitamente avvolto era svanita e la sua persona sembrava aver perso ogni magica attrattiva. Farneticava che doveva andarsene da Brighton, che quel posto non gli apparteneva più – non mi è mai appartenuto, Joe, sono come un alieno in mezzo a una schiera di persone – mi disse che che Pete poteva rimediargli un posto dove dormire a Londra e mi chiese di andare con lui. Fu un gesto che quasi mi commosse e rimasi lì, appiattito sulla porta di camera mia, con le lacrime agli occhi. Sarebbe stato bellissimo: io e Danny contro il mondo, come quando eravamo bambini. Ero quasi sul punto di dirgli che l’avrei seguito in qualsiasi avventura, quando la realtà sfondò la porta dei miei pensieri. Vidi un manuale di biologia lasciato aperto sulla scrivania, vidi appese alle pareti color ocra le borse di studio liceali che avevo collezionato in quegli ultimi quattro anni e mi resi conto che quello di Danny era un piano folle. Infattibile. Con il senno di poi mi rendo conto che dalla prospettiva di lui tutto era possibile: allora lui viveva su un altro piano della realtà, quello che i bambini vedono nitidamente e che per me allora era un qualcosa di confuso e astratto, inconcepibile. Potessi tornare indietro forse avrei cambiato strada e ora non sarei un medico come poi sono diventato, ma allora rimasi fermo sulla mia posizione, presi Danny per le spalle e lo guardai in quei suoi occhi neri profondi come pozze. Chiunque avrebbe potuto precipitarci dentro.
«Cosa è successo?»
«Mio padre.» smozzicò senza guardarmi «Ha detto che me ne devo andare.»
Deglutii a vuoto, ben consapevole che il padre di Danny era una persona a modo, conservatore, sì, e anche profondamente fedele, ma comunque una persona a modo. Non avrebbe mai allontanato suo figlio dalla propria casa.
«Perché?» cercavo di farlo ragionare, ma era evidente che lui non ragionava come me e in quel doloroso momento me ne resi conto.
«Non te lo posso dire, Joe, altrimenti lo farei.»
Per quella sera lo convinsi a dormire da me e lui accettò di buon grado, gli promisi che il giorno dopo avremmo trovato una soluzione insieme – noi due insieme, come abbiamo sempre fatto, no, Danny? E allora dormimmo sdraiati sul pavimento piastrellato della mia camera, illuminati parzialmente dalla luce che dalla strada filtrava attraverso alla finestra spalancata. Quella notte pensai alla pista di biglie e alla prima volta che Danny si era spinto oltre alla staccionata, come il bambino curioso che era. Mi tornarono alla mente i capelli scompigliati e la sporcizia di cui era intriso, il fiato corto e gli occhi attenti, carichi di un’energia adulta. Il suo avvento nella mia vita era stato una degli avvenimenti migliori che mi fossero mai accaduti. Danny era entrato, senza farsi notare, correndo velocemente e raccontandomi storie. E quando era diventato una presenza scontata mi si era infilato sottopelle e come una spina che non sarei mai  riuscito a togliere.
Avrei dovuto provarci, però, perché Danny è sempre stato aria, vento, qualcosa di inafferrabile; il mio convulso volerlo ingabbiare nella mia esistenza era solo un inutile tentativo di ritardare un avvenimento inevitabile.
Quando mi svegliai il giorno dopo, a farmi compagnia erano solo le tende della finestra che si alzavano mosse dalla brezza mattutina. La luce azzurrina del mattino si rovesciava in camera mia attraverso l'apertura nel muro.
Danny non c’era più.


Allora capitava spesso che ragazzini scappassero di casa, ricordo che quando da bambino sbirciavo il giornale di mio padre notavo articoli di bambini dispersi. A Brighton era successo un paio di volte e in linea di massima la polizia non vi dedicava troppe attenzioni, liquidando la questione in pochi giorni. Quando Danny sparì aveva già compiuto diciotto anni e le forze dell’ordine non si sprecarono molto. Ci fu qualche ricerca nel perimetro di Brighton e quando un agente mi prese da parte chiedendomi se mi fossi fatto qualche idea sul caso e io gli risposi di Londra, chiusero il caso senza farsi divorare dal rimorso.
