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Autore: SirioR98    27/08/2018    2 recensioni
In fisica, un sistema isolato è un sistema posto così lontano dagli altri da non interagire con loro, oppure un sistema chiuso che non ha scambi con l’ambiente circostante.
È un sistema perfetto, in equilibrio, costante.
Mi chiamo Noah e mi hanno costretto in un sistema isolato.
Noah è un sedicenne nato e cresciuto in una piccola comunità di mormoni nello Utah. Apertamente omosessuale e fiero di esserlo, si ritrova a convivere per cause di forza maggiore con Alex, la sua “persona preferita”, che si identifica come nonbinary. Esplorando la comunità LGBTQ+ di Salt Lake City e sopravvivendo alle sfide della città natale di Joseph Smith, Noah si vede costretto a crescere prima del tempo e a cercare la sua voce.
Genere: Azione, Dark, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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*Angolo dell'autrice*

Update: Sistema Isolato - Mitch diventerà una serie web, cliccate qui per visualizzare la pagina instagram ufficiale, dove caricheremo gli aggiornamenti.

Buonsalve a tutti e ben ritrovati. Il brano di questo capitolo è Moth, singolo degli Hellyeah tratto dall'album Blood for blood. Gli Hellyeah sono un cosiddetto "supergruppo", una band formata da artisti provenienti da altri gruppi famosi, in questo caso parliamo di Chad Gray, voce dei Mudvayne, Tom Maxwell, chitarrista dei Nothingface, Kyle Sanders, bassista dei Bloodsimple, e, fino alla sua morte lo scorso giugno, Vinnie Paul, batterista dei Pantera. 
Consigliatissimo anche il singolo precedente, Hush, un brano che parla dell'infanzia di Gray, cresciuto in una famiglia violenta.
Qui vi lascio il video (in inglese) in cui vengono spiegati alcuni termini che usa Sayid, propri del dialetto libanese.
Vi auguro una buona lettura.


 
Capitolo 12


Nuovo giorno, altra avventura.
Con questo pensiero mi alzo dal letto e mi preparo ad affrontare, ancora una volta, un mondo che inizia a starmi stretto.
Dopo le novità di due giorni fa non ho avuto né la concentrazione, né la forza di affrontare mio padre. Ieri Winterfield mi ha detto che era venuto a cercarmi, voleva parlare… ma, davvero, non ce la facevo.
Avevo ancora bisogno di pensare.
“Riuscirai mai a perdonarlo, a riallacciare i rapporti?” Mi ha chiesto ieri sera l’uomo, poggiato alla scrivania della mia stanza.
Io ho fatto spallucce e ho risposto che la possibilità non era da scartare.
Entrambi sapevamo benissimo che stavo solo rimandando il problema.
Non volevo affrontare mio padre, era chiaro. Quando una situazione rimane in stallo, com’è in questo momento il rapporto tra noi due, non può certo migliorare… ma non può nemmeno peggiorare. Mi piace l’idea di poter scegliere, di avere, almeno per una volta, il controllo.
Finito di vestirmi, scendo al piano inferiore per una colazione veloce prima del lavoro.
Quando chiuderanno la causa, spero di poter studiare di nuovo per prendere il GED.
Non ho mai voluto abbandonare la scuola, avevo pianificato di diplomarmi con voti alti, entrare in una buona università e laurearmi in letteratura inglese.
Per ora, quel sogno è messo da parte. Non vi rinuncerò tanto facilmente, sia chiaro, ma non me lo posso permettere, ora come ora.
Non posso studiare e lavorare contemporaneamente, se voglio aiutare i Winterfield ed evitare che il rifugio chiuda, i soldi hanno la priorità.
A volte si devono fare sacrifici.
Già dal corridoio riesco a sentire i rumori mattutini, provenienti dalla sala da pranzo: una sinfonia di posate, stoviglie e chiacchiere assonnate.
Noto che alle solite voci se n’è aggiunta una nuova.
Come una falena attratta dal fuoco, mi precipito giù per le scale, dritto in cucina, logorato dalla voglia di sfatare la mia supposizione.
Purtroppo, è confermata.
Un incubo.
Dev’essere un incubo.
Non mi sono svegliato, stamattina, sto ancora sognando.
Fra Sayid e Marlene, intento a cucinare e dialogare pacificamente, trovo la figura di mio padre.
