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Autore: Myrddin Emrys    23/08/2018    0 recensioni
Los Angeles è una città magica, dove tutto può accadere e dove niente è come appare.
Lo sa bene Daisuke, che un giorno il destino pone davanti a Tiziano, un italo americano che non nasconde un certo interesse nei suoi confronti. Quando Daisuke scopre con orrore di essere attratto da lui, fugge e inizia a cambiare ragazza ogni settimana, fino al momento in cui il maledetto destino li fa incontrare di nuovo. E da quel momento Tiziano non se lo lascerà scappare una seconda volta, bensì gli farà una corte spietata, recitandogli la stessa dichiarazione d’amore che si erano scambiati Corrado e Hideyori un secolo prima.
Ma cosa hanno in comune Tiziano e Daisuke con Corrado e Hideyori, vissuti a Londra in un periodo in cui amare una persona dello stesso sesso era un reato?
Los Angeles è una città magica, dove tutto può accadere e dove niente è come appare.
Genere: Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
Capitoli:
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Inghilterra, autunno 1902
Uscì dalla biblioteca con i libri sotto il braccio, alzò lo sguardo al cielo e capì che presto avrebbe iniziato a piovere.
            Londra era nota per il clima rigido e lui lo aveva imparato sulla propria pelle. Ormai ci aveva quasi fatto l’abitudine: da due anni soggiornava nella metropoli e ancora vagheggiava il tepore di casa. Ma fintanto che non avesse conseguito la laurea, tornare in Italia sarebbe rimasto un sogno.
            Suo padre, esponente della fiorente e benestante borghesia toscana, aveva acconsentito al suo desiderio di terminare gli studi a Londra, dove valenti scienziati insegnavano la moderna medicina.
            Il ventesimo secolo era appena iniziato e Corrado voleva essere al passo con i tempi.
Il suo desiderio di diventare medico si stava realizzando e già si vedeva rientrare a Firenze con il dottorato in tasca, pronto a svolgere la propria missione. Perché così considerava lo struggente desiderio di curare la gente. Aveva visto fin troppo da vicino le tragedie accadute nella propria famiglia per rimanerne indifferente. Sperava, studiando medicina, di poter contribuire ad arginare le sofferenze umane e donare speranza in una vita più dignitosa e longeva.
            In lontananza vide sopraggiungere il tram e serrando i libri sotto il braccio corse verso la fermata. Forse avrebbe fatto in tempo a rientrare a casa senza bagnarsi, così da non sentire i rimbrotti di Lady Cecil che lo ospitava. Era una vedova in là negli anni, ancorata alle vecchie tradizioni e odiava vedere l’ingresso di casa sporco di fango.
            Stava correndo lungo il marciapiede, quando da un angolo sbucarono improvvise quattro figure.
Impossibilitato a fermarsi in tempo per non travolgerle, terminò la corsa addosso a due uomini, i quali barcollarono sotto l’impeto dell’urto, cadendo rovinosamente a terra. Corrado mise avanti le mani, ma si ritrovò addosso a uno degli uomini, che attutì la sua caduta facendogli da materasso.
Costernato, sbatté le palpebre e rimase a fissare il volto sbalordito e sofferente del ragazzo steso sotto di sé.
«Scusatemi tanto.» mormorò mortificato.
            L’altro uomo caduto a terra si rialzò di scatto, il viso paonazzo, mentre gli altri due iniziavano a gridare in una lingua per Corrado incomprensibile. Gli occhi a mandorla gli fecero capire che erano orientali, ma da quale paese provenissero non poté intuirlo.
