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Autore: Angel30    31/08/2018    0 recensioni
Essere un Avenger vuol dire molto di più che essere un semplice super eroe: vuol dire essere un amico, una squadra, una persona fidata... chiunque può diventarlo, anche il Soldato d'Inverso. Forse, ha solo bisogno di qualcuno di cui fidarsi o qualcuno per cui vivere.
La seconda chance di Bucky Barnes, un uomo che ritroverà molto più di ciò che ha perso e anche qualcosa che non ha mai avuto.
Genere: Avventura, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Natasha Romanoff, Nuovo personaggio, Steve Rogers
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dopo la notte di capodanno, i mal di testa erano diventati abitudine ormai. Era passata una settimana e l’emicrania mi colpiva nei momenti più inappropriati, costringendomi a chiudermi in casa.
Mi alzai dal letto dolorante, massaggiandomi le tempie con le dita. Andai stancamente verso il bagno, alla ricerca di un’aspirina nella credenza. Trovai la scatola, vuota.
“…merda”
mi strinsi forte la testa fra le mani, avrei dovuto pensarci prima… a onor del vero, ne avevo ancora una, ma da quando l’avevo trovata al parco quella notte avevo preso l’abitudine di portarla con me come portafortuna.
Dopo essermi infilata maglione e cappotto uscii di casa, rabbrividendo immediatamente per la gelata. Cominciai a dirigermi verso la farmacia, godendomi i flebili raggi di sole che mi carezzavano il viso. Anche quello era mal concio. Un livido violaceo mi copriva tutto lo zigomo destro e il labbro inferiore era ben spaccato. Sospirai e continuai per la mia strada, in tasca mi rigiravo il mio portafortuna, pensando e ripensando a come fosse finito lì quella notte.
 
Stava già facendo buio mentre ero di ritorno a casa. Fra le buste della spesa, della farmacia, la caviglia ancora dolorante e il ghiaccio sulla strada, mi sembrava un miracolo riuscire ad intravedere il mio palazzo in lontananza. Brooklyn non mi era mai risultata una città particolarmente pericolosa da quando mi ci ero trasferita, ma per tutto il tragitto una sensazione di disagio mi aveva fatto attorcigliare lo stomaco. Provavo a guardarmi indietro, a guardarmi attorno, ero sola per le strade eppure mi sentivo osservata.  
Tentai di accelerare il passo, passando dal fascio di luce di un lampione all’altro, fino a che non arrivai al portone. Lì, una figura mi stava aspettando. Mi sorrise, ci misi un po’ a ricordare.
-Oh…Natasha! Ma cosa…- la guardai confusa, lei si avvicinò velocemente, prendendomi una busta della spesa tra le mani. Ci impiegò qualche secondo di troppo, e mentre era ancora china verso di me, mi sussurrò all’orecchio divertita.
“C’è un’ombra che ti segue” mi pietrificai, guardandola ad occhi spalancati mentre mi sorrideva quasi divertita.
“Allora, saliamo?” mi chiese, ci misi parecchio tempo a riprendermi e ad aprire il portone.
“Prego…entra” la invitai con un fil di voce, guardando la strada da dove ero arrivata, deserta come quando l’avevo attraversata.
 
“Cosa intendevi, prima?” chiesi appena chiusi la porta dell’appartamento alle mie spalle, guardando con occhi impauriti Natasha. Lei sorrise dolcemente, togliendosi con non calanche il cappotto e andando ad accomodarsi in salotto. La seguii come un cagnolino, senza toglierle gli occhi di dosso.
“Come conosci il soldato d’inverno?” chiese a bruciapelo, guardandomi dritta negli occhi, pronta a studiare ogni mia reazione.
“Chi?”
“Non hai un accento di Brooklyn…sei qui da poco?” provò poi, sorridendo dolcemente, ma ero io a voler fare domande in quel momento.
“Natasha, cosa ci fai a casa mia? Di che ombra parlavi, prima? Chi…chi sei veramente?” lei rimase in silenzio ad osservarmi, io tentai di reggere lo sguardo. Il mio mal di testa aumentava, rendendomi la cosa particolarmente difficile. Sembrava nel mentre di un conflitto interno, strinse le labbra assorta e sospirò.
“Bene…io non dovrei essere qui con te, sai? Se lo venisse a sapere Steve” sorrise per un secondo, la sua espressione era diventata incredibilmente seria.
“Io e…Steve, stiamo cercando una persona, una persona molto importante. Il suo migliore amico” si fermò un secondo, calibrando le parole.
“E’ molto importante che…che venga trovato da noi, prima di altri”
“Altri?”
“Hai mai sentito parlare degli Avengers?”
“No” risposi sinceramente, strappandole un sorriso.
“Io e Steve, siamo Avengers. Gli Avengers hanno nemici, e gli amici degli Avengers sono nemici dei nemici…capisci?”
“No, o meglio, non capisco cosa c’entri con me” Natasha si alzò, si mise il suo cappotto beige e si avvicinò a me.
“Tieni, questo è il numero di Jarvis, una persona fidata. Se noti qualcosa qui a Brooklyn, chiamaci immediatamente, arriveremo subito, okay?”
“Ma…”
“Mi raccomando, e cerca di tenerti fuori dai guai” ammiccò ed uscì velocemente di casa, chiudendosi la porta alle spalle. Rimasi in piedi nel mio soggiorno con il bigliettino ancora in mano. Sarà stato il mal di testa, sarà stata la conversazione assurda, ma ci misi un po’ a riprendermi dai miei pensieri.
“Cosa…cosa è appena successo?” mi passai una mano sul viso e, confusa, andai in camera mia, le parole di Natasha ancora nei miei pensieri.
 