Sentendo i miei passi, l’uomo si volta, si accorge della mia presenza e mi saluta con la mano, sorridendo incerto.
Riesco a scuotermi quasi immediatamente dallo stato di pietrificazione indotto dalla sorpresa, per poi marciare verso il tavolo dove Winterfield sta consumando la colazione, interromperlo sgarbatamente e tirarlo di peso nel salotto, dove mi preparo a urlargli contro.
“Che ci fa lui qui?” Domando visibilmente irritato, braccia incrociate e tutto il resto.
Sono sicuro che ci sia il suo zampino di mezzo.
L’uomo si sporge per osservare mio padre in cucina.
“Cucina la colazione a quanto pare.” Risponde calmo, tornando al suo posto.
“No, intendo: cosa ci fa lui qui?” Chiedo nuovamente, ponendo l’enfasi sull’ultima parola e allargando le braccia per indicare la stanza.
Con nonchalance, Winterfield si stringe nelle spalle.
“Dà una mano.”
Mi cadono le braccia.
“…dà una mano? Per caso gliel’hai permesso tu?” Ribatto, abbassando il tono della voce.
L’uomo annuisce convinto, incrociando le braccia.
Faccio un respiro profondo per calmarmi. Porto le mani giunte davanti alla faccia e le abbasso di scatto per indicarlo, per poi stringerle nuovamente a pugno.
Tutto questo senza guardarlo in faccia, ovviamente, perché altrimenti lo prenderei a manate.
Altro respiro profondo.
"Si può sapere che ti è venuto in mente?" Riprendo, la mia voce tradisce una rabbia silenziosa.
"Ieri avevi detto che volevi riallacciare i rapporti." Afferma lui, un sopracciglio alzato in segno di sfida.
"Na-ah! Avevo detto che ci avrei pensato, è diverso." Ribatto, indicandolo pericolosamente.
"E tuo padre si era già proposto per aiutarci, sia legalmente che fisicamente, ho fatto due più due. Perché non mi hai detto che è un avvocato?" Mi chiede accusatorio.
"Dimmi un po’: a scuola facevi schifo in matematica, ho ragione?" Commento sprezzante, ignorando volutamente la domanda.
Winterfield si preme gli occhi.
Questo è il suo modo di mantenere la pazienza e non urlarmi contro.
"Noah, qual è il problema?" Mi domanda stanco.
Ridacchio nervosamente.
"Qual è... Te lo dico io qual è il problema, Winterfield: questa dovrebbe essere una casa sicura e tranquilla, ma con lui intorno non mi sento tranquillo, men che meno sicuro." Spiego, la voce ridotta a un sussurro di rabbia.
Winterfield mi prende per le spalle, però mi scanso immediatamente. Ormai dovrebbe aver capito che odio essere toccato quando sono arrabbiato.
"Noah, tu sei al sicuro. So per certo che non corri alcun rischio con tuo padre in casa." Mi rassicura lui, abbassando la voce per non farsi sentire.
Lo guardo di sottecchi.
"Come lo sai?" Gli chiedo.
Una domanda così semplice che esige una risposta articolata.
"Lo so e basta. Ti pare che l'avrei fatto entrare se pensassi sia una minaccia? Non ti metterei mai volutamente in pericolo. L'uomo si è pentito sinceramente, dagli una possibilità."
Mi supplica con gli occhi.
Scuoto la testa.
"Certo che con te è una continua terapia espositiva..." Mormoro, guardando a terra.
"Comunque... Io vi sento, sapete?" Afferma una voce proveniente dall’arco.
Ci giriamo in sincrono, colti in flagrante.
Mio padre si avvicina lentamente, attento a non versare il contenuto del piatto che tiene in mano.
Me lo mostra contento.
"Ho fatto il pan di banane, il tuo preferito." M’informa, porgendomi il piatto.
Lo guardo diffidente, facendo saettare gli occhi fra il dolce e l’uomo che me lo offre.
"Stai cercando di comprare il mio affetto con il cibo?" Lo accuso, mantenendo un tono neutro.
"Quindi non ne vuoi?" Mi domanda, allargando le labbra nel sorriso malizioso di chi conosce perfettamente le debolezze del proprio interlocutore.
Gli lancio un’occhiataccia, serrando ancora di più le braccia.
Mio padre, di rimando, alza le spalle e posa il piatto sul tavolino da caffè, voltandosi per tornare in cucina.
