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Autore: Eilanor    31/08/2018    5 recensioni
|STORIA INTERATTIVA| |FANART|
Raccolta di one shots multishiping e create a partire da una fanart inviata dai lettori.
Nessuna ship o fan art è sgradita.
Per partecipare attenersi al regolamento nel primo capitolo.
CAP 1 - scisaac (Photograh)
CAP 2 - sterek (WANTED - Dead or alive )
CAP 3 - sterek (I'll be there for you)
CAP 4 - sciles (Sorry)
CAP 5 - sterek (Oh Darling, what have I done?)
CAP 6 - thiam (People help the people)
CAP 7 - sterek (Poison)
|RICHIESTE APERTE|
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: AU, Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Angolo Autrice
Questa storia è nata da un sogno e è stata scritta principalmente per un’amica come una follia estemporanea, perciò prendetela come tale.
Detta amica ha poi insistito (minacciandomi) perché la rendessi pubblica. Ringraziate lei pe questa storia.
Si parla di tematiche delicate e ho cercato di affrontarle col dovuto rispetto, tuttavia se qualcuno dovesse ritenere che questa storia violi il regolamento di EFP o sia poco rispettosa delle tematiche trattate o se sono presenti troppi particolari morbosi, è pregato di farmelo notare e provvederò a censurare o eliminare questa storia.
So che tra voi c’è chi non ha compiuto i diciotto anni perciò vi prego di saltare questa storia, non credo sia adatta a voi.
Per chi dovesse decidere di recensire questa storia: vi prego siate brutali. Non fate passare una delle mie mancanze come autrice.

 
 
Personaggi - Derek, Stiles, Void, Nuovo Personaggio
Coppia - sterek
Rating - rosso
Genere – Angst, Drammatico, Erotico
Note – ///
Avvertimenti – Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate, Violenza
 
 
Dedicata a Allison_Kaiser che ha condiviso con me il suo sogno ed è mia fonte d’ispirazione

 
 
Oh Darling, what have I done?
 

 



«Smettila. Fermati» gemette Derek a mezza voce.

«No» gli sussurrò il ragazzo all'orecchio.

«Sto solo realizzando i suoi sogni... E pure i tuoi» aggiunse spingendosi di nuovo dentro di lui, con un movimento deciso del bacino.

Il respiro di Derek si spezzò per il piacere e il mannaro fu costretto a cercare il sostegno del terreno perché gambe e braccia non riuscivano a reggerlo, i suoi sensi erano offuscati dal piacere che provava.

«Fermati. Non voglio te» e avrebbe aggiunto altro, ma un dito gli scivolò sulla lingua.

Era salato, aveva il sapore del suo piacere sopra.

«Tu non mi vuoi, ma non avresti mai il coraggio di chiedere all'altro...» di nuovo affondò dentro di lui facendolo soffrire e godere insieme.

Gli artigli del mannaro segnarono il pavimento su cui era riverso e dalle sue labbra uscì un verso in cui si mischiavano dolore e piacere.

«Oh, se solo potessi vedere la sua faccia!» gli mormorò maliziosamente all'orecchio «Sta godendo come mai prima e sta piangendo, oh se sta piangendo! Gli spezza il cuore sentire i tuoi gemiti di piacere e sapere che sono io a farteli fare...» una risatina malevola e divertita raggiunse le sue orecchie, attraverso la nebbia dei sensi «Non mi sono mai divertito tanto a scopare qualcuno» di nuovo affondò e di nuovo, Derek, gemette.
 
~♦~
 
«Devo fare pipì»

«Ma non potevi farla in palestra?!»

Jessica gemette sconfortata: lei, Julia e Drew stavano tornando da una lezione di jujitsu massacrante; per di più era il suo turno di prendere la macchina e le toccava scarrozzare i due amici.

“Maledetto il giorno che ho preso la patente” pensò cominciando a cercare con gli occhi un posto dove il suo amico potesse andare in bagno. Tuttavia, non aveva potuto evitarlo: tutti loro abitavano in periferia che a momenti non era nemmeno servita dai mezzi pubblici. Figuriamoci poi se esistevano piste ciclabili! No, prendere la patente era stato necessario.

«Cazzo, Je! Fermati! Vado a farla in un vicolo!» gemette ancora il suo amico.

«Non riesci proprio a trattenerla?!» gli chiese esasperata; non voleva affatto fermarsi, voleva scaricare i suoi amici a casa, tornare alla sua, fare una doccia e infilarsi nel letto. Non chiedeva alto.

Quell’imprevidente del suo amico però aveva deciso di allungarle l’attesa. 

«Je, fermati perché questo è capace di fartela qui» sbuffò la sua amica accasciandosi sul sedile.

Jessica non disse nulla, si limitò a svoltare in una laterale e accostare sul ciglio della strada. Non fece nemmeno in tempo a spegnere il motore che Drew era già fuori dall’ abitacolo.

«Ma cazzo! Qua non c’è un bagno!» la lamentela del ragazzo le fece posare la testa sul volante.

“Dannato lui e dannato il suo bisogno di un posto tranquillo per concentrarsi”

«Non puoi farla nei cespugli per una volta?!»

“Grazie Julia, diglielo tu”

Da fuori venne solo un mugolio sofferente e esasperato.

«Senti, scendiamo e cerchiamo un posto dove possa farla così torniamo a casa.» esalò la ragazza alla fine aprendo la portiera.

Julia le andò dietro sbuffando, ma sapeva che quello era sicuramente il modo più veloce per tornare ciascuno al proprio comodo letto. Raggiunsero il ragazzo che aveva le mani aggrappate all’orlo dei pantaloni e si guardava intorno disperato: non c’era nemmeno l’ombra di un negozio a cui chiedere un favore.
Erano nella periferia della periferia, dove la città non è ancora campagna e il paesaggio è costellato di edifici quasi fatiscenti in cui non sai mai se ci viva qualcuno e debbano essere demoliti il giorno dopo. Intorno a loro c’erano costruzioni grigie in cemento armato che si alternavano a graziose casette in rovina, i cui giardini avrebbero fatto invidia alla foresta amazzonica, quelle in ombra almeno; le case orientate a sud avevano la savana africana prima della stagione delle piogge al posto del giardino.
Cominciarono a camminare vegliati da pali della telefono storti e lampioni che funzionavano ad intermittenza. La luce crepuscolare stava svanendo per lasciare il posto al buio notturno, ma nessuno dei tre era spaventato. Vagarono in quell’alternanza di giungle e savane per un po’, cercando d’indovinare se le case che spiavano senza dare nell’occhio fossero abitate o no. Molte avevano porte e infissi inchiodati con assi di legno per impedire a tossici e vagabondi di usarle come rifugio, andando a assottigliare le possibilità di trovare un angolino tranquillo per fare pipì.

«Cazzo non resisto più!» sbottò Drew, scavalcando una bassa staccionata «Rompiamo una finestra e facciamola in questa»

Jessica osservò Julia seguirlo, poi guardò la casa che avevano scelto il suo amico: era piuttosto grande e sembrava avere due piani, ma era molto malmessa, così come il giardino; la facciata, o meglio quello che poteva vederne, aveva macchie di muffa e crepe per nulla rassicuranti e lei sperò che il tetto non crollasse sulla loro testa. Era una delle poche case circondata da altri edifici con il cortile e, complice il giardino-giungla, Jessica aveva l’impressione di trovarsi in campagna.
Diede un ultima occhiata intorno a loro per vedere se qualcuno li stesse osservando, ma intorno a lei non c’era un’anima e le luci delle case intorno erano tutte spente.
Con un sospiro scavalcò anche lei la rete metallica ritrovandosi immersa nell’erba alta fino alla vita. Un altro sospiro e proseguì seguendo la traccia aperta dai suoi amici verso una macchia di alberelli scuri e contorti.
Aveva raggiunto Drew e Julia due minuti dopo, piena si ragnatele e foglie nei capelli; aveva pure avuto la sensazione di salire perciò si disse che la casa doveva essere stata costruita su un riporto di terra. Forse aveva una cantina o una taverna sotto.

I due stavano osservando le finestre sbarrate da pannelli di legno. Quando la ragazza si era voltata verso di lei aveva un sorriso divertito sulla faccia. “È tempo di mettere a frutto le lezioni di jujitsu” aveva detto prima di sferrare un calcio laterale alla tavola macchiata.
Il rumore era rimbalzato sulle pareti della casa vuota e in un primo momento li aveva bloccati sul posto. Poi dato che non arrivava nessuno, erano stati presi tutti dall’euforia di quella novità assurda. Avevano cominciato ad esercitarsi e a vedere chi sarebbe riuscito a spezzare il pannello.
Perfino Drew aveva dato un paio di calci, ma i bisogni fisiologici erano intervenuti e gli avevano impedito di tentare oltre.
Era stata Jessica a rompere il legno alla fine, con un calcio in cui aveva infuso tutta la frustrazione della giornata, dalle noiose lezioni dell’università alla mancanza di un letto sotto la sua schiena. Il rumore era rimbalzato sulle pareti con la stessa forza di un tuono e di nuovo erano tutti saltati indietro.
Davanti a loro si spalancava la finestra aperta sul buio che regnava all’interno dell’edificio. Era così scuro e denso che la ragazza per qualche istante credette di poter allungare la mano e poterne stringere un po’ nel pugno.

«Finalmente!» esclamò il suo amico riscuotendola.