 
Dopo un paio di giorni nei quali la mia mente acuta e penetrante si applicava per giungere inevitabilmente alla conclusione sbagliata, decisi di entrare in azione. Feci un respiro profondo prima di incamminarmi per le strade innevate. Come al solito, non c’era nessuno, sotto la luce dei lampioni si intravedevano fragili fiocchi di neve. Camminai da un vicolo all’altro, senza sosta, senza meta. Mi sentii osservata, seguita.
“Forse non è stata una grande idea…” borbottai, riprendendo la strada di casa a passo veloce. Nel buio della sera, sentivo solo il battito feroce del mio cuore e gli scarponi che affondavano nella neve.
Mi guardai intorno, non c’era nessuno, eppure il mio stomaco si contorceva.
“Tutto ciò è ridicolo, non posso andare avanti così” mi fermai sotto la luce di un lampione.
Alla mia destra c’era un muro di mattoni, alla mia sinistra una fila macchine parcheggiate. C’eravamo solo io e il battito del mio cuore che rimbombava nella mia testa.
Tirai fuori dalla tasca una catenina metallica, due targhette incise tintinnarono. Feci un respiro profondo, alzai una delle due targhette sotto la luce del lampione per leggerne l’incisione.
“James…James Buchanan Barmes? 3255 7038, sergente James Buchanan BaAH!”
Qualcosa mi scagliò contro il muro, togliendomi il fiato. Una mano gelida mi strinse per la gola, boccheggiai disperatamente alla ricerca d’aria. Aprii gli occhi a fatica, la mancanza d’ossigeno mi offuscava la vista, ma riuscii a focalizzare un cappuccio scuro e due occhi furenti, grigi come il mare d’inverno.
“James… Ja…James” la mia voce era roca, sentivo la presa stringersi e i miei sensi affievolirsi. I suoi respiri erano feroci, gli occhi velati dall’ira.
“Bucky?” caddi ai piedi del muro, tossendo e massaggiandomi la gola. I polmoni mi bruciavano per lo sforzo, l’aria mi mancava per i continui colpi di tosse.
“Io n-non… io non…cosa ho…” lo vidi indietreggiare, avevo pochi secondi prima che mi sfuggisse.
“Hey…Bucky? Bucky, resta con me, va tutto b-bene…guarda” mi alzai a fatica, appoggiandomi al muro dietro di me. Lo guardai negli occhi, due occhi completamente diversi da quelli di pochi secondi fa. Ora che aveva indietreggiato, riuscii a vederlo grazie alla luce del lampione. Era un ragazzo, non tanto più grande di me. Aveva lo sguardo terrorizzato, mortificato. La fronte era madida di sudore, il viso sofferente. Gli porsi una mano, piano, lui la guardò.
“Mi chiamo Leyla, puoi fidarti” fece un passo indietro, maledizione. Stava per fuggire, potevo sentirlo, e non volevo assolutamente che ciò accadesse. Mi venne in mente un’idea, provai a infilare una mano in tasca, piano. I suoi occhi seguivano ogni mio movimento, tirai fuori una bustina logora verde e bianca, gliela porsi.
“Ecco, vedi? Siamo amici” lui aprì la bocca per rispondere, ma le sue ginocchia cedettero. Riuscii a prenderlo al volo, a fatica, lo presi sotto braccio. Il suo respiro era veloce, scoordinato, sentivo che faceva fatica a reggersi in piedi.
“Devo essere completamente impazzita…” provai ad incamminarmi, un passo dopo l’altro, solo il suo braccio che tenevo attorno alle mie spalle pesava un quintale. Lo strinsi forte, sentivo che faceva del suo meglio per non pesarmi, e ci incamminammo così, per i vicoli di Brooklyn, sotto la neve.

 
  
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