Approfitto del suo attimo di distrazione per prendere le fette di dolce.
È più forte di me: non gliela voglio dar vinta, ma non riesco a resistere al pan di banane.
Addento una fetta.
Mio padre si gira nuovamente, cogliendomi, ancora una volta, con le mani nel sacco. Oggi non riesco a essere discreto.
Allontano la fetta dalla bocca, la poso sul piatto e mi pulisco le labbra dalle briciole.
Nell’osservarmi, l’uomo sorride soddisfatto.
"Smettila. Non vuol dire nulla, sono in ritardo per il lavoro e questa è una colazione veloce." Mi difendo, prendendo il dolce dal piattino e andando verso la porta.
"Non ti lavi i denti dopo aver mangiato? Almeno portati un pacco di gomme, non vorrai uccidere qualcuno." Ribatte mio padre, senza muoversi dal suo posto.
Lo sento ridere sommessamente.
"Non è cambiato di una virgola, orgoglioso come sempre." Aggiunge mormorando.
Per tutta risposta, senza voltarmi, da sopra la spalla alzo un dito medio, rivolgendolo ai due uomini.
Silenzio i rimproveri chiudendo la porta d’ingresso.
Vengo illuminato dalla pallida luce del sole quasi invernale. Se non fosse per quelle due persone nel giardino di fronte, la strada sarebbe deserta.
Le due figure mi salutano sorridenti e io ricambio, grato di quel piccolo gesto gentile.
A volte anche la più piccola gentilezza può cambiare la giornata.
I miei piedi calpestano il cemento del vialetto, mentre mi allontano dal porticato, finché non incontrano qualcosa di scivoloso.
La mia scarpa destra, una di quelle Converse rotte e usate che non si buttano mai, slitta per un attimo.
Non cado, ma non perdo neanche l’equilibrio.
Abbasso gli occhi per vedere cos’abbia calpestato. Il mio sguardo viene subito colto da della vernice rossa sotto le suole bianche delle mie scarpe.
Incuriosito, vado sul marciapiede, senza staccare gli occhi dal cemento.
Rivolto verso la casa, alzo lo sguardo.
La bocca si apre dallo sgomento, i miei occhi si sgranano dall’orrore.
A lettere maiuscole, rosse contro il legno chiaro, una frase attraversa in diagonale la porta.
“Andatevene o bruciate.” Leggo in mente.
Andatevene o bruciate, urla la minaccia.
Inorridito, riesco finalmente a dare un significato alle linee sul vialetto, che si uniscono a formare il disegno di una casa in fiamme, dalle cui finestre sporgono degli omini stilizzati con la bocca spalancata in un urlo di terrore.
Un botto assordante alla mia destra mi fa gridare per la paura e indietreggiare sconvolto, disorientandomi ancora di più.
Istintivamente porto le mani avanti per proteggere il viso, ma non chiudo gli occhi.
Fra le dita riesco a vedere la buca delle lettere sfigurata, il suo metallo aperto in un fiore dai petali affilati. L’esplosione veniva dal suo interno.
Con la coda dell’occhio scorgo quelle due persone, quelle due stesse persone che poco fa mi hanno salutato così cordialmente, scappare dal luogo del crimine.
Un picco di adrenalina mi mantiene lucido, permettendomi di collegare gli avvenimenti.
Sono stati loro.
Non so come, ma sono sicuro che abbiano aspettato che uscissi da casa e dessi loro le spalle per causare l’esplosione.
E so anche per certo che siano loro i mandanti della minaccia.
Tuttavia, lo shock non mi permette di muovermi o gridare la mia accusa, quindi le due persone, un uomo e una donna, possono abbandonare la strada senza attirare l’attenzione di chi accorre allarmato per il rumore.
Mio padre, i Winterfield e i coniugi Paget, per essere precisi.
Gli adulti mi raggiungono, tempestandomi di domande per assicurarsi della mia salute, creando un muro fra me e i colpevoli, facendomeli perdere di vista.
Non riesco a parlare, li guardo a uno a uno con le pupille dilatate dalla paura.
Così come sono iniziate, le domande finiscono e tutti aspettano in silenzio che risponda.
Boccheggio per qualche secondo, incapace di formare una frase di senso compiuto, finché non mi decido a indicare la casa violata.
Cinque teste si girano incuriosite a seguire il mio dito. Riesco a discernere il momento esatto in cui ognuno si accorge della scritta.