Stava ancora osservando il volto disorientato del giovane che aveva travolto nella foga della corsa, quando all’improvviso si sentì afferrare per le braccia e tirare su con prepotenza. Gli altri due uomini si chinarono sul ragazzo per aiutarlo a rialzarsi, continuando a parlare con tono preoccupato e concitato, e in quel frangente Corrado si accorse che l’incidente aveva richiamato l’attenzione dei passanti.
«Tutto bene?» s’informò un signore che faceva sfoggio di due grossi baffi.
«Sì, grazie.» rispose Corrado grattandosi la nuca.
            Gli occhi gli caddero sui libri caduti a terra e con un gemito si chinò per raccoglierli. Un secondo dopo vide il tram sparire dalla visuale e sospirò.
D’un tratto si sentì afferrare di nuovo per un braccio da uno degli orientali, più precisamente quello che aveva travolto nella caduta e che lo aveva rimesso in piedi, che con tono brusco gli intimò:
«Prego, tu chiede perdono Sua Eccellenza.»
«Sua Eccellenza?» ripeté senza capire.
            L’inglese parlato da quegli uomini aveva un accento strano e Corrado pensò di aver capito male.
Osservò il ragazzino, a suo avviso un adolescente che non poteva avere più di quattordici o quindici anni, e si accorse che lo fissava con aria offesa. In quel momento prese coscienza che gli altri tre lo trattavano con deferenza e arguì che si trattasse di qualche rampollo facile al risentimento.
Tuttavia lui si era già scusato, per quale motivo avrebbe dovuto farlo di nuovo?
«Prego, chiede tu perdono.» insistette l’uomo con tono burbero.
            Corrado si guardò intorno, i passanti che venivano allontanati da uno degli orientali con modi affabili, e tornò a osservare il ragazzino. Se scusarsi avesse significato poter tornare a casa prima che piovesse, non aveva nulla in contrario a farlo di nuovo.
«Mi spiace, non l’ho fatto apposta.»
            Il ragazzo strinse gli occhi e quel semplice gesto fece scattare qualcosa negli altri tre, che si irrigidirono all’istante, pronti a fare qualcosa che Corrado non capì. Poi, però, l’espressione del giovane mutò e sul volto apparve un tenue sorriso.
A quel punto i tre accompagnatori parvero rilassarsi e il rampollo mormorò in un quieto rimbrotto:
«La prossima volta state più attento.»
            Corrado si ritrovò ad annuire e il ragazzo continuò incuriosito:
«Non siete inglese, vero?»
«Infatti; sono italiano. E voi?»
            Quella domanda tornò a far irrigidire i tre orientali, ma un semplice gesto della mano del ragazzo li tenne a bada.
«Nihonjin desu. Sono giapponese. Il mio nome è Hideyori Yukihito.» si presentò con un inchino appena accennato della testa.
«Hido... Hido...» ripeté Corrado incerto.
«Hideyori.»
            Impossibilitato a capire, alla fine si presentò a sua volta:
«Corrado Bardi.»
«Coadu...»
«Corrado. Corrado Bardi.» ripeté.
            A quel punto entrambi sorrisero e l’italiano approfittò per chiedere:
«Spero non vi siate fatto male nella caduta.»
«Sto bene. Vi auguro una buona giornata.» salutò piegando appena la testa.
            Corrado aprì la bocca per ribattere, per poi richiuderla quando vide i quattro uomini allontanarsi impettiti, senza più degnarlo di attenzione.
«Buona giornata anche a voi.» mormorò a nessuno in particolare.
            Con lo sguardo li vide camminare lungo il marciapiede fino a un palazzo tipicamente vittoriano dove ondeggiava al vento la bandiera giapponese. Rimase immobile, indifferente alle prime gocce d’acqua che avevano iniziato a scendere e solo quando prese coscienza che i libri avrebbero potuto bagnarsi si risolse a correre in direzione di casa.
 