Il quartiere era sprofondato in un silenzio quasi surreale: tutti conoscevano Danny e tutti erano ben coscienti del suo modo di essere, nessuno era sorpreso ma a tempo stesso ci sentivamo quasi in dovere di comportarci in modo tale, di
fingere di essere dispiaciuti per lui. Quel silenzio carico di ipocrisia venne interrotto da una telefonata un pomeriggio del febbraio del ‘68, era Danny che chiamava e che informava i suoi familiari di stare bene. Mi venne riferito da sua sorella che aveva trovato un appartamento a Londra e che veniva ospitato da un amico che aveva conosciuto lì nei mesi precedenti, aveva comunicato a tutti il suo indirizzo e diceva che qualora qualcuno avesse voluto andare a trovarlo, l’avrebbe accolto.
I primi a precipitarsi là furono Ellen e Pete, si infilarono sul treno delle otto e io li vidi viaggiare verso la capitale. Avrei voluto seguirli, ma segretamente covavo una rabbia quasi cieca. Danny era scappato, il suo era un gesto vile, qualcosa di cui vergognarsi. Aveva fatto preoccupare i genitori e me – sopratutto me, che quella mattina mi ero svegliato con un senso di vuoto sul petto che mi aveva fatto quasi boccheggiare.
Quando i due ragazzi tornarono mi riferirono di come viveva: dissero che aveva iniziato a suonare rock come solista in un locale e che stava cercando un lavoro diurno nel centro della città. Io li ascoltai distrattamente e non nascosi un senso di fastidio nei loro confronti, dopo gli ennesimi aneddoti sulla sua nuova vita a Londra li liquidai frettolosamente, sostenendo che dovevo studiare e che avevo solo pochi mesi prima della fine del liceo. Voltai ai due le spalle costringendomi a non sbraitare contro di loro le colpe che pensavo avesser:, nella mia mente erano stati loro a corrompere il mio migliore amico, a mostrargli un mondo completamente diverso rispetto a quello che avevamo vissuto fino ad allora, insieme. Quella fu l’ultima volta che li vidi, là, seduti su una panchina al porto, circondati dai gabbiani che nonostante l’inverno inoltrato ancora volteggiavano nel cielo plumbeo inglese. Non nego, nell’ultimo decennio, di averli cercati, magari in un trafiletto del giornale, oppure in una delle cartelle mediche dell’ospedale in cui opero, qualsiasi cosa pur di provare a me stesso che quei due ragazzi siano ancora qua fuori, da qualche parte, e non congelati nel tempo.
Quel periodo fu uno dei più impegnati della vita che fino ad allora avevo conosciuto: mi immersi ancora di più negli studi e non mi lasciai andare in nessuna distrazione. Intendevo, in concordanza con i miei genitori, finire le scuole superiori con i voti migliori e prepararmi al meglio per il test d’ammissione: mi ero infine deciso per l’Università del Sussex e continuavo a ripetermi, quasi ossessivamente, che se avessi superato quel dannato esame ogni problema sarebbe scomparso. Ogni cosa che nella mia vita appariva fuori posto, o addirittura priva di posto, avrebbe trovato la propria collocazione e avrebbe dato un senso a quel senso di impotenza che ormai mi aveva incatenato. Era un modo semplicistico di pensarla, ma non sono mai stato particolarmente interessato alle speculazioni astratte. Per il diciassettenne che ero le cose erano bianche o nere, le sfumature intermedie le lasciavo ai filosofi, o almeno così avevo sempre ammesso a Danny.
Così, quando un giorno mio padre mi portò a casa un giornale con articolo riguardo alle rivolte giovanili contro la guerra in Vietnam, mi ci volle solo qualche istante per etichettarle come perdite di tempo. Era Marzo e per un paio di mesi non mi interessai nemmeno all’argomento: plasmato dalla mia estrazione sociale e da tutti gli agi cui ero stato abituato già da bambino, l’idea che una persona potesse pensare di protestare contro un evento più grande mi appariva quasi ridicola. Avevo sperimentato sulla mia pelle quanto potesse essere deleterio un comportamento del genere e la sola idea che qualcuno intendesse replicarlo mi angosciava ancora di più – mi faceva arrabbiare così tanto da portarmi a stringere le mani in pugni fino a far sbiancare le nocche. Era un pomeriggio di Giugno quando mio padre mi chiamò di nuovo, sul volto rubicondo aveva dipinto un sorriso divertito: indicò una delle figure sul giornale e mi rivolse un’occhiata interrogativa: «Non è Daniel, questo?» domandò allora retorico. Gli strappai il quotidiano dalle mani con una velocità che non credevo mi appartenesse, l’immagine era sfocata e i volti delle persone si potevano appena rintracciare, eppure riconobbi con una disarmante facilità il viso del mio migliore amico, là, in mezzo alla folla. Protestava in mezzo a un corteo, nascosto appena dai suoi inseparabili occhiali da sole rossi.