Winterfield fa un passo avanti, l’espressione indecifrabile, analizza attentamente tutti gli elementi.
Poi si gira di scatto, viene da me e mi prende le spalle.
“Noah, hai visto chi è stato?” Mi domanda serio.
Io torno a guardare la strada, dove un attimo prima si trovava quella coppia.
L’uomo mi scuote per attirare la mia attenzione, Emma gli mette una mano sul braccio per farlo smettere.
Lo guardo dritto negli occhi, una luce di rabbia lo illumina.
“Allora?” Chiede, alzando la voce.
Annuisco.
Arriccia le labbra, calmandosi un attimo.
“Chiamiamo la polizia.” Mi ordina, lasciandomi andare.
“E oggi non andrai al lavoro, Noah. Avverti il signor Cox.” Aggiunge, voltandosi per tornare in casa a prendere il cellulare.
Quest’ultimo comando mi riscuote dal mio stato di shock.
“Cosa? No, Winterfield, aspetta… ci servono quei soldi.” Mi oppongo, riuscendo ad afferrargli in tempo il braccio.
L’uomo abbassa uno sguardo disapprovante su di me.
“Non ti permetterò di metterti in pericolo per una giornata di salario minimo. È fuori discussione.” Ribatte con il tono di chi non ammette proteste.
“Senti… chiameremo la polizia, ma non posso perdere una giornata intera di lavoro, va bene? Ti giuro che starò attento, non farò nulla di azzardato.” Prometto, nella vana speranza che ceda.
Winterfield scuote la testa.
“E poi sarei in mezzo alla gente, con telecamere di sicurezza puntate addosso e un adulto che potrebbe intervenire in caso di pericolo. Tecnicamente sarei più al sicuro a lavoro che da solo in una casa presa di mira da manifestanti e vandali, non credi?” Continuo, cercando altri vantaggi nell’andare al 7-Eleven.
Tutto, pur di non stare da solo con mio padre.
Non ce la faccio, ancora. Preferirei essere attaccato con un coltello.
Con una pistola non so, ma con un coltello sì, potrei schivarlo facilmente, non sarebbe la prima volta.
Winterfield si gratta la testa, sospirando.
Ottimo segno.
“Va bene, ma tienimi aggiornato qualsiasi cosa succeda. Anzi, manda un messaggio ogni due ore… facciamo così: oggi pomeriggio verrà qualcuno a vedere se stai bene, intesi?” Mi propone per venirci incontro.
Accetto senza esitazioni e, mentre Winterfield va a prendere il cellulare, chiamo il mio datore di lavoro per informarlo degli ultimi avvenimenti.
Ora che ci penso, avrei potuto chiamare io la polizia. Oh beh, ormai è andata.
Contrariamente a quanto previsto, Cox non si lamenta, anzi… si preoccupa. Mi dice di fare attenzione e anche lui mi consiglia di passare la giornata a casa.
Mi offre una giornata di ferie pagate, pur di non farmi correre rischi.
Rifiuto l’offerta e chiudo la chiamata, non dopo aver salutato.
I miei genitori avranno anche cresciuto un ladro, un criminale e un bugiardo, ma non un maleducato.
Un perfetto Arsenio Lupin, in poche parole.
La volante non tarda ad arrivare.
Dalla macchina scendono due poliziotti, uno dell’età di Josh, l’altro coetaneo di mio padre. I due mi si presentano, ma dimentico i loro nomi subito dopo aver stretto la mano.
Il più giovane passa quindi a scattare le foto della scena, dalle finestre del piano superiore vedo i ragazzi, pronti per andare a scuola, spiare dalle finestre.
Alex mi chiede con lo sguardo una spiegazione, io rispondo segnando “dopo”: una L formata con pollice e indice, in cui quest’ultimo si abbassa.
Mi risponde con un pollice alzato.
Abbiamo fatto bene a imparare le parole-base della lingua dei segni.
Essendo l’unico testimone oculare, il poliziotto più anziano m’invita a seguirlo in stazione per prendere la deposizione.
Nonostante le richieste di mio padre, solo io e Winterfield siamo in macchina.
La stazione in questione è la centrale sulla 300E, vicino Liberty Park. Posizione molto comoda, così non devo fare molta strada per andare al 7-Eleven.