***
 
«Sul serio?»
«Sì.» rispose Corrado scrollando le spalle. «Non avevo mai visto un giapponese così da vicino.»
            I ragazzi che seguivano le lezioni di anatomia insieme a lui lo ascoltarono con espressione interessata.
            Il professore stava spiegando il modo di eseguire un corretto esame autoptico mentre un assistente disegnava su una lavagna, anticipando quello che a breve gli studenti avrebbero visto dal vivo sezionando un cadavere.
«È vero quello che si dice?» domandò un ragazzo curioso, con tono sommesso.
«Cosa?» chiese Corrado.
«I cinesi asseriscono che i giapponesi siano in realtà delle scimmie.»
            A quella affermazione, alquanto pittoresca, Corrado abbozzò un sorriso e rispose:
«No, non credo. All’apparenza sono uguali a noi.»
«Uguali?» intervenne un altro ragazzo con una punta di disprezzo. «Pensate che siano uguali a noi?»
            Corrado lo guardò a lungo, non comprendendo quell’astio e precisò:
«Ho detto “all’apparenza”, Michael.»
            L’altro arricciò il naso e sogghignando mormorò:
«Non è che pensate che anche i negri siano uguali a noi, vero?»
            Corrado serrò le labbra e preferì concentrarsi su quanto stava spiegando il docente. Perché Michael gli stava facendo quelle domande assurde? Aveva solo raccontato quanto gli era successo il giorno prima e l’amico stava rigirando le sue parole su un terreno che lui non aveva nessuna voglia di percorrere.
Avrebbe fatto meglio a tacere.
            Michael gli si accostò maggiormente e sussurrò:
«Voi italiani siete proprio gente strana, non c’è che dire.»
            Corrado si irrigidì, ciò nonostante non replicò. Gli era occorso più di un anno per farsi accettare dal circolo degli studenti di medicina e non desiderava essere cacciato via solo per aver raccontato un aneddoto privo di importanza.
            A ventidue anni sperava solo di terminare presto gli studi e poter esercitare la professione di medico il prima possibile. Desiderava rientrare a Firenze e farsi una posizione rispettabile per sdebitarsi con il padre che lo manteneva agli studi.
Non che la sua famiglia fosse indigente, tutt’altro. Erano ricchi come tutti i banchieri, però lui aveva insistito per percorrere una strada diversa da quella del contabile e suo padre glielo aveva concesso solo dopo aver visto la moglie morire per mano di dottori incapaci.
Corrado sapeva che, se avesse fallito, suo padre non lo avrebbe più guardato in faccia e da quando era giunto a Londra non aveva fatto altro che stare chino sui libri per dimostrare che un dottore dotato di nuove conoscenze avrebbe potuto fare la differenza.
«Stasera ci sarà una riunione al circolo per parlare della scoperta della dottoressa Curie.» proseguì Michael raddrizzando la schiena. «Ci sarete?»
            Corrado sorrise e picchiettando la penna sul tavolo rispose:
«Sì, se ci sarà anche la birra.»
«Quella non manca mai.»
«Allora chi sono io per fare eccezione?»
L’amico indicò la lavagna, dove l’assistente del professore aveva disegnato un utero sezionato e sogghignò:
«Meglio essere nati uomini.»
 
***
 
            Con Michael e altri studenti, Corrado attraversò il giardino per dirigersi all’aula dove si effettuavano le autopsie, controllando che il fazzoletto fosse imbevuto di profumo per mitigare l’olezzo dei corpi in putrefazione. Doveva farci l’abitudine, poiché non era detto che avrebbe esercitato solo in città: avrebbero potuto richiedere il suo aiuto su un campo di battaglia e in quella occasione il puzzo era perenne.
E tuttavia quell’odore gli riusciva difficile da metabolizzare. Quel pomeriggio avrebbe assistito alla sezione di una donna che era morta con in grembo un feto: quello che maggiormente gli interessava era il feto, poiché gli organi, privi di grasso, erano perfetti da studiare.
            Sotto il porticato si imbatté in altri gruppi di studenti, alcuni dei quali si dirigevano sul fiume Cam per esercitarsi in previsione dell’annuale gara di canottaggio e lì, all’improvviso, Corrado incrociò di nuovo il ragazzo giapponese con i tre accompagnatori.
Rallentò l’andatura per essere certo che fosse lui e per un attimo il suo sguardo incontrò quello di Hideyori. Questi si limitò a osservarlo, per poi proseguire con le guardie del corpo lungo il porticato.
«Non ditemi!» esclamò Michael dando una gomitata a Corrado.
            L’italiano si concentrò sull’amico e si accorse che tutti stavano fissando i quattro giapponesi mentre sparivano dalla vista.
«Erano loro?»
«Sì, sono quasi sicuro.»
«Quasi?» sogghignò Michael.
            Corrado chinò appena la testa, non riuscendo a capire. Cosa faceva un adolescente al Trinity College? Ora ammettevano persino i ragazzini?
«A guardarli così,» riprese Michael pensieroso, «somigliano ai cinesi. Questi giapponesi, però, non portano i capelli legati a treccia.»
            Corrado si domandò se Hideyori l’avesse riconosciuto, per poi supporre che, se così fosse, lo avrebbe di certo salutato. Pertanto lo rilegò in un angolo della mente e insieme con gli altri si diresse all’aula di anatomia.
 