Drew scavalcò svelto il davanzale prima che lei potesse solo formulare un pensiero coerente. Non riuscì nemmeno ad allungare la mano e afferrarlo per i vestiti e dovette vedere l’inquietante scena della felpa verde e dei capelli chiari fagocitati dal buio.

«Ehi…» Julia le si affiancò dandole una lieve spallata «Andiamo a curiosare anche noi?»

«E se invece lo lasciassimo pisciare in pace? Mmh? Così ce ne torniamo a casa a dormire?»

Nel sentire la risposta della sua amica la bionda alzò gli occhi al cielo e prese ad insistere: ormai il danno era fatto, perciò perché non curiosare? Magari avrebbero trovato qualcosa di divertente o di valore. Dopo quelli ci furono altre svariate ottime ragioni per esplorare quella casa e tanto disse e tanto fece Julia che Jessica cedette per esasperazione.
Stavolta fu lei la prima a scavalcare il davanzale.  Quando mise i piedi a terra rimase ferma qualche istante per permettere agli occhi di abituarsi al buio. Sentì Julia entrare dopo di lei, ma non si voltò e cominciò a guardarsi intorno vedendo i primi dettagli emergere dall’ombra: erano in un corridoio senza finestre, che si apriva dritto davanti a loro e con la carta da parati che si staccava dalle pareti. C’era un freddo umido e il pesante odore della muffa, poi più sotto l’odore sgradevole di acido e di qualcosa in putrefazione.

«Secondo me non siamo i primi ad usare questa casa come bagno» la voce di Julia la fece sospirare di sollievo; non le piaceva l’idea di girare per quella casa da sola.

Sempre che di casa si potesse parlare: ora che la vedeva dentro cominciava ad assomigliare ad una sorta di scuola. Sia a destra che a sinistra sembravano proseguire altri due corridoi ugualmente bui per via delle finestre sprangate, ma non aveva idea di quanto proseguissero.

«Dove sarà Drew? Lo andiamo a cercare?» chiese pensando a che strada potevano prendere.

«Ma lascialo pisciare in pace, va bene che hai una cotta per lui, ma hai davvero così bisogno di vedere il suo uccello?»

«Julia, piantala, io non ho una cotta per Drew. Non voglio vedere il suo uccello e se proprio dobbiamo esplorare la casa non cominceremo dal bagno.»

La voce di Jessica era dura e lei era decisamente stufa di quella stupida insinuazione, non sopportava quando Julia insisteva a dire che l’amicizia tra maschi e femmine non potesse esistere. Era solo preoccupata che potesse trovarlo qualche tossico e che gli facesse del male, era una preoccupazione legittima e che estendeva ad ogni persona a cui voleva bene, era irritante come ogni sua gentilezza venisse sempre travisata da Julia. Non aveva nulla da invidiare allo scemo di turno che scambiava una cortesia per una “prova dell’essere innamorata di lui”.

«Senti, andiamo dritto, meno svolte prendiamo meno è facile che ci perdiamo» decise alla fine avviandosi.

Non le servì voltarsi per sapere che la sua amica aveva appena fatto spallucce e ora la seguiva. Fecero qualche passo in silenzio, sentendo il pavimento scricchiolare, ma sembrava ancora robusto abbastanza da non spezzarsi sotto il loro peso. Ancora qualche passo e posando il piede, Jessica sentì il crepitio famigliare di un foglio di carta.

«Cosa è stato?»

«È solo carta…»

Non l’avrebbe mai ammesso a voce alta, ma cominciava a sentire una certa inquietudine nell’essere in quell’edificio così buio e silenzioso; sembrava un ottimo inizio per un film horror e lei detestava i film horror.

«Aspetta, accendo la torcia del telefono»

“Niente mostri, ti prego niente mostri, ti prego niente mostri o assassini. Ti prego niente morti”

Il fascio luminoso si accese alle sue spalle e illuminò il pavimento rivelando un gran numero di fogli bianchi macchiati dall’umidità. C’erano poi quotidiani, giornali, e quando Julia cominciò a spostare il telefono per guardarsi intorno vide che alcuni sembravano perfino raggruppati per creare un giaciglio. Senza emettere suono Jessica arretrò col braccio teso fino ad incontrare il maglione di morbido cotone della sua amica.

«Sono qui, non preoccuparti» sussurrò Julia, stringendole la mano.

Ora fianco a fianco cominciarono a guardarsi intorno e a procedere. La luce svelava a loro i graffiti sulle pareti, la carta da parati strappata e a terra fogli e giornali di varie epoche. Jessica avrebbe giurato di vedere anche una copia di giornale talmente vecchia da riportare la notizia dell’attacco a Pearl Harbour, ma un rumore proveniente da davanti a loro fece alzare la luce alla sua amica.
Vedevano la fine del corridoio, ma la torcia del cellulare non era abbastanza potente per illuminare con chiarezza cosa c’era oltre l’arco oscuro davanti a loro. Jessica strinse di più la mano dell’amica e si concentrò, ma l’unica cosa che riuscì a cogliere fu forse il riverbero di una luce su un corrimano che portava verso l’alto. Poi sentirono i passi.
Erano alle loro spalle, ancora lontani, ma li sentivano chiaramente, così come le assi che cigolavano sotto il peso di chi li faceva.
Julia le piantò le unghie nella carne del palmo e coprì la torcia con un dito. Di punto in bianco si ritrovarono al buio, cieche e disorientate.

«Cosa facciamo? E se arrivano anche da davanti?» il sussurro spaventato di Julia fa raggelò; era sempre estremamente facile per lei farsi prendere dal panico se c’era già qualcuno agitato.

«Non fare rumore» sussurrò spaventata quanto lei.

Si mossero piano per spostarsi contro il muro alla loro destra cercando di non far scricchiolare i giornali e trattenendo il respiro. I passi intanto continuavano ad avvicinarsi. I loro occhi tornarono ad abituarsi al buio, ma questo non le aiutava: tutto ciò che vedevano sembrava loro un assassino pronte ad ucciderle.
Quando finalmente raggiunsero il muro i passi sembravano ormai essere arrivati all’inizio del corridoio.

«Ho qualcosa contro la schiena»

«Zitta!»

«Mi fa male!»

«Taci! Scorri lungo la parete e allontaniamoci.»

Julia si mosse e Jessica la seguì stupendosi del suo sangue freddo. Eppure era terrorizzata e aveva il cuore in gola, come po-

«Ahia!»

«Visto?!»

Il suo fianco aveva sbattuto contro qualcosa di solido, probabilmente di metallo. Incuriosita nonostante tutto, lasciò la mano della sua amica che con un respiro strozzato si aggrappò alla sua maglia.
Sì, era decisamente una maniglia. Poteva dirlo anche al buio.
Quindi alle loro spalle c’era una porta.
Forse avrebbero potuto nascondersi in quella stanza.

“Però non ho visto porte mentre ci avvicinavamo” pensò la ragazza con un angolo della sua mente; tutto il resto della stessa era impegnato ad abbassare a maniglia senza fare rumore.

«Non puoi fare più in fretta?!» sibilò la bionda accanto a lei.

Jessica si fermò per dirle qualcosa, ma cambiò idea quando sentì i suoni della casa: i passi si erano fermati. Subito voltò la testa per guardare alla finestra e con orrore vide un ombra scura stagliarsi nella luce.
Il resto fu tutto molto veloce.
Il cellulare cadde dalle mani di Julia che tentò invano di afferrarlo, facendo un gran baccano. Come se non bastasse la torcia le illuminò permettendo a chiunque fosse alla finestra di vederle. Perché nel sentire quel rumore, l’ombra si era girata.

In preda al panico lei aveva fatto l’unica cosa che le veniva in mente: aprire la porta e chiudersi dentro. La porta però non si apriva.
Provò varie volte ad abbassare la maniglia cigolante, ma la porta restava dov’era. Poi sentì i passi dell’ombra avvicinarsi in una leggera corsetta.
In quel momento per se completamente la sua lucidità: prese la rincorsa e diede una spallata alla porta proprio mentre Julia gridava per la sorpresa. Il legno gemette, ma non cedette.
Di nuovo prese la rincorsa e si lanciò verso quella che sembrava la loro unica salvezza.
La serratura cedette di schianto, facendola finire a terra. Atterrò sul fianco con un grugnito di dolore. La sua amica si precipitò dentro stringendo il telefono in mano; la aiutò a rialzarsi e poi corsero entrambe verso la porta, intenzionate a chiuderla a forza.
L’ombra però le aveva raggiunte e curvando puntò loro una luce in faccia.
Jessica e Julia strillarono abbracciandosi per lo spavento, ma anche l’ombra strillò e lo fece in una voce piuttosto famigliare.

«Ma che cazzo avete da gridare?!»

Sulla porta, con il cellulare in mano, c’era Drew.

«Ma sei scemo?!»

«Non potevi dirci che eri tu!?»

«Ma cosa ne sapevo che eravate voi?!»

Restarono a guardarsi tutti e tre col fiato corto e il cuore che batteva all’impazzata.

«Perché siete entrate?» chiese alla fine il ragazzo sbloccando la situazione.

«Avevamo deciso di dare un’occhiata mentre ti aspettavamo» gli rispose la bionda raddrizzandosi.

Jessica non disse nulla e si limitò a togliersi la polvere e lo schifo dalla maglia.