Si tratta di un edificio enorme, tappezzato di finestre, molto più simile a un museo di arte moderna che a un ufficio statale.
Entriamo nell’atrio luminoso, sul quale si affaccia una balconata semicircolare. Alla nostra sinistra troviamo una piccola esposizione di oggetti e due moto bianche. Saliamo le scale dalla ringhiera di vetro, seguendo il poliziotto nel suo cubicolo.
Sulle pareti del corridoio sono appesi delle stampe in bianco e nero. Quest’edificio non smette mai di stupirmi: più mi guardo intorno, meno riesco a credere che questa sia una stazione di polizia.
L’ultima volta non mi sono goduto la vista, diciamo che lo apprezzo di più senza le manette ai polsi.
L’agente si siede dietro un computer e ci indica le poltroncine davanti alla scrivania.
Inizia scrivendo i miei dati, per poi passare alla denuncia.
“A questo punto mi sono girato e ho trovato quella scritta sulla porta.” Spiego, osservando le dita muoversi sulla tastiera.
“E cosa diceva la scritta?” Domanda con fare annoiato.
“Andatevene o bruciate.” Rispondo immediatamente, assicurandomi che scriva la minaccia sul fascicolo.
“Subito dopo è esplosa la cassetta delle lettere.” Aggiungo, sporgendomi sulla scrivania, curioso di vedere a che punto sia arrivato.
“E ha detto di aver visto i colpevoli.” Continua l’agente, alzando gli occhi su di me.
Torno a sedermi composto sulla sedia.
“Sì: un uomo e una donna.”
L’uomo annuisce, tornando a battere la tastiera.
“Me li può descrivere? Segni particolari?” Chiede senza scollare gli occhi dal monitor.
Ci penso su, cercando di riportare in mente le vicende di poco fa.
I due che mi hanno salutato… che aspetto avevano?
“Io… non lo so, non me li ricordo. Insomma, credevo fossero solo gente che passava o qualche follower di Twitter, non immaginavo avessero cattive intenzioni. Mi hanno salutato, ma non è la prima volta che degli estranei mi salutano, quindi non ci ho dato più di tanto peso.” Mi giustifico.
Da quando è esplosa la notizia, non capita di rado che persone a caso mi salutino, riconoscendomi dal telegiornale o da Twitter.
“E li ha visti in atto…” Prosegue.
Sono costretto a interromperlo.
“Ecco… no, non li ho visti in atto…” Spiego esitante, guadagnandomi un’occhiata confusa dall’agente.
“Allora come fa a sapere che si trattasse dei colpevoli?” Mi domanda in tono accusatorio.
“Prima di tutto, non mi hanno avvertito. Stavano guardando me, mi hanno salutato, ma non mi hanno indicato la casa. Secondo, appena mi sono girato è esplosa la cassetta delle lettere e li ho visti scappare verso la 1100 E. Non può essere un caso che l’esplosione sia avvenuta quando ho dato loro le spalle, ci doveva essere qualcuno a guardare e quei due erano gli unici nei paraggi, oltre me.” Espongo la mia teoria, cercando di non alterarmi.
L’uomo gira la sua sedia, adesso è posizionato frontalmente a noi. Incrocia le mani sul tavolo e si china lievemente in avanti.
“Ammettendo che siano state queste persone che sta accusando, sa anche quale sarebbe il movente?” Mi domanda, chinando la testa di lato, come se stesse parlando con un bambino.
Incrocio le braccia al petto, sedendomi lontano da lui.
“Omofobia. Questo è un crimine d’odio. Non è la prima volta che ricevo minacce…” Ammetto, lanciando un’occhiata a Winterfield, che sembra sorpreso.
“Internet è la terra di nessuno, chiunque può scrivere ciò che vuole… e dovreste vedere la casella dei messaggi privati dell’account Twitter della causa e del mio profilo privato. Ma è la prima IRL, la prima minaccia reale.” Continuo, scuotendo la testa.
Non riesco a capacitarmene.
“Da quanto tempo riceve minacce?” Riprende a domandare l’agente.
“All’incirca da quando ho aperto l’account. Quindi… da due settimane?” Replico dopo un conto veloce.
Il poliziotto aggrotta le sopracciglia.
“E non ha pensato di denunciare il fatto?” Chiede, a mo’ di rimprovero.