«Mi sa di sì.» sbottai, cercando di mantenermi neutrale. Sebbene non ne fossi certo, avvertii lo sguardo di mia madre posarsi sulla mia nuca, forse carico di apprensione – allora lei pareva essere l’unica a rendersi conto di che cosa stesse accadendo.


Quelli tra il ‘67 e il ‘69 furono anni turbolenti, ora meglio noti come quelli delle rivolte giovanili. Io e molti dei ragazzi che frequentavo allora ne rimanemmo intoccati. I nostri genitori ci avevano insegnato a non dubitare delle autorità; con il passare degli anni conobbi altri coetanei che la pensavano esattamente come me, quelli di cui sentite parlare oggi, quei visionari di allora, erano mosche bianche in mezzo a tutta la popolazione inglese. Vorrei pensare, o così mi piace fare, che allora Danny avesse trovato il suo posto; del resto non avrebbe dovuto essere stato difficile per uno come lui integrarsi tra i giovani progressisti della capitale. Voglio davvero crederci, anche perché l’alternativa sarebbe troppo dolorosa da immaginare. Quando ripenso a quella foto che vidi quasi più di una trentina d’anni fa, la sola idea che Danny potesse sentirsi solo in mezzo a tutta quella gente è così forte da farmi stringere il cuore.
Probabilmente sulla scia di questi pensieri – o di pensieri molto simili – a Luglio dello stesso anno decisi finalmente di andare a Londra, nella mia mente si era impiantata come un chiodo la prospettiva che Danny potesse sentirsi meglio grazie a me e proprio in virtù di questa presi coraggio e gli telefonai, informandolo che volevo andare a trovarlo. Dall’altra parte della cornetta sentii un mutamento nella sua voce, che ancora oggi non so identificare. Tutt’ora non ho idea se fosse stato felice di vedermi, ma continuo a ripetermi, forse per il bene della mia sanità mentale, che sì, ne fosse entusiasta.
Forse sto mentendo a me stesso, forse l’ho fatto in modo tale da creare una mia narrativa riguardo i fatti che sono successi. Solo ora mi rendo conto che questa storia non ha nulla di soggettivo o coerente, proprio perché quello che sto raccontando ora non è altro che frutto di anni e anni di elucubrazioni. Oltre a quello che è effettivamente accaduto ho depositato tra queste pagine livelli e livelli di contemplazioni insensate che ho portato avanti per decenni al solo fine ricercare una scusa per ciò che feci quel Luglio del ‘68.


Il viaggio per Londra fu una tortura di due ore circa, continuavo a spostarmi e a camminare su e giù per il vagone, con le unghie mi scalfivo la pelle delle dita e continuavo a mordermi l’interno delle guance, chiedendomi che cosa avrei dovuto dire o fare; nella mia mente l’unico pensiero martellante era quello di riallacciare i rapporti con Danny. Mi ero arreso all’idea che l’amicizia cambia, con il tempo, e che non si può essere amico a una persona da adulto nello stesso modo in cui lo si è da infante. Il nostro precedente allontanamento ormai mi appariva inevitabile, ma contavo di provare a passare una bella giornata con lui.
E per una buona parte fu una buona giornata: tornai a respirare l’aria della mia città natale e quando vidi quelle strade che ormai non solcavo da anni, fui assalito dai ricordi della mia prima infanzia, alcuni dei quali credevo di aver ormai sepolto da lungo tempo. Danny mi aspettò davanti a un bar di Covent Garden, di nuovo una sigaretta che gli penzolava mollemente dalle labbra, dietro agli occhiali aveva il solito sguardo concentrato e le sopracciglia corrugate. Gli strinsi riluttante la mano e gli chiesi come stesse andando.