«Beh, allora esploriamo un altro po’, tanto io ho fatto.»

Jessica guardò prima uno poi l’altra, basita: avevano appena preso un accidente e loro volevano continuare ad esplorare invece di tornare a casa? Davvero?

«Dalla tua parte c’era qualcosa d’interessante?» chiese Julia alzando il telefono per vederlo meglio.

«No, ho solo trovato una stanza con un materasso per terra e un tavolo e un bagno in cui-»

«Sorvoliamo!» esclamò Jessica mettendosi le mani nei capelli.

«Niente. Non ho visto niente. Però avevo una certa urgenza da sbrigare, quindi potrei essermi perso qualcosa» si corresse Drew.

«Ok, allora dopo ci torniamo.» decise la loro amica per tutti loro «Cominciamo a cercare in questa camera»

Subito entrambe le luci si mossero, illuminando le quattro pareti e quello che contenevano: sembrava che fossero entrati in uno studio, le cui pareti erano piene di librerie colme di libri impolverati e il pavimento era coperto di fogli bianchi. C’erano due finestre coperte da assi inchiodate e Julia si mosse per vedere se poteva aprile e far entrare un po’ di luce.
I fogli sul pavimento erano alcuni imbevuti d’acqua e altri macchiati, mentre al centro della stanza c’era un tavolo rotondo coperto di altre pagine. A sinistra c’era un divano pieno d’umidità, muffa e probabilmente insetti; forse davanti a quello c’era un camino ma non andarono a controllare. Jessica si avvicinò incuriosita al tavolo, attirata dall’aspetto antico della carta, che sembrava essere lì da più tempo della casa stessa; forse era addirittura pergamena o papiro. La ragazza stese una mano per prenderne uno in mano, ma come lo toccò fece un salto indietro e si portò la mano al petto, spaventata: il foglio bruciava.
Sempre più sorpresa e spaventata si accorse che il tavolo ora era scuro, come se i fogli fossero scomparsi. Intimorita, tornò ad avvicinarsi e con molta cautela stese la mano; sentì la carta sotto le dita, di nuovo calda, ma non così tanto da bruciare.

Raccolse un foglio e so lo portò vicino al viso per vedere cosa era successo. Si aspettò che si sbriciolasse, perché sembrano carbonizzati (forse qualcuno li aveva bruciati? Questo avrebbe spiegato il calore e il colore) ma non successe. Quando riuscì a distinguere qualcosa fu scossa da un brivido: sullo sfondo scuro c’era una croce bianca rovesciata e dietro questa croce, quasi fosse messo in prospettiva, c’era una figura umana sdraiata. Le proporzioni erano così perfette che Jessica si aspettò che si alzasse e si avvicinasse a lei.

«Che graffiti strani»

Il borbottio di Julia le fece alzare gli occhi e subito cercò la luce del suo telefono; era fissa su uno dei pochi spazi non ricoperti da librerie e anche lei notò le scritte sulla parete macchiata di muffa; erano fatti con vernici, carbone, incisi e alcuni erano in un color ruggine che ricordava terribilmente il sangue secco. Per di più a lei non sembravano graffiti, ma simboli e parole.

«Tu che hai trovato?» chiese la sua amica spostando al luce proprio mentre lei cercava di decifrare qualcosa.

Stava per dirle di tornare a illuminare la parete, quando la vide raccogliere un foglio e il suo cuore saltò un battito: Julia aveva la pelle particolarmente delicata, bastava un niente per farle venire le vesciche o dei lividi.
La ragazza però non gridò di dolore, anzi rimase a guardarlo con un sorrisetto sulle labbra.

«Carino questo ragazzo, guard- ah!»

Per un secondo, Jessica di nuovo temette che si fosse fatta male, ma il suo era un verso di sorpresa e persisteva a guardare il foglio con gli occhi sgranati. Svelta, lei la raggiunse e cercò di capire a cosa fosse dovuto il suo comportamento.

«È cambiato di colpo, non me l’aspettavo» balbettò voltandosi verso di lei.

Senza indugiare oltre, spostò gli occhi dal viso della sua amica al foglio. Solo per scoprire che era simile al suo: aveva una croce rovesciata nera su sfondo bianco e sempre in una prospettiva perfetta c’era una figura umana; stavolta era sdraiata con la schiena a terra a con le gambe sollevate come se fossero appoggiate al muro, ad imitazione della lettera L.
Lei e Julia si scambiarono uno sguardo: entrambe sentivano il richiamo maledetto della curiosità.
Presero a toccare ogni foglio. Ogni volta che ne sollevavano uno le due figure si spostavano nel foglio, per Jessica l’Uomo sdraiato, per la sua amica, l’Uomo-elle, ed ogni volta si facevano sempre più vicini alla croce.
Toccarono ogni foglio sul tavolo finchè non ne rimase solo uno. Lo guardarono con un misto di timore e curiosità, senza sapere chi delle due dovesse sollevarlo.
Fu Julia ad allungare la mano e portarselo più vicino al viso, ma non successe nulla, il foglio restava scuro. Dato che non succedeva nulla, lei lo passò alla sua amica, ma nel momento esatto in cui le dita di Jessica afferrarono il foglio, la carta rivelò l’immagine.
Come la videro lasciarono cadere il foglio con un grido e arretrarono entrambe spaventate.
Il foglio era diviso in diagonale con la solita alternanza di bianco e nero e la croce capovolta, ma stavolta l’Uomo era in primo piano e le osservava da dietro la croce con un ghigno raccapricciate.

«Ma che cazzo avete da gridare come oche?»

Drew abbandonò le finestre che non era riuscito a liberare dalle assi e si avvicinò al tavolo. Loro rimasero in silenzio, impietrite dallo spavento. Il ragazzo le ignorò e decise di vedere da solo perché motivo avessero gridato; raccolse il foglio che avevano praticamente lanciato via e lo illuminò col telefono.

«Certo, fa schifo, ma non mi sembra il caso di gridare: sono solo due froci che s’inculano, mica altro»

Jessica e Julia si guardarono stupite poi corsero a vedere i fogli sul tavolo: si erano trasformati di nuovo. Ora al posto della figura inquietante e delle croci c’erano immagini (o foto?) di due ragazzi in atteggiamenti più o meno intimi.

«Che schifo…» borbottò la sua amica unendosi al disgusto di Drew.

Lei invece non disse nulla, sentendo il suo imbarazzo crescere ad ogni foglio che sollevava. A lei non facevano schifo, anzi, ma le sembrava di violare la privacy dei ragazzi sui fogli; qualsiasi cosa fossero, i soggetti erano sempre loro.
Si trattava di un ragazzo castano, con un taglio di capelli che in molti avevano e dalla pelle chiara coperta di nei; era poco più basso dell’altro ragazzo. Lui era moro e dalla carnagione più scura di quella del ragazzino (non poteva avere più di diciotto anni, sembrava così giovane su quei fogli) ed era palesemente più grande, o forse sembrava così a causa della barba che aveva. Non riusciva a vedere il colore degli occhi di nessuno dei due, ma poco importava: erano le posizioni ad attirare la sua attenzione.

In un foglio, il ragazzo più alto stava dietro il castano e gli copriva gli occhi, mentre l’antro aveva le mani giunte in preghiera o in una sua parodia priva di ironia; poi notò i disegni sulla loro pelle, forse dei tatuaggi tribali o altri disegni dal significato a lei sconosciuto, ma era difficile distinguerli senza una luce. Forse era un rito satanico. Jessica rabbrividì al pensiero che forse il moro stava per sgozzarlo, visto come era esposta la gola del ragazzino.
Prese un altro foglio già immaginandosi il più giovane in una pozza di sangue, ma quando mise a fuoco l’immagine dovette trattenere un gridolino di sorpresa: chiunque avesse scattato quella foto o dipinto quell’immagine aveva fermato i due giovani in un momento molto intimo. Svelta mise giù quel foglio e ne raccolse un altro.
Su questo i due erano schiena contro schiena ad occhi chiusi e dal petto del moro usciva qualcosa di luminoso in forma di lupo, mentre dal castano aveva un ombra raccapricciate che usciva dal petto e Jessica non avrebbe saputo dire a che assurdo animale somigliasse. Intimorita, posò il foglio e dopo un istante d’esitazione raccolse il foglio di prima, assicurandosi che Julia non l’avesse notata.
L’immagine era estremamente sensuale, al punto da farle tremare le gambe e farle venire i brividi nella parte bassa della schiena. Era più che palese che i due stessero facendo sesso; il moro era a gattoni, con la schiena inarcata e il sesso turgido su cui sembrava luccicare qualche goccia di liquido, offrendo accesso all’altro. Il castano era sdraiato sulla schiena del giovane con il pene probabilmente affondato tra le sue natiche e un dito che gli scivolava sulla lingua. Jessica non riusciva a staccare lo sguardo e beveva ogni dettaglio con gli occhi; il ragazzo aveva la testa posata sulla spalla del moro ma più la osservava più aveva l’impressione che il ragazzo la stesse osservando.

“Starà guardando chi ha fatto questa… foto?”