“Finora non ho dato peso ai commenti e ai messaggi, pensavo fossero solo opera di leoni da tastiera… non avrei mai pensato potessero trasformarsi in un pericolo reale.” Mi giustifico, stringendomi nelle spalle.
“E non ha nemmeno pensato di, non so, chiudere l’account e non attirare l’attenzione, per un po’?” Domanda nuovamente con tono incerto.
“Insomma… siccome la vostra ‘causa’ attira questo genere di reazioni, non ha pensato di abbandonarla o, quanto meno, essere più cauto?” Aggiunge, cercando di difendersi dai nostri sguardi disapprovanti.
“Sta per caso insinuando che il ragazzo se la sia cercata?” S’intromette Winterfield, drizzandosi sulla sedia.
Il poliziotto mette una mano avanti.
“Non ho detto questo, ma se il ragazzo avesse compreso i segnali…”
A queste parole, Josh si alza e sbatte le mani sul tavolo, facendomi sussultare.
“Come polizia, è compito vostro proteggere i cittadini e punire chi compie reati. Lei ha davanti un palese reato d’odio e sta cercando di scaricare la colpa sulla vittima, le pare il modo di fare il suo dovere?”  Contesta a gran voce, attirando l’interesse delle persone attorno a noi.
L’agente se ne accorge, si alza dalla sedia e imita la posizione del mio tutore.
“La prego di moderare i toni e pensare bene a ciò che dirà, le ricordo che sta parlando con un pubblico ufficiale.” Sibila l’uomo, guardando Winterfield dritto negli occhi per intimidirlo.
Purtroppo per lui, non riesce nel suo intento.
“Agendo in questo modo sta rifiutando di fare il suo lavoro. Siamo in presenza di testimoni, potrei tranquillamente citarla in giudizio per questo.” Lo intima Josh, avvicinandosi al suo viso.
Li osservo in silenzio, mortificato. Anche un po’ deluso, a essere sincero.
Non ho mai avuto un buon rapporto con la giustizia, ho rinunciato da tempo a cercare aiuto dalla polizia, tuttavia non posso che rimanerci male, vedendo i miei pregiudizi confermati.
Ma, con la fedina penale che mi ritrovo, non posso fare molto. Una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale mi rimanderebbe sicuramente in riformatorio.
Quindi non dico nulla, chino la testa e mi concentro sul palmo della mano sinistra, affondandovi l’unghia per distrarmi.
Il dolore che ne scaturisce, per quanto più simile a un fastidio, riesce a darmi la forza per contenermi.
Le intimidazioni di Winterfield riescono a richiamare un altro agente, che interviene per sedare la discussione.
“Tutto bene qui?” Domanda, ponendo una mano sulla spalla del mio tutore e l’altra sulla mia.
Non alzo la testa, continuo a lasciare segni sul mio palmo.
Winterfield gli spiega la situazione e l’agente, dopo aver lanciato un’occhiataccia al suo collega, decide di prendere il caso, chiedendoci di seguirlo alla sua scrivania.
Immagino sia di un grado più alto, giacché il poliziotto che si stava occupando di noi non batte ciglio.
Con la voce ridotta a un filo a causa della rabbia, riesco finalmente a denunciare il reato e a uscire dalla centrale, che adesso assomiglia più a uno di quegli edifici in cui lavorano i cattivi dei film.
Il viaggio verso il 7-Eleven non è dei migliori.
Winterfield mi lascia davanti alla porta, approfittandone per fare benzina.
“Ti vengo a prendere quando hai finito, va bene?” Mi avvisa, guardandomi entrare a lavoro.
Alzo un pollice poco prima che le porte automatiche si chiudano.
Oggi Cox si comporta più gentilmente del solito. Vedendomi alterato, cerca di distrarmi parlando del più e del meno. Peccato che non sia in vena di chiacchiere.
Quando comprende che ho bisogno di stare da solo per calmarmi, mi mette a fare inventario sul retro, così che non abbia a che fare con i clienti.
Mossa astuta per cui sono grato.
Il resto della mattinata passa lentamente, sembra quasi un’agonia: da una parte sono in solitudine come volevo, dall’altra sono in compagnia dei miei pensieri e libero di rimuginare quanto voglio sull’accaduto.
Mi rifugio disperatamente nelle liste, contando tre volte ogni oggetto presente nella stanza affollata.
Il diversivo non dura a lungo, per l’ora di pranzo ho già finito.
