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Autore: wolfymozart    30/08/2018    1 recensioni
La luce obliqua di un tramonto di settembre nasconde un sentimento mai sopito, il buio della notte lo protegge, ma la luce del giorno illumina senza pietà la realtà.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna Ristori, Antonio Ceppi
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Non aveva sofferto. Così aveva assicurato il dottor Ceppi dopo essere stato mandato a chiamare per constatarne la morte. Ed infatti il volto sembrava disteso, sereno, le membra rilassate, l’espressione pacificata di chi, dopo lunghe sofferenze, ha trovato requie. La cuffia di pizzo bianco perfettamente calata sul capo, le mani ossute e bianche sovrapposte, il capo leggermente reclinato in avanti sul cuscino ricamato con lo stemma di famiglia. Così l’avevano lasciata Fabrizio ed Elisa, dopo che la sera precedente li aveva mandati a chiamare per congedarsi, e così la vedeva Anna nell’incerta luce del primo mattino di un giorno di settembre, estromessa da quell’ultimo commiato, incapace di perdonarsi per non essere accorsa lei stessa al capezzale della madre morente per un ultimo saluto, ma nello stesso tempo risentita per non essere stata tenuta in considerazione in un frangente tanto importante.

Non era arrivata in tempo per vederla viva, quella notte. Eppure una strana sensazione le suggeriva in quelle ore notturne di alzarsi, di indossare la veste da camera, di prendere una candela e di scivolare per i corridoi fino alla porta della stanza di sua madre. Un presentimento che lei aveva ricacciato come stupido, infondato, irrazionale, e aveva dunque continuato a rigirarsi fra le coperte senza riuscire a prendere sonno. Così, soltanto verso l’alba, dopo una notte d’inferno tra risentimenti, rimorsi, gelosia verso quella servetta a cui la madre sembrava dedicare più attenzione che a lei, sua figlia, era stata vinta dall’amore filiale e si era decisa a far visita alla madre. L’aveva trovata immobile, ormai fredda, impassibile. Le ci erano voluti pochi istanti per dedurne la morte. In fretta e furia aveva svegliato Fabrizio, che si era affannato a mandare a chiamare d’urgenza il dottor Ceppi. Anna aveva opposto resistenza: che bisogno c’era di convocare con tanta fretta il medico, visto che era ormai evidente che la loro amata madre era spirata? Che cosa avrebbe potuto risolvere il dottor Ceppi, pur con tutta la sua perizia, di fronte alla morte? Sarebbe stato perfettamente inutile. Anzi, la vista del medico le avrebbe aggiunto angoscia ad angoscia, ma questo al fratello non lo disse. Le sue resistenze si rivelarono inutili, Angelo poco tempo dopo fece il suo ingresso nel corridoio facendo strada al dottore. Anna si ritrasse immediatamente nelle sue stanze, senza dargli nemmeno il tempo di scorgerne la figura allontanarsi per i corridoi. 

Furono ore concitate. Ordini da impartire alla servitù affinché predisponesse i preparativi per il funerale, che, secondo il costume dei Ristori, sarebbe dovuto essere austero ma solenne; lettere da inviare alla nobiltà locale per annunciare la dipartita della contessa Agnese; formalità legali da sbrigare. Tra queste, la più importante, la convocazione del notaio per l’apertura del testamento. Fabrizio si era offerto di assumersi questa incombenza. Sebbene fosse distrutto dalla morte della madre, manteneva i nervi saldi e disponeva con prontezza ogni faccenda pratica. Elisa, invece, non faceva che detergersi gli occhi arrossati con fazzoletto di seta ornato dello stemma dei Ristori, vegliando accanto al corpo della defunta con tanto di velo nero di pizzo calato sugli occhi. Amelia le teneva compagnia deplorando la scomparsa della beneamata contessa e sgranando con devozione le decine del rosario che teneva in mano.