Foto.
Non riusciva a pensare a una parola che descrivesse meglio quel foglio tanto era realistica l’immagine. Poi qualcosa attirò la sua attenzione e scrutò la pagina che teneva in mano. Era lì da qualche parte quel dettaglio, ma non riusciva a trovarlo.
Poi il castano voltò la testa verso di lei e le sorrise.
Un sorriso malvagio, vittorioso e gli occhi brillavano di un luccichio crudele.
Jessica sentì il sangue gelarsi nelle sue vene. Il ragazzo mosse la mano spingendo le dita più a fondo nella bocca del moro e mosse le labbra come se stesse parlando, ma lei non sentì nulla. Però il giovane che lui si stava scopando sentì perché spostò gli occhi su di lei.
Erano liquidi di piacere e lui sembrava mezzo appagato, ma c’era qualcosa che stonava. Era innegabile che stesse godendo, ma i suoi muscoli erano tesi, contratti, e lo sguardo aveva una sfumatura dolorosa.
Poi il castano mosse il bacino e diede una spinta secca. Gli occhi del moro si spalancarono per il dolore e il castano allargò il suo ghigno fino a scoprire i denti.
Nella bocca aveva zanne scure.
 
~♦~
 
«Ti piace Derek? So che ti piace, non puoi mentirmi»

«Non mi piace»

«Bugiardo»

«Mi fa schifo»

«No, ti piace.» un sussurro nel suo orecchio e una lingua sulla pelle «E ti piace essere guardato mentre ti scopo»

Il corpo si coprì di pelle d’oca e gli occhi vagarono alla ricerca dello spettatore.
Fu un secondo, ne colse l’immagine per una frazione di secondo, poi il dolore esplose nuovo e fresco nel suo corpo e nella sua mente.

«Ti piace.»

«Non. Mi. Piace. »

Ogni parola che il moro diceva era una spinta dentro di lui che lo spaccava a metà, rinnovando ogni volta il dolore.
Ogni nuovo affondo era il retto che veniva lacerato; gli lasciava il tempo necessario perché il suo corpo rimarginasse la ferita per poi spingersi di nuovo dentro di lui e aprire un nuovo taglio.

«Dillo che ti piace» la voce del ragazzo gli feriva le orecchie, non voleva sentirla, lo faceva sentire sporco e impotente.

Perché lui stava godendo. Sotto il dolore sempre rinnovato c’era un barlume di piacere e si faceva schifo per questo. Al dolore si aggiungevano la nausea e la pelle d’oca che il tocco di quelle mani gli procurava.
E non poteva fare nulla per fermarlo.

«Avanti, Derek. Dillo che ti piace»

Quel sibilo nell’orecchio gli provocò un conato.
 
~♦~
 

Quando vide il castano spingersi dentro il giovane lasciò andare il foglio con un gridolino e le guance in fiamme.

«Che succede?» Drew puntò la luce su di lei e attese una risposta.

«So- solo un ragno» mentì Jessica sentendosi complice dei due ragazzi.

L’avevano vista, ne era certa, eppure non avevano esitato a continuare, forse intrigati ed eccitati da quell’imprevisto. Ed intrigata ed eccitata si sentiva pure lei, anche se lo sguardo del moro non lasciava la sua mente. Era così sbagliato, non era lo sguardo di qualcuno che si sta davvero godendo quello che stava facendo.

“E se…”

L’eccitazione lasciò il posto al disgusto e la schiena si bagnò di sudore freddo.
Drew si era girato verso Julia e si erano rimessi a ridere delle varie immagini e a fare versi di disgusto, senza nemmeno sapere quanto era disgustoso quello che stavano vedendo.

“O magari è così che a loro piace…” cercò di convincersi, perché non voleva credere che ciò che poteva aver visto fosse davvero ciò che pensava.

Doveva vederci chiaro.
Doveva guardare di nuovo quei due che scopavano.
Di nuovo l’assalì un misto d’eccitazione e nausea, che le diede l’orribile sensazione d’essere sporca come fosse anche lei complice di ciò che stava guardando.
Un ultimo sguardo ai suoi amici e s’inginocchiò per ritrovare il foglio; recuperò il cellulare dai jeans e con la luce dello schermo cercò l’immagine di prima, ma non ce n’era traccia.

«Ti prego devi aiutarmi»

Per poco non le cascò il telefono dalle mani quando sentì quella voce nella sua testa.
Le ci vollero circa dieci secondi per recuperare l’autocontrollo sufficiente a proseguire la ricerca. Solo che del foglio non c’era traccia.

«Ti prego, devi aiutarmi»

Abbassò gli occhi incontrando quelli nocciola del ragazzo più giovane. Un brivido le percorse la schiena.
Il castano era su un foglio, solo, e le sue labbra si muovevano sillabando le parole che sentiva nella sua testa. Era appoggiato ai bordi del foglio, come se fosse una porta o una finestra e si sta rivolgendo direttamente a lei, che lo fissava impietrita.
Aveva la guance arrossate, la pelle umida di sudore e gli occhi lucidi. Sembrava una persona totalmente diversa dal ragazzo di pochi secondo fa, avrebbero essere potuto essere due persone distinte tanto erano diversi i loro comportamenti.

«Devi aiutarmi» ripeté per poi gemere e mordersi le labbra.

Una mano corse al cavallo dei pantaloni, stringendo l'erezione più che evidente. Il suo respiro era affannato e corto, si sarebbe aspettata che i suoi occhi fossero liquidi di piacere e desiderio, o maliziosi, ma lasciarono invece scivolare due lacrime sulle guance.

«Fermalo» sussurrò per poi gemere di nuovo, mentre le sue ginocchia cedevano. «Fermalo, gli sta facendo del male» la supplicò mentre un'altra lacrima si aggiungeva alle altre.
 
~♦~


«Cedi» gli sibilò nell'orecchio, sfiorandoglielo con le labbra.

«Godi» mormorò stingendo di più le dita sulla sua gola.

«No. Non ti voglio»

Derek aveva il fiato corto e il membro teso, inerme nella mani del ragazzo.
Le labbra del giovane ora gli torturavano la pelle sul retro del collo, suggendola e lasciando rosse tracce del suo passaggio. Di punto in bianco si fermò, lasciando anche la sua gola dove erano ben evidenti i segni violacei dove le sue dita l'avevano stretta.

«D’accordo; se non vuoi godere tu, godrò io»

Gli bloccò un braccio dietro la schiena facendolo grugnire di dolore e non contendo gli si spinse dentro con forza facendolo gemere di nuovo.

«Oh, Derek... Nemmeno ti immagini quanto stia soffrendo Stiles» sospirò il giovane, facendo più forza sul suo braccio. Si sentì uno scricchiolio sinistro.

Derek, sul pavimento su cui era premuto, strinse i denti, cercando di resistere al dolore che sovrastava il piacere.
Il castano rise dei suoi sforzi, come se fosse una delle cose più appaganti mai viste.
 
~♦~
 
«Devi aiutarmi!» gridò Stiles dal foglio, col volto congestionato dal godimento ma soprattutto dalla sofferenza. Aveva le mani sulla sua erezione, ancora coperta dai pantaloni, e se la stringeva come se volesse impedirsi di provare piacere, piacere che arrivava dalla sofferenza del moro.

«Devi fare qualcosa, gli sta facendo del male!» gridò in ginocchio davanti a lei. «Se serve ammazzami, fregatene di me! Non-» con un gemito il castano si piegò su se stesso con un mugolio, quasi il suo piacere fosse sofferenza.

Jessica non riusciva a staccare gli occhi da ciò che stava vedendo troppo sorpresa e curiosa. Una parte di lei sapeva che la sua era un’attrazione morbosa per qualsiasi cosa stesse accadendo del foglio, ma non riusciva a distogliere lo sguardo.

«Non lasciare che gli faccia altro male» ansimò lui alzando appena il capo; un filo di saliva pendeva dalle sue labbra.

La ragazza lasciava vagare gli occhi sulla figura nel foglio incapace di anche solo comprendere cose dovesse fare per aiutarla. Era cosciente che stesse succedendo qualcosa di brutto al ragazzo ma non sapeva che fare e nemmeno chi fosse o dove fosse.
D'improvviso il suo corpo cominciò a farsi evanescente stupendo entrambi.

“E ora che cazzo succede?!”

Allibita, guardò il castano dritto negli occhi, sperando che potesse spiegarle cosa stava succedendo, ma non sembrava saperne più di lei. Il ragazzo osservò pieno di terrore le sue mani farsi trasparenti, poi la fissò negli occhi, terrorizzato.

«Devi spezzare il suo incantesimo!» le urlò gettandosi verso di lei, ma cade: anche i piedi erano svaniti.

Si rialzò puntellandosi sui gomiti; perdeva sangue dal naso e dal labbro.

«È come un tangram, uno di quegli assurdi rompicapi.» anche i gomiti svanirono e di nuovo la sua faccia sbatté sul pavimento «Devi rompere l'incantesimo, ricomponi la croce!» gridò facendo leva solo sui muscoli dorsali

Il suo volto era una maschera di sangue, lacrime e disperazione.

«Ti prego, salvalo» sussurrò flebilmente prima di svanire.

Di lui sulla pergamena non restava tracia; c'era solo una croce bianca su sfondo nero e Jessica rimase stordita a fissare il foglio in silenzio.
 
~♦~
 
«Sai cosa sarebbe ancora più divertente Derek?» gli chiese tirandogli i capelli per costringerlo a guardarlo in viso «Se lui potesse vederti ora»

L'espressione sul volto di Derek divenne terrore puro.
Il ghigno sul viso del castano si allargò fino a scoprire le zanne.
 
