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Autore: Koa__    31/08/2018    8 recensioni
Questa raccolta conterrà storie più o meno brevi, incentrate sulla coppia John Watson e Sherlock Holmes e (anche, ma non soltanto) sul loro ruolo di genitori.
La storia: "La geniale imperfezione di Sherlock Holmes" partecipa al contest "Tante navi per una palma" indetto da GiuniaPalma sul forum di EFP.
Alcune di queste storie partecipano alle Challenge dei gruppi: "Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart" e "Aspettando Sherlock 5".
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Rosamund Mary Watson, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Cuore di Barbarossa
 
 



 
 
“Sul caldo mare che ci ha fatto incontrar,
un vento gelido mi porta il dolor,
la bianca luna che ci ha fatto sognar
si è spenta come il sole d'or!”


 



Succede per caso. In un attimo. Capita, perché gli Watson ti rendono la vita imprevedibile e ormai dovresti esserci abituato. È Rosie, questa volta è lei a sfuggire al tuo controllo. Si divincola, corre. Grida, ride. Che carino, urla indicando la vetrina di un negozio di animali. Possiamo prenderlo? Chiede, e il suo sguardo è implorante. Espressivo. Impregnato di una speranza che ti spezza il cuore a dover spegnere.
«Non credo che tuo padre sia d’accordo.» Una giustificazione, nient’altro se non una bugia. Perché è assurdo che lei ti abbia indicato proprio un cane come quello.

Gli somiglia, pensi.

Barbarossa, sussurri piegando la testa da un lato mentre prendi a fissarlo. Ha occhi grandi. La lingua a penzoloni, scodinzola felice. È identico all’immagine di quel cagnolino con il quale non sei cresciuto, ma che ancora popola il tuo palazzo mentale. Del cuore di Barbarossa, là dentro non ce n’è traccia. Perché i tuoi ricordi non sono nulla se non follie di una mente impazzita dal dolore. Logorata dal tradimento. Hai sostituito il tuo compagno di giochi con un animale, convincendoti per tutta la vita che quella fosse la realtà. Credi che, in psicologia, quel che è successo alla tua memoria abbia un nome. Non lo ricordi. Neanche te ne importa. Sai solo che non credi alle coincidenze. “Raramente l’universo è così pigro” mormora il tuo Mycroft fittizio, parlandoti con fastidiosa saccenza, mentre tu ti ritrovi a sfiorare la vetrina con le punte delle dita. Rosie ti guarda, lei non sa. Non capisce. A stento ci riesce John. Probabilmente piange quando gli comunichi il tuo no perentorio, di certo è scontenta dall’esser stata trascinata via.

Vigliacco.

Poi ci ritorni davanti a quella vetrina. Il giorno dopo e quello dopo ancora. Osservi il bel cagnolino scodinzolante e intanto cerchi di figurare te stesso a grattargli le orecchie. Ci sono mattine in cui esci di casa sicuro che lo comprerai, altre in cui invece ci passi semplicemente davanti e non ti fermi. Tenti di convincerti che è soltanto un animale e che non t’importa nulla di lui.
 
Bugiardo.

La realtà è che, vederlo, ti fa tornare alla mente Barbarossa. Il ricordo è doloroso, fa male. Brucia persino la confusione che il tuo cervello ancora non sa riordinare. C’è lui, dentro al tuo palazzo mentale. Ha il pelo fulvo. Corre e abbaia, ed è lo stesso che a tratti diventa lo sfortunato Victor Trevor. Voi, una spiaggia. Il mare. Tu che ti atteggi a feroce pirata. Poi tutto quanto scompare. Un vento gelido ti porta dolore, il sole si spegne. Resta solo il buio. E il frammento di un piccolo Barbagialla che, con lo spadino di legno e il cappellone sopra la testa, cerca invano il suo Barbarossa.
 
Ancora fa male. Non pensarci non serve a niente.
 