***
 
            Era buio quando prese l’ultimo taxi diretto a Londra. Era stanco, eppure accarezzò i libri e ripensò alla discussione avuta con i ragazzi sulla scoperta fatta dalla dottoressa Curie.
Quello che lo aveva sconvolto non era il fatto che fossero scettici sulla scoperta dei fenomeni radioattivi, bensì la riluttanza dei suoi coetanei nei riguardi di una donna. Sostenevano che un essere inferiore all’uomo non meritasse di essere elevato al rango di dottoressa, sebbene negli ultimi anni molte ragazze avessero deciso di emanciparsi dedicandosi allo studio.
Lui non ci trovava niente di male, eppure nei circoli le donne non erano ancora ammesse.
            Quando giunse a casa, la proprietaria stava già dormendo ma la nipote era ancora in piedi.
«Siete arrivato, finalmente!» esclamò la ragazza alzandosi dalla sedia e andandogli incontro nell’ingresso.
«Buonasera, Rosemary. Come mai siete ancora alzata?»
«Vi stavo aspettando.» rispose lei con un sorriso civettuolo.
            Gli prese la redingote e l’appoggiò all’attaccapanni, mentre lui si toglieva i guanti e li adagiava sulla cassapanca a ridosso di una delle pareti.
«Siete rimasto al circolo?» s’informò lei con tono vivace.
«Sì. Abbiamo discusso su una scoperta recente.»
«Una scoperta interessante?»
«Direi di sì.»
            Mise il piede sulle scale che conducevano al piano superiore, ma la ragazza non aveva nessuna voglia di lasciarlo andare.
Si era reso conto che Rosemary aveva un debole per lui e avrebbe anche potuto abusare della situazione; tuttavia non voleva rovinare il buon rapporto che aveva con la padrona di casa. Certo, la sua bellezza delicata, chiara, lo affascinava e quando lei non lo guardava ne approfittava per studiarla e immaginare le proprie mani sul quel corpo sottile.
«Non volete mettermi al corrente? Magari dinanzi a una tazza di buon tè?»
            Corrado esitò, osservando l’orologio a cucù attaccato alla parete dell’ingresso segnare le undici di sera. Non era tardissimo, però era stanco e la mattina dopo doveva alzarsi presto per tornare alla biblioteca e studiare.
«A essere sinceri, sono piuttosto spossato.»
«Ricordate il ricevimento che si terrà tra due giorni a casa di Lord Maurice Spencer?»
            Corrado inarcò un sopracciglio, ammirando la tenace sfrontatezza della ragazza.
«Ricordo che siete stata invitata e che la cosa vi ha resa felice.»
«Sì, certo. Avrò bisogno di un cavaliere.»
            Il sottinteso era a tal punto ovvio che Corrado sorrise, mettendo mano al corrimano.
«Io sono solo il figlio di un banchiere italiano.»
«La vostra famiglia è antica.»
«Vero, ma noi siamo un ramo cadetto. La famiglia principale si è estinta. Pertanto, come potete ben arguire, non sono nobile.»
            Lei piegò graziosamente la testa di lato e lo guardò con i suoi grandi occhi azzurri ai quali Corrado non sapeva dire di no.
Il ragazzo indugiò, alzò lo sguardo al soffitto e sorrise, capitolando.
«Va bene. Se non ci saranno problemi, vi accompagnerò.»
«Non ci saranno.» assicurò lei illuminandosi.
            Corrado accennò un saluto e salì le scale rischiarate da alcune lampade a olio poste sopra delle applique.
Rosemary sorrise mordendosi le labbra e dopo aver fatto una giravolta corse in camera propria con esuberanza quasi fanciullesca.
 