~♦~
 
Quando la sua coscienza riemerse, la prima cosa che sentì fu il gemito di dolore sotto di lui, poi la pelle e i capelli sotto le sue dita. Quando aprì gli occhi, Derek era sotto di lui con gli occhi serrati e i denti digrignati nel vano tentativo di trattenere i gemiti di dolore. Infine il braccio del giovane piegato in una posizione decisamente troppo innaturale per non fare male e a tenerlo fermo una mano.
La sua mano.

«Guarda chi c'è Derek» cantilenò una voce, la sua voce.

Era lui a parlare, ma non era lui.
Derek spalancò di colpo gli occhi, quei bellissimi occhi verdi che tanto amava.

«Stiles?» chiese spaventato cercando i suoi occhi da quella posizione allora premuto sul freddo pavimento di pietra di quella chiesa diroccata.

Cercò di lasciarlo libero, di parlargli, ma non successe nulla.
Una risata isterica spezzò il silenzio che si era creato. La sua risata.

«Sì, ora c'è anche lui con noi»

Il ragazzo sentì le sue guance tendersi in un ghigno malvagio, ma l'unica cosa che lui provava era il terrore per la sorte di moro.

«Andiamo Derek, fagli sentire i tuoi gemiti» la sua voce sibilò dalle sue labbra.

Stiles sentì il suo bacino indietreggiare per poi spingersi con forza contro e dentro il ragazzo che tanto aveva desiderato, strappandogli un grugnito di dolore, mentre lui sentiva una scarica di piacere irradiarsi per tutto il bassoventre.

«Derek» sussurrò divertita la sua voce «Se ti ostini col tuo mutismo mi costringi a passare alle maniere forti»

La sua mano aumentò la pressione sul braccio del mannaro.
Ci fu il rumore di un osso che si spezzava, poi un grido di dolore puro.
Il grido di Derek.
 
 
Avrebbe voluto gridare ma non aveva labbra per farlo. Avrebbe voluto chinarsi per toccarlo e rassicurarlo, ma non aveva mani per farlo.
L'unica cosa che aveva erano occhi per vedere come la persona che amava soffriva e orecchie per raccogliere i suoi gemiti.
 
~♦~
 
Jessica ancora guardava basita il foglio che stringeva in mano. Sentiva le guance calde per tutto ciò che aveva visto; era tutto conturbante e malato, la faceva sentire sporca e sbagliata, ma non riusciva ad allontanare le immagini che aveva visto dalla sua mente.

“Eppure sono appena uscita da palestra. Sono sobria. Non mi drogo…”

Niente. Nulla aveva senso.
Però era tutto reale, anche Julia aveva visto le prime trasformazioni dei fogli. E le immagini dei due amanti. Perfino Drew le aveva viste quelle.

«Ehi, sono sparite. Tutti i fogli sono neri con una croce bianca sopra»

Jessica si rialzò e guardò i suoi amici confusa. Doveva saltarci fuori, doveva almeno trovare una spiegazione per ciò che aveva visto.

«Avete visto qualcosa di… strano?» chiese loro.

Era una domanda stupida e dalla risposta palese, ma voleva capire quanto avessero visto e quanto potessero aiutarla.

«Strano?! Ma li hai visti pure tu i fogli!» sbottò Julia «Prima c’era quel tizio inquietate e poi-»

«Poi sono apparsi i froci» s’intromise Drew.

La ragazza dovette mordersi la lingua per non mangiargli la faccia; non aveva idea del motivo per cui il suo amico avesse queste uscite omofobe che la ripugnavano e spaventavano, e ogni tanto si chiedeva se dovesse allontanarsene.

Con uno sbuffo, Julia riprese a parlare: «sì, i froci e poi di nuovo queste croci che-»

Si bloccò a metà frase osservando il foglio che ancora sventagliava in giro.

«Che roba è questa?» ora era Drew ad essere confuso, ma le altre due non erano da meno.

Jessica svelta osservò e rigirò il foglio, finché non notò un simbolo al centro della pagina. Aguzzando la vista notò qualcosa anche verso il lato lungo del foglio. Era piuttosto rovinato, ma si riusciva a capire che era stato fatto con foglia d’argento. Restava il mistero di che si trattasse.
Si mise a girare il foglio in varie angolature finché non si trovò a convincersi che il disegno al centro della pergamena fosse un occhio. La cosa le diede i brividi perché subito si sentì osservata. Alzò lo sguardo sui suoi amici, ma erano ancora persi a frugare tra i fogli.
Fece un lungo sospiro e si mise a cercare tra quelli che aveva più vicino a lei. Ne voltò un paio e al terzo trovò nuove linee argentate, poi si mise a frugare tra i fogli del tavolo. In meno di un minuto ne aveva altri quattro in mano.

«Ragazzi, ho trovato dei fogli strani, mi aiutate a cercarli?» fece quella richiesta senza aspettarsi nulla: Julia e Drew non erano grandi appassionati di misteri. Non quanto lei almeno.

«Più strani delle foto di prima?»

Jessica annuì; «Ci sono delle linee argentate sopra, ma per ora non dicono nulla. Magari trovandone altri scopriamo qualcosa d’interessante»

«Tipo?» chiese il suo amico incrociando le braccia.

Drew era sempre stato quello più venale e scettico, se non aveva un ritorno da ciò che poteva fare non muoveva un dito.

«Non possiamo saperlo finché non troviamo più pagine. Magari è un disegno antico» inventò per stimolarlo.

Il ragazzo ci pensò qualche secondo, poi si mise a frugare tra le carte sul tavolo. Julia lo stava già facendo da un pezzo.

~♦~
 
«Non farlo guardare» lo supplicò Derek.

Non aveva speranze contro uno spirito potente come il Nogitsune, lo sapeva, lo sapeva da quando si era rivelato dopo aver rubato il corpo del suo amato. L'unica cosa che poteva fare era sperare che finisse presto in un modo o nell'altro. E ora, con un braccio spezzato, su quel freddo pavimento, l'unica cosa che poteva fare era supplicare quell'essere che lasciasse il ragazzo che amava fuori da quell'orrore. Il mostro era di un'altra opinione però.

«E perché? Nemmeno sai quanto mi piace il suo dolore»

Disperato, Derek si rivolse direttamente al suo ragazzo.

«Stiles, ti prego non guardare, non ascoltar-» le sue parole si trasformarono in un urlo. Il Nogitsune gli aveva spostato bruscamente il braccio per godere della sua sofferenza.

«Guarda Stiles» sussurrò chinandosi sul suo volto «Guarda come soffre la persona che ami»

Il moro chiuse gli occhi rifiutando quel contatto, per vergogna o per dolore.

«Derek, guardami negli occhi» gli ordinò freddamente, ma lui stupidamente li serrò.

«Derek» la mano lasciò i suoi capelli e si posò sulla scapola «Ho detto guardami»

Il dolore fu così inaspettato e bruciante che gli mozzò il fiato. Gli sembrava di avere lame di fuoco che gli percorrevano i muscoli della schiena.
La mano tornò a tirargli i capelli e stavolta obbedì, incontrò i suoi occhi. Incontrò gli occhi di Stiles.

«Bravo ragazzo» sussurrò il Nogitsune.

Poi gli si appoggiò sulla frattura.
 

L'urlo di Derek riecheggiò sulle pareti della chiesa, fino a che il mostro non decise di rialzarsi, lasciandolo sfiancato ed inerme, con la gola che bruciava.
Distrutto, si arrese alle sofferenze inflittegli da quella bestia.
Per un istante osò incontrare gli occhi di Stiles e si pentì di averlo fatto: erano davvero i suoi, c'era anche lui in quel corpo. Come erano diversi ed in contrasto col ghigno sulle sue labbra.
Quando lui ricominciò a spingerglisi dentro non oppose resistenza; chiuse gli occhi è pregò che tutto finisse presto.

"Allora Stiles?! Te l'eri immaginato così il suo culo mentre ti segavi?".

Tutti i rumori arrivavano ovattati dietro la cortina del suo dolore sordo.

"Ti piace scoparti Derek Hale?!"

Una goccia, due gocce, gli bagnano la pelle.
Tre gocce, quattro gocce cadono sulla sua pelle.

"Non ti piace Stiles?!"

Una lacrima, due lacrime sfuggono ai suoi occhi verdi.
 
~♦~
 
Le pagine erano ormai una ventina, ma il disegno nel complesso non si capiva. Erano apparse linee, simboli, ideogrammi, ma nulla che potesse aiutarli a capire a cosa servissero.

“Ma io cosa diavolo sto facendo? Perché sono ancora qui a cercare di capire questa cosa? Dovrei chiudere tutto e andarmene a casa a dormire…” però Jessica non fece nessuna delle due cose. Rimase invece china sul tavolo e sui fogli che avevano raccolto, studiandoli.

“Che idiozia! Nemmeno so cosa devo fare! Manco li conosco ‘sti due poi!” eppure non si mosse, concentrata sulle linee argentee.

«Je, tu ci stai capendo qualcosa?»

Nemmeno registro chi dei due le avesse fatto la domanda, si limitò a scotere il capo troppo concentrata per dedicargli più attenzione di così.
Persisteva a dirsi che avrebbe dovuto andarsene e fregarsene di quei tre sconosciuti, che non la riguardava, che qualsiasi cosa stesse succedendo non erano responsabilità sua, e alla fine ci riuscì. Riuscì a raddrizzarsi e a allontanare gli occhi dalle pergamene.