Così mi trovo nuovamente fra i corridoi del minimarket a fare i lavori più disparati. Con il passare delle ore, le emozioni si attenuano, ma non scompaiono. Rimangono sempre in quell’angolo del cervello, come dei tamburi tribali in sottofondo.
Come promesso, nel pomeriggio entra un fugace sollievo dai miei affanni. Il ragazzo va alla cassa e domanda qualcosa al mio collega, che indica nella mia direzione.
Io sono inginocchiato davanti a uno scaffale con una scatola accanto, come se stessi pregando gli spaghetti in scatola per un miracolo.
Con un barattolo ancora in mano, alzo lo sguardo.
“Che carino, ti stai già proponendo?” Mi domanda il ragazzo libanese, prendendomi in giro.
Riesce a strapparmi un sorriso.
“Quando lo farò, sarà con una ciotola di hummus, di certo non con una confezione di Spaghetti ‘O’s’.” Replico, alzandomi in piedi e pulendo i pantaloni con le mani.
“Ah, yo’borne. Certo che mi conosci bene.” Ribatte Sayid, avvicinandosi flirtante.
Mi poggio sullo scaffale con le braccia conserte, facendo attenzione a non far cadere nulla.
“Quindi Winterfield ha mandato te, per controllarmi.” Deduco, guardandolo dall’alto in basso.
Il ragazzo scuote la testa, imitando la mia posizione.
“No, mi sono offerto volontario.” Ribatte, mordendosi il labbro.
Sciolgo le braccia.
Ci sta provando apertamente… e devo dire che non mi dispiace.
“Stai bene?” Mi domanda, chinando la testa.
Annuisco.
“Sto meglio, ora che parlo con te.” Rispondo, sorridendogli e mettendogli una mano sul braccio.
Anche la rabbia si è acquietata, per un attimo.
Ma solo per un attimo.
Un commento di troppo da parte di un cliente dall’altro lato dello scaffale la fa rimontare.
“Disgustoso. Anche in pubblico…”
L’uomo, che va sulla cinquantina, sta guardando ripugnato un pacchetto di patatine, riesco a vederlo da sopra l’espositore.
“Come, scusi?” Domando incuriosito, facendo finta di non aver sentito bene.
L’uomo alza lo sguardo su di noi, come se si fosse accorto adesso della nostra presenza.
“Potreste anche evitare, sapete?” Ribatte, tornando a guardare il suo pacchetto di patatine.
Sto per fare il giro del corridoio per raggiungerlo, ma Sayid mi afferra un braccio, trattenendomi.
“Lascia perdere.” Mi consiglia, tirandomi verso la cassa.
“Non ho capito: cosa potremmo evitare?” Torno alla carica, alzando un po’ la voce.
L’uomo ha finalmente posato il pacchetto di patatine, spostando tutta la sua attenzione su noi due.
“Non m’importa cosa tu o il tuo amichetto facciate a casa vostra, ma in pubblico potreste anche risparmiarvi certe effusioni. È disgustoso, mi fate venire la nausea.” Sibila, sputando veleno sugli articoli in vendita.
“Le persone come lei mi fanno venire la nausea. Sa, Joe Rogan una volta ha detto, cito testuali parole, che gli omofobi o sono cretini o, segretamente, hanno paura che il cazzo sia delizioso.” Replico, un sorriso di sfida sulle labbra.
L’uomo ha l’aria di chi è pronto ad attaccare. Onestamente, non aspetto altro.
Che si faccia avanti, vediamo quant’è forte, vediamo se ha il coraggio di eliminare il problema di persona.
Sayid continua a tirarmi verso la cassa, ma io faccio resistenza.
Voglio sangue, il mio, il suo, non importa.
Mi ero stancato della violenza.
Eppure oggi voglio sangue.
Yallah, Noah, andiamo.” Mi prega il ragazzo.
L’uomo guarda prima me, poi Sayid.
“Su, Noah, ti conviene seguire il tuo amico, prima che chiami la polizia. Scommetto che tu e il terrorista siete pure clandestini, vogliamo scoprirlo?” Domanda con un ghigno malvagio, sporgendosi da sopra l’espositore.
È arrivata la mia occasione.
Prima che l’uomo si possa ritrarre, gli ho già sferrato un pugno. La violenza è accompagnata da una sinfonia di latta su linoleum, i barattoli cadono dall’ultimo scaffale, abbattuti dalla veemenza con cui il mio corpo si è lanciato sul mobile.