Il fatto succede di pomeriggio. Uno di quelli pigri e annoiati, senza la minima traccia di un caso decente. Devi badare alla piccola Rosie perché John è uscito a fare non sai cosa. Non l’hai ascoltato mentre ti parlava; oggi sei troppo annoiato persino per questo. Ti ritrovi steso sul divano a pizzicare le corde del violino. La tazza del tè che Mrs Hudson ti ha portato per rinfrancarti lo spirito, giace sul pavimento. Vuota. Ora c’è Rosie a riempire la stanza, è seduta al tavolo e fa un puzzle. Parla da sola. Canta anche. Cerca di coinvolgerti, ma tu sei troppo distratto per fare il papà.
«Finito!» trilla la bambina a un certo momento, battendo le mani e ammirando il proprio lavoro con quel pizzico d’orgoglio che le gonfia il petto. Stai quasi per alzarti e farla contenta, quando un cigolio al piano di sotto attira la tua attenzione. È John che chiude le porta e sale i gradini, ma lo fa molto più lentamente del solito. Fai subito caso ai passi non ritmati da quella cadenza militare che non ha mai perso. Che ha di tanto pesante con sé? La spesa? Nah, non credi. Sei curioso. Perché non si precipita da te, a sorriderti come soltanto lui è capace di fare?

A baciarti e basta.
 
È dopo che capisci, quando finalmente compare sulla soglia del soggiorno noti che tra le braccia regge una grossa scatola di cartone.
«Un regalo» dice e ha la stessa felicità nel tono della voce, che Rosie ha usato poco fa per il suo puzzle. Rosie, che lo raggiunge. Che non lo bacia sulla guancia come John vorrebbe, ma che subito apre lo scatolone e che urla quando vede quello che c’è dentro.

«Un cane!»

Ed è sufficiente a farti balzare in piedi. Neanche parli, semplicemente guardi quella grossa scatola ormai aperta e la buffa palla di pelo rossiccia che sbuca da dentro. Non è semplicemente un cane, è quel cane.

«Mi pareva piacesse a tutti e due.»
 
John sorride, e tu lo ami. Lo abbracci in un impeto di non trattenuta contentezza, e non hai parole. Non sei capace di trovarle, credi di esser diventato un idiota ma non t’importa. Lasci che siano i gesti a fare il tutto. Quel bacio, per esempio, dato su labbra di poco sfiorate. Un “Oh, Watson” rilasciato sussurrando, tra un sospiro e l’altro. La felicità spazza via il dolore. Barbarossa non c’è più, ti dici, è morto anni fa per colpa della tua disturbata sorella. E quel cane non era altro che una fantasia. Ma adesso esiste ed è reale. Sono vere le risate della piccola Rosie. Lo è lo scodinzolare incessante. La pipì sul tappeto. John che impreca, trattenendosi a stento. E tu che ridi come non facevi da tempo. Rovesciando la testa indietro. Ti amo, John Watson. Gli dici prima di sentenziare che sì, quello è Barbarossa.
 
 
 
 
 
 
“Si é spento il sole chi l'ha spento sei tu
da quando un altro dal mio cuor ti rubò.
Innamorare non mi voglio mai più
e nessun'altra cercherò
io cercherò...
Amare un'altra non potrò”


 
 
 
 
 

 
Fine
 
 
 
 
 
 
Note: Doveva essere una drabble… mi è uscita una semi-songfic. Mi è stata ispirata da questa fanart che ho trovato su Tumbrl (e che non è mia). Doveva essere diversa da così, ma ieri su Facebook ho trovato una canzone di Vinicio Capossela e mentre ne ascoltavo anche altre, sono stata folgorata da: Si è spento il sole. Io… beh, avevo deciso di non far più certe cose, ma in questo caso se potete (o volete) ascoltatela durante la lettura o anche solo per capire come ho scritto, perché la sintassi è molto legata al ritmo della canzone.
   
 
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