«Diamo a mucchio?» le chiese Drew, più che stufo, e lei annuì.

Con un sospiro la ragazza diede un ultima occhiata al tavolo e già stava girando la testa quando i suoi occhi colsero un particolare che il suo cervello non collegò subito.

“È come un tangram! Ricostruisci la croce”

Le parole del ragazzo riecheggiarono nella sua testa e per un secondo le sembrò di sfiorare le soluzione.

“Tangram, tangram… ma che cazzo è un tangram?!” si domandava aguzzando la vista. “E perché cazzo io ancora insisto a-”

Eccolo.
L’aveva trovato: il particolare che sbloccava la situazione.
Chissà come, chissà perché, c’erano due fogli le cui linee si erano unite e avevano acquistato un senso. Non che lei lo capisse o l’avesse mai visto prima, ma quelle linee formavano un disegno. E certo poteva essere un caso, ma poteva verificarlo piuttosto velocemente. Le sue mani cominciarono a muoversi rapide confrontando linee e scartando fogli, sotto lo sguardo sorpreso dei due ragazzi.

“È un puzzle, nulla di più di un puzzle” si ripeteva assorta in quel lavoro e in poco tempo si ritrovò davanti ad un cerchio fatto di simboli sconosciuti e linee concentriche e parallele.

Sul tavolo restavano pochi fogli, ma nessuno sembrava avere senso nel disegno che si era formato. Sulla pergamena scura c’erano solo linee e forme geometriche, nulla che si potesse inserire.

“È un tangram, è un tangram!!” le parole continuavano a tornare nella sua mente.

Le sue mani ripresero a muoversi incerte spostando i fogli in un vano tentativo di capirci qualcosa. Aveva già sentito parlare di tangram, ma non ricordava di cosa si trattasse né tanto meno di come funzionasse. Però spostando e abbinando quelle forme la punta delle dite la formicolava, come se ci scorresse della magia.
Era assurdo, la magia non esisteva, come poteva scorrere in quelle pergamene e nelle sue dita? La magia era solo una fesseria per chi non conosceva scienza e buona solo per creare pretesti per film horror.
Eppure quando aveva accostato al quadrato due triangoli aveva avuto la chiara impressione di essere osservata. Erano solo forme geometriche, ma aveva la sensazione orribile di avere davanti a sé un viso.
Davanti ai suoi occhi tornarono le immagini del giovane moro sovrastato dal castano con quel suo ghigno orribile, poi il viso disperato e stravolto del ragazzo. Chiuse gli occhi e inghiottì la bile che le era risalita in gola. Quando li riaprì, aveva davanti agli occhi la faccina geometrica e malevola.

«Je, stai bene?»

La voce di uno dei suoi amici le giungeva da un posto lontanissimo e nemmeno sapeva dire a chi appartenesse. Allungò la mano verso le ultime pergamene, tremante ma implacabile; si sentiva investita da una missione di estrema importanza e di cui non afferrava il senso.
Spostò uno dei triangoli più grandi verso quel volto che ai suoi occhi somigliava sempre più ad un muso, intenzionata a formare il corpo di quella creatura. Come fu sistemata venne assalita da una visione orribile: il giovane era bloccato a terra con la bocca semi aperta in un gemito che non sentiva e gli occhi vitrei e bagnati di lacrime; sopra di lui, il castano con un ghigno malvagio a sfigurargli i lineamenti altrimenti belli, che gli affondava dentro.
Davanti a lei tornarono le pergamene insieme ad una nausea forte. Doveva aiutarlo, non conosceva nulla del moro, nemmeno il nome, ma non poteva lasciare che quella tortura continuasse. Spostò un altro foglio e fu assalita da nuove visioni e fu così ad ogni foglio che andava a costruire la creatura, finché non rimase che un parallelogramma che Jessica non riusciva a capire dove inserire.
Lentamente lo avvicinò alle altre forme, intenzionata a fare delle prove, ma la visione che le apparve davanti agli occhi fu strana. Era vicina alle due figure, ma nessuno si muoveva.

«Derek?»

La voce tremula del castano s’insilò nelle sue orecchie come se stesse sussurrando a lei quelle parole.

«Derek?» ripetè sfiorandogli la spalla.

Il moro in tutta risposta s’irrigidì e rimase muto. Il ragazzo si chinò su di lui e prese ad accarezzarlo piano, sussurrandogli parole di conforto.

«Derek, sono io. Sono Stiles.» deglutì e riprese a parlare incerto. «Sto riprendendo il controllo del mio corpo, tra poco ti lascerò stare… ti prego, Derek, guardami. Sono io»

Il giovane, timoroso, accontentò quella supplica e si trovò a guardare negli occhi in ragazzo che ancora era dentro di lui. Non riuscì ad articolare nessun suono per quanto muovesse le labbra, probabilmente chiamandolo per nome.

“Deve essere sotto shock” pensò lei.

«Andrà tutto bene, Derek, ora… ora mi sposto, poi andremo a cercare aiuto e…»

Mentre parlava, il ragazzo si muoveva cercando di sportasi senza fare del male al moro, immobile ma sembrava più calmo. Il castano si era appena raddrizzato e aveva afferrato i fianchi del giovane per spingersi fuori e lui aveva risposto con un gemito teso. L’altro aveva proseguito con una smorfia addolorata e molta delicatezza, e ormai stava per uscire; mancava ormai solo la punta.
Con un movimento deciso il bacino del castano, il ragazzo che aveva detto di chiamarsi Stiles, tornò a spingersi dentro il moro, Derek, che aprì la bocca in un grido che uscì come un rantolo.
Il castano lo guardava terrorizzato e con gli occhi sgranati; sembrava non capire cosa stesse succedendo. Il giovane steso a terra fece per girare il capo, la mano di Stiles gli bloccò il collo e lo costrinse viso a terra. Da dove si trovava Jessica riusciva perfettamente a vedere il terrore negli occhi di Derek.
Di nuovo Stiles uscì e affondò di nuovo nel moro, che emise un gemito soffocato.

«Ti prego no»

Un sussurrò quasi inudibile che non si sapeva a chi era diretto. Il sussurro di Stiles.

«Ti prego non farlo. Basta, basta, smettila! Non ti ha fatto nulla! Prendi me, prendi me al suo posto!»

Lo gridava a pieni polmoni ma il suo corpo continuava a ferire quello di Derek, mentre l’orrore era dipinto sul viso del ragazzo.
Jessica era impietrita, non riusciva a fare nulla se non guardare quelle sevizie. Sentiva la nausea rivoltarle lo stomaco e la bile bruciarle la gola. Con un moto di frustrazione e di schifo mosse la mano per allontanare ciò che vedeva e incredibilmente quella scena svanì.
Incredula si guardò intorno, scoprendo di trovarsi ancora nella casa abbandonata; i suoi amici la guardavano straniti.

«Che ti è preso?» le chiese Julia.

«Solo… solo ragnatele…» balbettò lei chiedendosi cosa avesse fatto o detto mentre vedeva quella scena.

«E quella strana bestia che hai creato?» stavolta era stato Drew a parlare, e aveva accennato col capo alle pergamene.

Jessica confusa abbassò lo sguardo sui fogli, trovando un’accozzaglia di forme che stranamente le ricordava una volpe.

«Sembravi allucinata»

Jessica aprì la bocca per rispondere, ma sulle pergamene scivolarono immagini di catene sinuose come serpenti che si avvolsero intorno alla figura della volpe, facendoli sussultare e saltare indietro.

«Ora le allucinazioni le abbiamo tutti» sussurrò Julia che cominciava ad essere spaventata davvero.

Si mosse un po’ indietro e ruppe qualche vetro calpestandolo; subito si chinò per vedere di che si trattasse e si rialzò con un sorriso sollevato.

«Eh beh, mi sembra normale avere delle allucinazioni se sei sotto l’effetto del crack» e mentre parlava illuminò i cocci di quello che era facile riconoscere come una pipa; dai cocci si alzò perfino un filo di fumo.

Spaventati fecero tutti un salto indietro e Drew si mise a parlare e muoversi nello stesso momento.

«Non intendo passare un secondo di più in questo covo di drogati, usciamo!»

Jessica era ancora imbambolata a guardare le pergamene quando il ragazzo l’afferrò per un braccio e se la trascinò dietro, mentre spingeva Julia in avanti e malediceva la propria vescica. La ragazza blaterava qualcosa sulle possibilità che la casa fosse infestata, ma lei riusciva a pensare solo ad una cosa.

“Davvero è stata solo un’allucinazione da drogati?”
 
~♦~
 
Tutto si era fermato e il silenzio era spezzato solo dal respiro affannato e sofferente di Derek. Con cautela, Stiles mosse una mano, poi un piede. Accertatosi che finalmente riaveva il possesso del suo corpo, uscì dall’amato, che gemette piano, un riflesso automatico dopo tutte quelle sevizie. Il castano osservò il corpo martoriato del giovane sul pavimento: il braccio rotto, i graffi sanguinanti sulla sua schiena e il sangue che colava tra le natiche. Il moro non tentò nemmeno di alzarsi o muoversi.
Era fermo, in attesa di nuovo dolore.