La luce obliqua del sole autunnale aveva invaso la stanza adibita a camera ardente, dove due ceri torreggiavano ai piedi della bara, facendosi largo tra numerosi omaggi floreali portati dalla campagna dai contadini. Il profumo dei fiori e il silenzio regnavano nell’aria greve di quel primo pomeriggio di settembre, ancora caldo del sole dell’estate. La notizia della morte di Agnese Ristori non si era ancora diffusa per la contea, le prime visite al feretro erano previste per la sera o per la mattinata seguente. Ogni tanto si udiva in sottofondo il ronzio sommesso delle orazioni di Amelia e delle altre serve che l’anziana guidava nella recita del rosario per la padrona defunta. Elisa non aveva lasciato il suo posto alla sinistra della contessa e sillabava sottovoce la cantilena delle preghiere, mentre i suoi occhi scrutavano di tanto in tanto la porta in attesa della comparsa di Fabrizio, seguito dal notaio. Sulla soglia comparve, invece, di lì a poco Anna, che aveva trascorso l’intera mattinata a scrivere lettere listate a lutto, chiusa nelle sue stanze.

-Voglio restare sola con mia madre, uscite per cortesia. – esordì facendo il suo ingresso nella stanza. S’era cambiata d’abito, vestiva di nero, tinta che le conferiva un’eleganza austera, quasi ieratica, accentuata da suo sguardo altero, asciutto, dominante. Le domestiche lì radunate per la recita del rosario ebbero un istante d’esitazione, si volsero alla padrona con occhi compassionevoli, come a porgerle mute condoglianze. Anna non gradì la loro compassione: non aveva bisogno della pietà della servitù, non aveva bisogno nemmeno del conforto di suo fratello o di quell’Elisa che si era ormai insinuata nella loro famiglia, non aveva bisogno delle viscide attenzioni del marito, che, anzi, si augurava restasse lontano più al lungo possibile. Non aveva bisogno proprio di nessuno, voleva restare a tu per tu con la madre, per un ultimo confronto, per un estremo chiarimento. Così, non avendo ottenuto risposta, rincarò rabbiosa: - Mi avete sentita? Fuori! Andatevene al più presto di qui! – ma i suoi occhi scuri lampeggiavano di disperazione, non d’ira.

- Contessa, io vorrei…- accennò timidamente Elisa.

- Che cosa vorresti? Vattene insieme alle altre, non sei nulla più di loro. – spense così sul nascere ogni possibile richiesta. Anche la ragazza s’avviò dunque a testa china verso la porta, che richiuse delicatamente, accompagnando il gesto con un inchino fin troppo ossequioso. Una volta sola nella stanza, Anna si sedette sulla poltrona di raso, accostandosi alla salma. Chiuse gli occhi, con un profondo sospiro si fece il segno di croce, devotamente, senza fretta, concentrando dentro di sé tutta la forza d’animo e la fede che possedeva. La vita la chiamava ad una nuova, difficile prova: non era bastata la scomparsa prematura del padre quand’era poco più che una ragazza, non era bastata la lontananza protratta per anni del fratello, non era bastato il fallimento, sempre più evidente agli occhi di tutti, del suo matrimonio. Le veniva imposto anche di affrontare la perdita della madre, proprio in quel frangente delicato, con Fabrizio invaghito di una serva, con suo marito totalmente incapace di tenere le redini delle sue finanze, con Emilia da crescere il più lontano possibile dalle nefandezze e dalle ingiurie di suo padre. Ma lei era una donna forte, o così aveva sempre dovuto dimostrare di essere: forte, risoluta, per alcuni quasi arrogante. Nessuno avrebbe mai messo in discussione il fatto che Anna Ristori, la marchesa Radicati, avrebbe affrontato ogni ostacolo con quel suo piglio superbo e sprezzante, con quel suo sguardo sdegnoso, con i suoi toni taglienti. Nessuno. Tranne, forse, due sole persone. Una, tuttavia, giaceva fredda e immobile davanti a lei, composta, silenziosa. Non l’avrebbe più potuta accompagnare, consigliare, proteggere: ma, si disse Anna, nemmeno in vita l’aveva fatto fino in fondo, l’aveva abbandonata al suo destino, pur conoscendone i segreti struggimenti, i sentimenti nascosti, le ambizioni cullate. La seconda persona, invece, era ancora viva, sì, ma era da anni morta nel cuore di Anna. Erano anni che i loro contatti si limitavano allo stretto necessario imposto da quelle formule di cortesia che con lui Anna, sempre ineccepibile in questioni d’etichetta, tendeva ad infrangere, respingendo ogni seppur minino contatto, sfuggendone lo sguardo con fare scostante, rivolgendosi a lui con il solo titolo di “dottore”, come a voler cancellare dalla sua memoria quel nome che le era stato tanto caro e voltandogli con freddezza le spalle ogni volta al momento dei saluti. Eppure, ormai, lui soltanto in questo mondo ne conosceva la vera natura, soltanto lui avrebbe saputo leggere il dolore dai suoi sguardi fieri, soltanto lui intuirne la dolcezza dietro quei gesti imperiosi, forzatamente impostati. A quanto pare, tuttavia, aveva smesso quest’arte anni e anni prima, preferendo a quella natura così delicata e malinconica ma al contempo così suscettibile e complessa, un animo più mite, semplice, rassicurante. La strada più facile, ma soltanto in apparenza: la strada che avrebbe spalancato una voragine di dolore davanti a tutti gli attori di quel dramma.