***
 
            Hideyori prese il bokken e si mise in posizione: davanti a lui Morikawa Hiroyasu, suo maestro di kenjutsu, nonché guardia del corpo e samurai tra i più fedeli, afferrò un altro bokken con entrambe le mani.
            Ai lati del tatami c’erano altri due samurai inginocchiati che seguivano con attenzione la lezione. Erano gli stessi uomini che lo accompagnavano ovunque, pronti a sacrificare la vita per lui.
Hideyori non era un ragazzo qualunque: era il nipote dell’ultimo Shōgun Tokugawa.
Con l’apertura del Giappone all’occidente, le famiglie più in vista avevano mandato i loro figli a studiare all’estero per assimilare le diverse culture, anche se nel loro intimo continuavano a tenere alte le millenarie tradizioni. Sebbene i samurai sulla carta non esistessero più, gli uomini seguitavano ad allenarsi nello stesso modo dei loro padri, fieri di poter servire il loro imperatore.
            Liberi di potersi muovere meglio con i kimono che non con gli abiti occidentali, Hideyori e Morikawa si fronteggiavano con abilità, riportando in vita le tecniche dei maestri samurai. Per quella occasione le spade non erano le katana, bensì i bokken, fedeli riproduzioni di legno delle armi vere.
            Per un paio d’ore combatterono emettendo grida che laceravano il silenzio incontrastato della stanza, sotto lo sguardo degli altri due uomini, anch’essi in kimono.
Alla fine, Morikawa s’inchinò davanti al suo signore e scese dal tatami con la fronte imperlata di sudore.
«Se voi parlaste bene l’inglese come usate la spada, sareste perfetto.» lo elogiò Hideyori consegnando il bokken a uno dei due samurai in attesa.
            Morikawa sorrise e s’inchinò di nuovo, accettando il complimento.
Non si era ancora perdonato l’episodio del giorno prima, quando l’italiano aveva travolto lui e Hideyori e c’era mancato poco che estraesse il pugnale per ucciderlo seduta stante. Non era concesso girare per le strade con la spada, ma sotto la redingote portava sempre il pugnale per poter difendere il suo signore.
E il giorno prima, quando aveva visto l’italiano nicchiare nel chiedere scusa, era stato sul punto di lavare l’onta nel sangue. Invece Hideyori lo aveva fermato, sicuramente per non provocare un incidente diplomatico.
Sentiva ancora addosso la vergogna di non essere stato in grado di proteggerlo e di non aver capito che colpendo l’italiano avrebbe peggiorato la posizione del suo signore.
«Domani tornerete a Cambridge?» s’informò.
«No. Ho del lavoro da svolgere qui all’ambasciata.»
            Morikawa annuì e fece cenno agli altri due di lasciare la stanza. Quando furono soli, il samurai si asciugò il sudore dalla fronte e disse:
«Siamo arrivati solo da tre giorni: mi piacerebbe vedere la città.»
            Hideyori fece un cenno con la mano e concesse:
«Fate pure. Non sentitevi in dovere di seguirmi ovunque.»
            L’altro abbozzò una smorfia e borbottò qualcosa.
«Smettetela. Non sono più un bambino, ormai ho ventun anni e so cavarmela da solo.»
«Sì, lo so. Ma Hideyori-sama mi ha messo a vostra protezione ed io sono un samurai.»
            Hideyori chiuse un attimo gli occhi e con il pensiero volò a Tōkyō, dove viveva la sua famiglia.
Suo padre faceva parte dell’attuale governo e quando gli aveva espresso il desiderio di studiare a Londra per migliorare il proprio inglese, il genitore non si era opposto. Fin da piccolo sua madre, una Tokugawa, gli aveva messo a disposizione un precettore di lingua inglese affinché assimilasse il più possibile la mentalità occidentale e lui era cresciuto ascoltando le gesta di re e regine di paesi lontani.
Ora, diventato adulto, la smania di vedere con i propri occhi il mondo occidentale era diventata realtà, sebbene non si trovasse in Inghilterra per diletto bensì per studio.
Il vento di emancipazione che da molti anni soffiava, portava con sé la promessa di un futuro migliore e Hideyori voleva rendersi utile per migliorare il proprio paese.
            Comprendeva la curiosità di Morikawa; anche lui era rimasto a bocca aperta appena sbarcato a Southampton e durante il tragitto in macchina che lo aveva portato fino a Londra, era rimasto ammutolito di fronte alle maestose costruzioni in mattoni. Tutto era diverso dal Giappone.
«Desidero anche io scoprire le bellezze di questa città, tuttavia prima devo assestarmi. Non vorrei comportarmi in maniera sconsiderata verso questi occidentali.» commentò.
            L’altro chinò appena la testa, quindi assentì.
«Avete ragione. Meglio non perdere la faccia davanti a questi barbari.»
«Hiro-san,» lo chiamò usando il nomignolo che dimostrava la loro amicizia, «non usate mai quel termine dinanzi agli occidentali. Alcuni di loro parlano la nostra lingua. Mi dispiacerebbe ordinarvi di fare seppuku
            Il samurai strinse le labbra, gonfiò il petto e s’inchinò.
«Perdonate la lingua di questo vostro umile servo.»
            Hideyori sorrise, ben sapendo che il seppuku era stato abolito come pena corporale e, ciò nonostante, ancora in auge tra i samurai più tradizionali.
Sciolse la hachimaki dalla fronte, porgendola all’amico.
«Per oggi è sufficiente.» concluse uscendo dalla stanza.
 