 



A Stiles si strinse il cuore e subito si chinò piano su di lui, ma come gli sfiorò la spalla, Derek s'irrigidì immaginando che fosse ancora il Nogitsune. Con un nodo in gola e il cuore spezzato, l’altro gli accarezzò piano la spalla e chiamò il suo nome con tutta la dolcezza di cui era capace.
Il moro aprì gli occhi e lo guardò intimorito. Faceva pietà: era pallido, col viso coperto di sudore freddo e spaventato.

«Stiles?» chiese con un filo di voce. Probabilmente non avrebbe retto ad un altro inganno come quello di prima, quando il Nogitsune gli aveva sciolto la lingua e concesso si usare le sue labbra. Nessuno dei due avrebbe retto.

«Si, Derek, sono io.» mormorò in risposta, mentre le sue lacrime cominciavano a cadere sulla schiena del moro «È finita, l'incantesimo è stato spezzato» ingoiò il nodo in gola e le lacrime successive «Guarda, ho il controllo del mio corpo» aggiunse mostrandogli una mano.

Ora era sicuro di essere libero aveva sentito quel mostro venir strappato via dal suo essere per tornare ad essere prigioniero della dimensione in cui era sto relegato in precedenza.
Con un sospiro il corpo di Derek si rilassò, ma non c'era pace su suo volto, solo rassegnazione. Il Nogitsune era riuscito a spezzarlo e ora il suo amato restava sdraiato e sconfitto su quel freddo pavimento.

«Ti prego, basta...» lo supplicò chiudendo gli occhi e cominciando a piangere piano. «Ti prego...» singhiozzò stringendo i denti.

"Che ti ho fatto amore mio?" Pensò il castano, sconvolto a quella vista.
 
~♦~
 
Restarono in quella chiesa due settimane, sperando che il moro si riprendesse abbastanza e che guarisse, ma non successe. Sembrava che Derek non riuscisse ad indurre il recupero della salute, probabilmente a causa di quello che aveva subito.
Erano state due settimane lunghe ed estenuanti, fatte di silenzi e di lacrime, di tocchi gentili e di scatti per sottrarsi a quei tocchi; due settimane in cui Stiles si era preso cura di Derek con la morte nel cuore, lavandolo e medicando le sue ferite, cercando di toccarlo il meno possibile perché il moro rabbrividiva e sul suo volto appariva uno sguardo spaventato ogni volta che lui stendeva la mano.
Erano state due settimane in cui Stiles aspettava che Derek dormisse, o fingesse di farlo, per allontanarsi e piangere, per sfogare il dolore di ciò che aveva inferto a colui che amava e lo amava. Due settimane che si erano concluse quando Derek aveva allungato tremante la mano e aveva afferrato la sua.

«Dobbiamo andare» aveva mormorato evitando i suoi occhi.

Il ragazzo era rimasto in silenzio ad osservarlo mordersi le labbra per quasi un minuto, senza osare muoversi, godendo ancora del suo tocco sulla pelle. Derek non l'aveva ancora lasciato andare.
Era stato quando Il moro lo aveva guardato dritto negli occhi che era quasi scoppiato a piangere: era uno sguardo timoroso da animale ferito, ma era per lui, voleva lui. Stiles aveva sentito gli occhi farsi lucidi e in cuore battere all'impazzata nel suo petto. Era impossibile che non lo sentisse anche lui.

«Ho bisogno che mi porti via di qui» aveva sussurrato il moro cercando di mantenere il contatto visivo.

Stiles aveva ingoiato le lacrime e aveva fatto un cenno d’assenso.
Prima gli aveva steccato il braccio rotto, cercando di evitare che le sue dita toccassero la sua pelle. Poi lo aveva aiutato ad alzarsi sulle sue gambe incerte e lentamente s'erano incamminati senza una meta, cercando solo una casa da cui poter chiedere aiuto.
 


Ci vollero due giorni per raggiungere la civiltà, due giorni di silenzi nervosi e occhi sfuggenti.
Quando tornarono a Beacon Hills fu scontato dirigersi al loft, senza dire nulla a nessuno, per leccarsi le ferite, senza che nessuno sapesse di loro.
Si sistemarono nell’appartamento senza dire nulla a nessuno, fu una cosa naturale, non ebbero nemmeno bisogno di parlarsi per deciderlo. Avevano bisogno di tempo per guarire le loro anime, lontano dalla presenza soffocante del branco e dalle loro attenzioni.

Derek si sistemò nella camera che era stata di Cora, mentre Stiles decise di dormire sul divano, vergognandosi troppo per osare chiedere al moro anche solo una coperta o un cuscino dopo quello che gli aveva fatto. Per due notti dormì raggomitolato su se stesso, patendo il freddo e la scomodità della stanza. Poi, la mattina del terzo giorno, si svegliò a pomeriggio inoltrato un panno a coprirlo e un cuscino davanti a lui.

Derek sfuggiva ancora ai suoi occhi e al suo tocco, ma non gli era possibile più di tanto: il suo braccio non guariva e aveva bisogno del ragazzo per ogni cosa. Vestirsi, mangiare, lavarsi: non poteva fare nulla senza il suo aiuto.
Ogni volta che lo toccava, il moro rabbrividiva, con dolore del castano. Lui faceva del suo meglio per non toccare la sua pelle, ma era difficile. Quando mangiavano teneva gli occhi bassi, evitando i suoi, nonostante mangiassero dallo stesso piatto: dopo che il Nogitsune l'aveva drogato, Derek non riusciva più a fidarsi di Stiles e non riusciva a mangiare se non aveva la pallida certezza che il cibo fosse sicuro. Per capirlo ci erano voluti tre giorni di digiuno e un'ustione sull'avambraccio, quando Derek aveva tentato di cucinare per sé mentre lui era fuori.
Quando, tornato a casa, il castano l'aveva visto tenere il braccio sotto l'acqua fredda credeva che non avrebbe potuto sentirsi peggio di così, anche se avrebbe dovuto ricredersi.
Tirando su col naso e asciugandosi rabbiosamente le lacrime si era messo a cucinare sotto gli occhi del moro, poi aveva versato tutto in un solo piatto, mangiandone qualche boccone, per poi offrirne uno a lui, sulla punta della forchetta. Solo in quel momento, passato un istante d'esitazione, Derek aveva ripreso a mangiare.
 
~♦~
 
Il peggio era stato quando i graffi sulla schiena di Derek si erano infettati. Erano settimane che non riuscivano a pulirli a dovere perché nessuno dei due riusciva a gestire le sue emozioni: Derek prendeva a tremare per la paura e a volte Stiles aveva dei flash, in cui si sentiva di nuovo prigioniero nel suo corpo e doveva allontanarsi dal moro.
La prima volta che era successo gli si era rivoltato lo stomaco per lo schifo di sé e a stento era riuscito a raggiungere il bagno. Quella volta però dovette farsi violenza ed ignorare le emozioni di entrambi.
L’aveva trovato verso le tre di notte nel suo letto, in un bagno di sudore, che batteva i denti e gemeva senza nemmeno rendersene conto. La pelle del suo viso era cerea, aveva delle profonde occhiaie e lo sguardo sbarrato.
Stiles si era spaventato e per istinto gli aveva toccato la fronte facendolo trasalire: era bollente. Con un nodo in gola aveva cominciato a levargli le coperte di dosso, avendo un sospetto molto preciso di cosa avesse causato la febbre, gliene serviva solo la conferma.

«Fermati» aveva detto con un gemito il moro rabbrividendo al contatto con l'aria.

«Non posso» gli aveva risposto il castano sentendo un dolore al petto.
Non avrebbe mai voluto costringerlo a fare qualcosa che non voleva, che gli ricordasse quello che gli aveva fatto subire, soprattutto ora, ma se non l'avesse fatto le conseguenze sarebbero state ben peggiori.

«Stiles, fermati» l’aveva supplicato col terrore nella voce quando lui gli aveva alzato la maglia scoprendogli la schiena.

Il ragazzo si era sentito morire dentro sentendo le suppliche del moro, ma aveva ragione: le ferite sulla schiena si erano infettate e andavano pulite, qualsiasi cosa dicesse Derek, non si poteva evitare.

«Stiles, fermati!» l’aveva supplicato un po' più forte.

«Mi dispiace Derek non posso» aveva insistito l’altro con voce tremula.

«Ti prego...» una preghiera con un filo di voce, forse sul punto di rompersi.

«Non posso Derek» gli aveva risposto con voce rotta «Devi alzarti. Dobbiamo pulire le ferite»

Il moro tremando l’aveva assecondato, forse per paura, forse perché riusciva a capire che il suo rifiuto era dettato dalla necessità. Arrivarono fino al bagno dove Stiles aveva deciso che il modo migliore per liberarsi del grosso dell'infezione era lavarla via con l'acqua.
 
Stiles era di fronte al moro e sapeva che avrebbe fatto un sacco di cose che nessuno dei due avrebbe voluto fare o subire, ma non potevano fare altrimenti. Aveva già il senso di colpa che gli creava un nodo in gola, ma cercò di farsi forza e si avvicinò al suo innamorato. Con il respiro tremante, cominciò, tentò di levargli la maglia con gesti concitati, ma Derek cercò di opporre una debole resistenza afferrandone il bordo.


 


«No» gemette spaventato, senza rendersi conto di dove si trovava.

«Der-»

«No» insistette lui a capo chino e coi denti digrignati e un pallido tentativo di zanne.

Anche Stiles strinse i denti e con uno strattone liberò l'orlo e gli levo la maglietta.