Passammo tutto il giorno a bazzicare per la città, ogni tanto sedendoci per terra quando eravamo troppo stanchi o quando ci sembrava di non sapere dove andare. Guardavo la città grigia che era Londra, su cui volavo piccioni e non gabbiani, e poi spostavo gli occhi sui vestiti colorati di Danny. Lui sembrava parlare un’altra lingua, mi raccontava dei film di Andy Warhol, che io allora avevo solo conosciuto come pittore, e delle canzoni di un artista emergente, David Bowie. Diceva che a Londra la gente la pensava diversamente, che apprezzavano tutti la sua musica e che nessuno gli faceva noie quando lui mostrava i suoi album da disegno, anche allora carichi di sangue e macerie. Mi raccontò delle persone che aveva conosciuto: il Loco, un immigrato sud-americano che tra una bottiglia di rhum e l’altra aveva moltissimi aneddoti sul suo Paese natale, e di Holly, che lui descrisse come una ragazza dai facili costumi con un sorriso grande e triste.
Lo ascoltai parlare ininterrottamente, assorbendo con cognizione ogni singola informazione e quando approdammo a St James Square Garden ci sedemmo ai piedi della statua equestre; finalmente gli rivolsi una domanda: «Quindi sei felice, ora, Danny?»
Non era mia intenzione essere così diretto, ma non riuscii a parlare per mezzi termini; lui sorrise colto alla sprovvista, scostandosi i capelli corvini dalla fronte: «Certo che sì.»
Alla sera mi portò a un pub di periferia dove avrebbe suonato un paio di canzoni. Quando entrammo Danny venne accolto alla stregua di una stella del cinema – sul fatto che la sua musica venisse apprezzata di certo non mentiva – un paio di persone si alzarono a stringergli la mano e quasi tutti quelli seduti ai tavoli lo salutarono con allegria. Danny appariva perfettamente a suo agio tra le luci languide e psichedeliche che venivano proiettate sul palco: mi offrì da bere e poco dopo scomparve, per poi apparire sul palco. Nemmeno allora aveva abbandonato i suoi occhiali da sole rossi, si sedette su una seggiola di legno e iniziò a strimpellare la chitarra. Riconobbi qualche canzone di Help! E un riarrangiamento di Within You Without You. Sotto i vestiti appariscenti e alla matassa di capelli, per la prima volta in anni mi sembrò di riconoscere il bambino che era stato e che soleva inventarsi storie su tesori delle Americhe, rividi nel ragazzo che cantava le stesse maniere e gli stessi gesti della persona che avevo chiamato amico per così tanto tempo, fu in quel momento che decisi definitivamente di riallacciare i rapporti – o almeno di provarci.
Quella che ho descritto fu una giornata perfetta sotto ogni aspetto. La birra bevuta seduti sotto il Big Ben, a osservare la sagoma degli volatili stagliarsi sul cielo, le risate sommesse a raccontarci le nostre storie, la musica che ascoltammo provenire da fuori un locale del centro. Per tutta la durata della mia visita fui pervaso da un senso di nostalgia che, sapevo, avrei dovuto affrontare una volta rimessomi sul treno di ritorno. Quando si fece l’imbrunire Danny si offrì di accompagnarmi a King’s Cross per prendere il treno delle ventidue e ci incamminammo, illuminati artificialmente dalle luci cittadine.
Eravamo quasi in prossimità della stazione quando Danny si fermò davanti alla sterile entrata dell’ospedale St Pancras. Ricordo con nitidezza il suo volto per metà immerso nell’oscurità della notte incipiente; vi aveva stampata sopra un’espressione nervosa.
«Joe.» biascicò, costringendomi a fermarmi «Ti devo dire una cosa.»
Non risposi, ma lo lasciai parlare. Lo osservai che si tormentava una ciocca di capelli in modo quasi maniacale.
«Sai quando mi hai chiesto perché me ne volevo andare, no? Io non ti ho risposto. Sei una delle persone che mi conosce meglio, Joe, mi sembra giusto che tu lo sappia.»