***
 
            Corrado scese dal tram e si avviò lungo il marciapiede per raggiungere la biblioteca. Si fermò un attimo all’angolo con la strada che portava all’ambasciata giapponese e gettò uno sguardo al complesso. La Hinomaru sventolava lieve e alcuni soldati erano di picchetto.
            Esitò e alla fine si avvicinò per osservare meglio il palazzo.
Ai lati della strada gruppi di bambini chiedevano l’elemosina nei loro abiti lerci e strappati e Corrado cercò nel taschino un po’ di spiccioli. L’aria era fredda e gli si strinse il cuore nel vedere i loro piedi nudi più neri del carbone. Lasciò i soldi e quelli gli si misero alle costole, parlando e allungando le mani per toccarlo nella speranza che donasse di più.
«Ecco, questo è tutto, non ho altro.» dichiarò allargando le braccia.
            I bambini provarono a tirarlo per la redingote e alla fine Corrado dovette alzare la voce per mandarli via.
Quando riuscì a raggiungere l’ambasciata, si accorse di avere gli abiti sporchi e imprecò sommessamente. Se fosse andato diretto alla biblioteca, tutto quello non sarebbe successo.
Eppure la curiosità era stata più forte e ora che si trovava lì si accorse che i giapponesi di guardia lo fissavano per capire cosa avesse in mente. Erano armati fino ai denti e Corrado scrutò con una certa apprensione le lunghe spade che pendevano al loro fianco.
            Alzò lo sguardo oltre il porticato, verso le finestre ai piani superiori, senza riuscire a vedere nulla. Le tende chiuse non accettavano intromissioni di occhi indiscreti.
Una carrozza si accostò e ne scese un funzionario inglese accompagnato da segretari e valletti. Salì le scale e sparì all’interno dell’edificio.
            Corrado si passò una mano tra i capelli, domandandosi cosa l’avesse spinto ad andare fin lì.
Azzardò un’ultima occhiata alle finestre, quindi estrasse l’orologio dal taschino: faceva ancora in tempo ad andare a studiare in biblioteca. Tornò indietro, passando per una strada alternativa onde evitare i bambini e dimenticò i giapponesi.
Dalla hall dell’edificio, dove inservienti e dipendenti si inchinavano all’inglese appena arrivato, Morikawa lo seguì con lo sguardo, domandandosi cosa ci facesse l’italiano lì all’ambasciata. Per un attimo fu tentato di rincorrerlo, ma poi posò lo sguardo sul funzionario inglese e con un inchino lo accompagnò nelle stanze di Hideyori.
 
