Così come lo zucchero filato aveva perso il sapore lanoso dell’infanzia, pure i colori dell’estate che andava morendo dietro ad un ennesimo tramonto non erano intensi e vivi come quando era bambino. Il cielo pareva annacquato di una solitudine gravida di pensieri a rincorrersi, gli uni accartocciati agli altri, un intreccio senza senso, un ammasso amorfo pari alla nuvola di zucchero che traballava appiccicosa sopra lo stecco di plastica. Il sole pallido sospirava un ventaglio di fievoli raggi rosati contro la coltre nera di quell’anonimo cielo senza stelle che rifletteva, sguardo dopo sguardo, la solitudine degli occhi perduti di Kageyama Tobio. Il giovane sedeva pigramente, attorno al lui il brusio segreto delle ultime cicale che intonavano il loro chiacchiericcio allo sfrigolio delle foglie verdi e madide per i residui dell’afa di agosto. Più lontano, si disperdeva il suono attutito di una romantica canzone jazz remixata. Non avrebbe saputo dire da dove provenisse, ma neanche sforzarsi di decifrarne alcune delle note era tra le sue intenzioni quella sera.
Stava seduto su una panchina di legno adornata di muschio e rivolta al panorama del belvedere che dava sui tetti bianchi e scintillanti della città. Sopra le case si ergeva il vapore aspro delle auto impilate, il vociare indistinto fluttuava come polvere e si colorava delle tonalità dei clacson, troppo lontani per sovrapporsi alla musica.
Tobio staccò un pezzo del suo zucchero con i denti ed incrociò le caviglie sotto la seduta della sua panca, ne masticò il nostalgico gusto pastoso e lasciò che i ricordi gli si sciogliessero sulla lingua per poi bloccarsi nella gola. Lo schermo del suo cellulare lampeggiò l’arrivo di un nuovo messaggio.
 

 
 
Il testo lo lesse semplicemente volgendo il capo in basso verso l’aggeggio anonimo che gli sostava accanto, abbandonato assieme allo zainetto sportivo contenente l’inutile necessario per una interminabile corsa in vista della prossima riapertura del club di pallavolo.
Ignorò il formicolio alla pancia e alla punta delle dita che quel nome al termine del messaggio gli aveva suscitato e sollevò ancora la testa in un tiepido schiocco di vertebre rivolte al cielo. La musica sembrava essersi dispersa o le cicale cantavano troppo forte. Era troppo difficile continuare ad ignorarne l’isterico battibecco.
Un altro candido lampo.
 

 
Ripose lo stecco spoglio di quella dolce delusione sopra la panchina, il sole si era perduto dietro le case, sembrava poter non sorgere mai più. Si espandeva, sopra le insignificanti vite degli abitanti della notte, il telo nero di un’eternità senza risposte. L’estate volgeva al termine, veniva l’autunno del suo ultimo anno al Karasuno High.
 

Se non faccio i compiti e non torno a scuola allora non dovrò neanche lasciare la squadra.
 
È così, non è vero?
 
Kageyama?

 
Allora lo zucchero cominciava ad avere un retrogusto soffice al di là della sua lingua e la notte torrida era puntellata, una ad una, di minuscole stelle che spuntavano silenziose, pavide e infinitamente belle. Sul fondo della notte tremolava la speranza magica di poter giocare ancora un po’ con il tempo che rimaneva.
Tobio prese le sue cose e si alzò dalla panchina stagliandosi contro il lento riprendere della musica jazz.