 

Fasci di luce del tramonto fluivano vellutati dalle finestre della stanza, al cui interno si muovevano composti e silenziosi gli ospiti giunti a dare l’estremo saluto alla contessa. Anziani marchesi zoppicanti appoggiati al braccio di un qualche servo, duchesse dagli abiti listati a lutto e dall’aria sgomenta, giovanotti sgargianti nella divisa militare, contessine tutte trine e pizzi neri, dagli occhi lucidi e dalla pelle candida, insofferenti alla luce del sole: via via sfilava davanti al feretro di Agnese Ristori tutta la nobiltà locale, afflitta e incredula. E poi avvocati, notai, faccendieri di ogni genere che si erano occupati delle finanze della famiglia, avevano sostenuto cause, difeso interessi, intessuti rapporti finanziari o di altra natura. Insomma un corteo senza fine che dal tardo pomeriggio percorreva silenzioso i corridoi della residenza fino alla camera ardente di Agnese. Ciascuno aveva parole di stima, di affetto per l’anziana contessa, si raccontavano aneddoti, si sgranavano felici ricordi, parole gentili, gesti affettuosi. Ciascuno, poi, manifestava il proprio cordoglio ai figli, rivolgendo loro accorate condoglianze, stringendone le mani.

E i due figli se ne stavano in piedi vicino alla bara: Fabrizio, con un sorriso cordiale e uno sguardo fermo, accoglieva gli ospiti con modi garbati e calorosi, ne riceveva la commossa partecipazione, scambiava con loro qualche parola sulle circostanze della dipartita della cara madre, senza mai indulgere ad espressioni insofferenti o scocciate. Di tanto in tanto volgeva uno sguardo d’intesa ad Elisa, in disparte in un angolo della stanza, col pizzo nero e il fazzoletto agli occhi, ma pur sempre presente a quel ricevimento che avrebbe dovuto riguardare solo loro, i figli.

Lei non era nessuno, non faceva parte della loro famiglia, non era altro che una servetta squallida che si arrogava prerogative non sue, si atteggiava a nobildonna, solo per via di quell’insana passione di suo fratello Fabrizio e dell’affetto che le portava da sempre la contessa Agnese. Un oltraggio impossibile da tollerare, proprio nel giorno della morte della loro madre. Questo pensava Anna mentre con frasi di circostanza congedava quell’aristocrazia locale che era venuta a far visita. Ma, a differenza di quelli del fratello, i suoi gesti non erano calorosi, il suo sguardo non era risoluto e deciso, né riusciva a nascondere quel suo nuovo dolore dietro a un sorriso di circostanza.  Si torceva le mani, le labbra serrate, lo sguardo basso e sfuggente, quasi ad evitare gli occhi dei presenti, traeva di tanto in tanto profondi sospiri rivolti alla salma della madre. Il caldo di quel pomeriggio di settembre non le aveva impedito di indossare con studiata noncuranza quel vestito di pesante raso nero, per la prima volta dopo le esequie di suo padre, quindici anni addietro.

   
 
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