Qualcuno mi prende per le spalle e mi allontana a forza dall’espositore, ma riesco a liberarmi e a tornare alla carica. Le mie mani cercano di colpire l’uomo, di graffiarlo, sfregiarlo, cercano oggetti da lanciargli in testa.
La mania non dura che qualche secondo, chiunque sia intervenuto prima riesce nuovamente ad afferrarmi e a bloccarmi sul pavimento, circondato da un’aura di spaghetti e zuppe in scatola.
Mi dimeno sotto il peso della persona e, non so come, riesco a sgusciare fuori, pronto a riprendere da dove sono stato interrotto.
Vengo sollevato di peso e portato via dalla scena del delitto, giù per il corridoio, dritto nell’ufficio del direttore, mentre mi agito spasmodicamente, provando a colpire chiunque si sia permesso di fermare la mia giustizia privata.
La porta si chiude con un botto e sono lasciato andare. Mi precipito verso la libertà, ma quella persona blocca l’unica via d’uscita con il suo corpo.
“Ho detto basta!” Tuona la voce di Cox.
Mi blocco sul posto, ansimando per lo sforzo, finalmente cosciente di chi mi trovi davanti.
La figura del direttore torreggia contro la porta, mi guarda a dir poco infuriato.
Il mio petto si alza e si abbassa affannosamente. Inghiotto a vuoto, cercando di calmare il respiro.
Cox si passa una mano fra i capelli.
La lampada dell’ufficio sfarfalla, proiettando nella stanza un’intermittenza di ombre. L’aria è densa dell’odore di carta, di compensato, di sudore.
Di delusione.
L’uomo sospira profondamente, riprendendosi.
“Sapevo che sarebbe stato un errore assumerti…” Mormora fra sé e sé.
Con ogni sillaba sento un brivido sulla schiena, dove le gocce di sudore lasciano la loro scia.
“Mi dispiace, Bonham, ti avevo avvertito.” Borbotta nolente.
Sento il sangue defluire dal viso, mentre l’affanno riprende più forte di prima.
“Sei licenziato.”
Il respiro mi muore in gola.
Un colpo al cuore.
Una lama.
Il vuoto nel petto.
Il ronzio della luce al neon si propaga nella stanza, mi entra nelle orecchie, rimbomba nella testa, non mi fa pensare.
Mi guardo intorno per cercare una via di fuga, che so non esistere.
“Devo chiamare i tuoi tutori… e la polizia.” Mi avvisa la sua voce, lontana chilometri.
Mette una mano sulla maniglia della porta.
La gira.
“Signor… la prego…” Supplico con un filo di voce.
“Rimarrai chiuso qua dentro finché non saranno arrivati.” Sentenzia, guardando a terra.
Senza un’altra parola, un altro sguardo, esce chiudendosi la porta alle spalle.
Mi fiondo sul legno, battendo per attirare la sua attenzione, pregandolo di tornare e di lasciarmi spiegare.
Non è finita qui, non può finire qui.
Mi stacco dalla porta, giro per la stanza cercando di dare un senso a ciò che è successo.
Non posso aver mandato tutto all’aria… di nuovo.
La realtà mi piomba sul capo senza clemenza.
Io… ho rovinato tutto.
Osservo il muro di mattoni grigi scoperti.
Un muro così spoglio che sembra canzonarmi.
E nel muro si forma la faccia di quell’uomo.
Mi deride, sogghigna contento.
Mi ci avvicino.
Il suo viso si tramuta nel mio, l’espressione rimane la stessa.
Le labbra si muovono: “soddisfatto?”
Sferro un pugno verso quella faccia, ma colpisco solo freddi e duri mattoni.
Colpisco di nuovo.
E ancora una volta.
E ancora, finché le ossa non mi dolgono e il grigio non si macchia di rosso.
E anche quello mi prende in giro, con il suo continuo sollecito: “Volevi sangue? Adesso lo hai ottenuto.”
Mi volto dall’altro lato per non dargli conto, poggiando la schiena sulla macchia.
Mi lascio scivolare per terra, tenendomi la mano dolorante.
Sbatto la testa a muro con tutta la forza che ho, con l’intenzione di aprirla in due.
Chiudo gli occhi, lascio che le lacrime mi cadano in grembo.
Alzo il volto al cielo e urlo.

 
  
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