***
 
«Siete certo?»
«Sì.» rispose Morikawa.
«Questi occidentali si somigliano un po’ tutti.» insistette Hideyori.
«Riconoscerei quell’uomo tra mille.» bofonchiò.
            Ancora non aveva digerito l’affronto subito due giorni prima e l’immagine di Corrado gli si era stampata in mente come un marchio a fuoco.
            Hideyori rifletté e si avvicinò alla finestra.
Si era sorpreso nel vederlo all’università e avrebbe desiderato salutarlo, anche se il suo rango non glielo consentiva. Cos’era venuto a fare all’ambasciata? Cercava lui? E per quale motivo?
Osservò la strada e l’andirivieni di pedoni, carrozze e sporadiche macchine, desiderando liberarsi degli obblighi per poter girare in piena libertà. Da quando era arrivato gli sembrava di essere il miele che attrae gli orsi e ogni giorno era costretto a incontrare funzionari, nobili, ministri e accettare inviti per la stagione mondana che ormai volgeva al termine. Il console gli aveva spiegato che era normale frequentare le case dei Lord ed era considerato scortese rifiutare gli inviti ai balli.
«Potrei occuparmi di lui.» suggerì Morikawa con leggerezza.
            Hideyori non si mosse, né distolse lo sguardo dalla strada.
«L’incidente per me è chiuso. Mi ha chiesto scusa.» ribatté con tono pacato.
«Vi ha gettato a terra!»
«Già. Capita quando si corre.» rispose con un sorriso divertito.
«Yuki-sama, voi non...»
«Non sembra strano anche a voi che due persone così diverse si siano incontrate in un paese straniero?»
            Morikawa emise un grugnito sommesso e l’amico si girò a guardarlo.
«Comprendo benissimo i vostri sentimenti.» concesse Hideyori. «Se fossimo stati in Giappone e lui mi avesse gettato a terra, voi gli avreste staccato la testa di netto per lavare l’onta. Ma non siamo in Giappone e non siamo più nel medioevo. Pertanto smettetela di pensare all’onore offeso e iniziate a ragionare all’occidentale. E non dimenticate mai che siamo ospiti dell’ambasciatore.»
            Morikawa serrò la mascella e un attimo dopo si gettò in ginocchio, rimanendo prostrato ai piedi del suo signore, il volto contro il pavimento.
«Permettetemi di fare seppuku. Non posso vivere con questa vergogna.»
           Hideyori inspirò a fondo, pensando che le tradizioni erano dure a morire. Era come se non avesse parlato.
Fino a trent’anni prima quell’atteggiamento era comprensibile, addirittura sollecitato; ciò nonostante, da quando il Giappone si era aperto all’occidente, le cose stavano mutando e lui sperava di portare la civiltà nel proprio paese.
Come poteva salvare la faccia all’amico senza che si suicidasse? Lo capiva: Morikawa si sentiva responsabile perché era venuto meno al compito di proteggerlo e l’onore del samurai gli imponeva il seppuku; nondimeno lui non aveva nessuna voglia di perdere il solo amico che avesse.
Morikawa Hiroyasu lo aveva visto nascere, l’aveva addestrato per divenire samurai, lo aveva accompagnato in una casa da tè e l’aveva sempre protetto. Possibile che la sua mentalità fosse così ancorata alle vecchie tradizioni? Eppure non aveva che trentacinque anni, era ancora giovane.
«Alzatevi, Hiro-san.» ordinò con tono stanco. «Vi lascerò fare seppuku quando sarà il momento.»
            L’uomo alzò la testa per guardarlo e mormorò:
«Desiderate lasciarmi vivere nel disonore?»
«No, ma per ora dovete continuare a proteggermi in questo paese straniero ed io mi fido solo di voi.»
            Morikawa raddrizzò la schiena e alla fine si alzò, riflettendo.
«Va bene.» accettò con poco entusiasmo. «Aspetterò con ansia il giorno in cui mi permetterete di recuperare il mio onore.»
            Hideyori sorrise e indicò la scrivania piena di carte e libri, esortando:
«Rimettiamoci al lavoro.»
   
 
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