Di nuovo, non trovai nulla da rispondere e rimasi in attesa di un chiarimento. Quella per me era una novità, di solito Danny non era il genere di persona che dava spiegazioni. Il fatto che io ne meritassi una mi gonfiava il petto d’orgoglio.
«In parte è stato perché io a Brighton non mi sono mai sentito a casa,» iniziò a biascicare più a se stesso che a me «ed è vero. Non sono mai appartenuto né a quei posti né alla mia famiglia: loro mi hanno sempre ritenuto come un problema da aggiustare. Forse avevano ragione, ma non è questo il motivo finale. Il punto di rottura è stato un altro.»
Piantò gli occhi oltre la mia spalla, su un punto che nella realtà nemmeno esisteva, lo vidi deglutire e stringere i pugni. Non sapevo che cosa aspettarmi, agli occhi di tutti Danny era sempre stato diverso, ma io non l’avevo mai giudicato negativamente per questo. Anzi, era esattamente per la sua diversità che mi ero avvicinato a lui.
Lo osservai prendere un ultimo e profondo respiro: «Sono gay.»
Rimasi a fissarlo, quel momento si dilatò per quella che parve una dolorosa eternità. In dodici anni avevo costruito un bellissimo castello di carta dedicato a Danny, ogni nostra memoria, ogni dettaglio che mi piaceva della sua persona, tutto quello che eravamo stati era custodito là. Quando ammise una cosa del genere, gli occhi ancora persi nel vuoto, io vidi il castello crollare inesorabilmente e ricordo di aver pensato: è qui, è qui che finisce tutto.
«Mi piacciono gli uomini.» proseguì pacato, la voce priva di inflessione «Mi sembrava giusto che capissi come mai mio padre mi ha detto di andarmene, anche se poi la decisione finale è stata mia.»
Oggi la gente la pensa diversamente, ma allora quello che Danny stava dicendo a me appariva come un’oscenità. Provai, e tutt’ora me ne vergogno, un moto di disgusto nei suoi confronti e istintivamente feci un passo indietro. Lui continuava a vomitare parole insensate e io avevo smesso di ascoltarlo: ora tutto tornava. Gli insulti che gli erano sempre stati rivolti ora assumevano un senso: come mi ero augurato, ogni cosa tornò esattamente al suo posto. Quella volta quando i ragazzini delle medie lo inseguivano avevo sentito loro urlare parole come frocio finocchio e allora mi erano parse prive di senso: agglomerati di lettere con il solo scopo di ferire. Danny non aveva mai avuto una ragazza, nemmeno una che li piacesse, era sempre rimasto solo. E le notti passate a Londra e non a casa, anche quelle dovevano significare qualcosa.
E d’un tratto iniziai a detestare ogni singolo tratto di Danny che aveva sempre stonato: i suoi disegni erano rappresentazioni malate, la sua musica era superficiale e così i suoi interessi, il suo mutismo da bambino era un chiaro simbolo che qualcosa in lui non andava, le sue storie rasentavano il limite della morbosità, andando ben oltre la decenza. Odiai i suoi capelli lunghi e i suoi occhiali da sole rossi, le sue stupide camicie colorate e il suo sguardo adulto – anche quando adulto non era. D’un tratto Danny mi apparve tutto storto e capii cosa intendevano gli altri quando dicevano che era una persona da cui stare lontani. Mi rammaricai di non essermene accorto prima.
La nostra amicizia finì così, alle dieci meno venti della sera e davanti alle porte dell’ospedale St Prancras, a un centinaio di passi dalla stazione.
Danny dovette intuire il disgusto, la delusione e l’angoscia che provai in quel momento e si limitò semplicemente ad annuire con una gravità che non dovrebbe appartenere a un diciottenne.
Rivangare questi ricordi è come stuzzicare su una ferita che non si è mai cicatrizzata veramente, ma è necessario. È necessario che non menta, almeno su questo, perché Danny non si meritava e non si merita un trattamento del genere. Così, quando ora dico che gli voltai le spalle con l’intenzione di non rivederlo mai più, ammetto anche di vergognarmene così tanto che il rimorso tutt’ora mi fa da compagno.

 

 





 
[1] rivista di politica britannica, nata negli anni Sessanta, che rappresentava il pensiero politico della sinistra intellettuale inglese.
   
 
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