«No, non farlo» gemette ancora, più spaventato «Ti prego...»

«Ti prego no» gemette quando il ragazzo afferrò saldamente l'orlo dei pantaloni; il moro mise le mani sulle sue e per un istante Stiles credette che avrebbe dovuto combattere per levarglieli, ma a distrarlo dai suoi ragionamenti arrivò la fronte bollente di Derek premuta contro la sua.

«Ti prego, no» lo supplicò ancora con gli occhi serrati e la mani strette debolmente sulle sue.

Era da quando il Nogitsune li aveva seviziati che i loro visi erano così vicini.
Alla vista del volto del suo amato sofferente e stravolto, Stiles scoppiò in singhiozzi e lasciò l'orlo dei suoi pantaloni. Le sue mani corsero alle sue spalle e lo costrinse ad indietreggiare fino a farlo trovare sotto il soffione.

«Mi dispiace» mormorò tra i singhiozzi, facendo scivolare il volto lungo la guancia, il collo e trovando infine l'incavo della spalla; il moro specchiò i suoi movimenti senza diminuire la tensione dei suoi muscoli, ancora terrorizzato e col braccio rotto stretto al petto.

«Mi dispiace...» ripeté allungando la mano fino ad aprire il rubinetto.

Poco importava se lui era ancora vestito con la sua felpa dismessa e i jeans, mentre Derek portava ancora i pantaloni del pigiama.
Derek grugnì di dolore quando l'acqua toccò le sue ferite, ma Stiles non gli permise di allontanarsi, abbracciandolo più stretto.

«Lo so, lo so, fa male, ma devi resistere» mormorò seguendo la linea del collo e poi della mascella col naso, ritrovandosi vicinissimo alla sua bocca.

«Stiles, fa male…» gemette in tono lamentoso ma stringendoglisi contro.

«Lo so Derek, resisti, resisti che starai meglio» gli mormorò mentre le lacrime si mescolavano all'acqua della doccia che li stava inzuppando.

«Stiles, brucia!» esclamò spalancando i suoi splendidi occhi verdi e guardandolo dritto nei suoi.

Il ragazzo subito allungò una mano per capire se davvero l'acqua era davvero troppo calda ma la sentiva tiepida, anche troppo fredda per i suoi standard.

«Cosa brucia? Cosa ti fa male?» gli chiese tornando in un attimo ai suoi occhi.

Per qualche secondo credette che il moro avesse le allucinazioni e che vedesse la sua casa bruciare a causa degli occhi persi e vuoti.

«La schiena... La schiena mi brucia da morire» gli rispose stringendo i denti.

Non sapendo neppure perché Stiles si lasciò scappare un sospiro di sollievo, per poi tornare a concentrarsi sul moro

«Derek, devo alzare la temperatura e la forza del getto, devi resistere» gli disse cercando di suonare deciso, ma stava soffrendo pure lui per il suo amato; una lama nella carne avrebbe fatto meno male.

«Non resisto» gli disse lui.

«Devi» gli ripeté.

«Non resisto, non senza distrarmi» gemette.

Stiles intanto aveva alzato il rubinetto e Derek grugnì di dolore e morse il tessuto della sua felpa per impedirsi di gridare.

«Derek, resisti» disse facendo vagare le mani su di lui alla ricerca di un punto dove poterlo afferrare senza fargli male, finendo per fermarsi con le mani sulle sue spalle.

«Resisti ancora un minuto» lo supplicò parlandogli all'orecchio e poi premette la sua testa contro la sua, ma Derek decise di muoversi.

Mentre il vapore cominciava a calare su di loro, il moro percorse con le labbra il suo stresso percorso, lungo la spalla la linea del collo, quella della mascella, fino a catturare le sue labbra, aprendogliele e infilandoci la lingua. Fu così inaspettato che Stiles lasciò la presa sulle sue spalle e subito Derek catturò le sue mani, stringendole tra le sue.
Stiles non si ribellò, avrebbe potuto spezzargli un polso che non avrebbe osato lamentarsi, si meritava ben di peggio per quello che il suo corpo gli aveva inferto.
Derek lo fece voltare e lo premette contro il muro, forse mettendoci più forza di quello che avrebbe voluto, ma il castano riuscì nell'impresa di non fare un fiato nonostante avesse sbattuto su qualcosa di metallo.
Ora erano entrambi sotto il getto d'acqua calda, mentre il vapore li avvolgeva e le loro labbra non si erano ancora separate un secondo, baciandosi voracemente, con l'acqua che scorreva sui loro volti e si mischiava alla loro saliva nelle loro bocche, privandole del loro sapore.
Le mani di Derek smisero di tenergli bloccati i polsi e scivolarono sui suoi palmi fino a trovare le dita che intrecciò con le sue.

«Perché?» gemette lui sulla sua bocca.

Le labbra di Derek si erano allontanate quanto bastava per porre quella domanda a cui nessuno dei due sapeva o voleva dare risposta. Gli occhi del giovane erano persi in quelli del ragazzo, febbricitanti. Senza dire una parola tornò a baciarlo togliendogli l’aria.
Non ci fu bisogno d'altro: Stiles si lasciò baciare mentre il mannaro riprendeva con lo stesso doloroso ardore e stringeva di più le sue mani. La sua bocca lasciò le labbra del moro, per seguire una via che conosceva solo lui lungo la mascella, il collo, la gola, depositando baci e morsi delicati lungo il suo cammino.

«Derek» gemette vicino in suo orecchio mentre il mannaro gli baciava la gola e lo spingeva di più contro il muro.

«Derek» gemette ancora.

Il moro lo ignorò e gli morse la pelle del collo troppo forte, facendogli male, ma lui non glielo disse.

«Derek» lo invocò di nuovo, mentre la voce gli si spezzava e si scioglieva in lacrime.

«Derek, ti-» il moro gli tappò la bocca con la sua e si spinse ancora di più contro di lui, facendolo mugolare.

Fu un bacio lungo passionale, ma Stiles non riusciva a levarsi il pensiero che l’avesse fatto solo per zittirlo.

«Derek…» lo chiamò piano, col respiro affannato come se avesse corso una maratona.

Il moro non disse nulla ed evitò i suoi occhi nascondendo il viso nell’incavo del suo collo.

«Derek, perché mi hai zittito?» il moro non aveva detto nulla e non si era mosso.

Le lacrime cominciarono a scendere lente dai suoi occhi: quel silenzio era un’ammissione, un’ammissione dolorosa che lui non l’amav-

«Non ci riesco» Stiles deglutì a vuoto, ascoltando la voce già rotta del suo innamorato. «Non ci riesco. Non riesco a sentirtelo dire e a non pensare che sia il Nogitsune a parlare…. Fa troppo male, non voglio sentirlo. Ti prego, non voglio sentirtelo dire…»

Non era difficile indovinare che Derek stesse piangendo contro la sua felpa fradicia e pesante, ma questo non attenuava il dolore di nessuno dei due.
Stiles era poco meno che annichilito dalle sue parole. E il bacio? Cosa significava quel bacio? Perché l’aveva fatto? Era solo per non dover ascoltare? Cosa significava per lui? Avrebbe voluto fargli queste e altre domande ma il mannaro si allontanò da lui con lentezza inesorabile
Derek lo lasciò andare e barcollando fece un passo indietro; il castano invece scivolò lungo il muro della doccia che ancora la bagnava. La sua mente era vuota riusciva solo vagamente ad afferrare quello che era appena successo.
Lui e il moro si scambiarono uno sguardo sgomento, senza sapere cosa dire o che fare.

«Io torno in camera» mormorò il mannaro muovendosi incerto sulle gambe; il ragazzo rimase fermo sotto il getto d’acqua senza sapere come reagire.

Si rialzò intontito, spense la doccia e osservò quasi in trance la traccia lasciata da Derek. Non poteva certo dormire bagnato e doveva ancora pulire le ferite. Si prese solo il tempro per strizzare i suoi vestiti e per raccogliere degli asciugamani che vide nella stanza e svelto lo seguì con la morte nel cuore. La porta della camera da letto era accostata così Stiles la spinse piano, intenzionato a non spaventare Derek.
Si trovò davanti uno spettacolo pietoso: il mannaro era intento a sfilarsi i pantaloni e l’intimo, ma non ci riusciva, il braccio rotto rendeva tutto più difficoltoso; per di più ora riusciva a vedere bene la schiena del moro. Era coperta di graffi arrossati e gonfi, dall’ aspetto infetto.
Svelto posò gli asciugamani sul letto e s’inginocchiò accanto a Derek, portò le mani sull’orlo dei sui pantaloni, ma come il mannaro sentì il suo tocco si girò di scatto e lo afferrò per i capelli, facendolo gemere. Stiles però non si sottrasse a quel gesto, rimase in attesa di ciò che avrebbe fatto il mannaro, cercando di mostrarsi il più remissivo possibile. Cos’era quella tirata di capelli in confronto a ciò che aveva fatto patire al moro in fondo?

«Ti tolgo i vestiti bagnati e poi ti pulisco le ferite» mormorò piano sentendo la mano del moro che veniva scossa da un tremito leggero.

«Derek non ti farò del male, ti prego, credimi» gli disse anche se sapeva che non era quello il problema, non quello maggiore. Derek non riusciva ad accettare di essere toccato.

Il giovane non diceva nulla, ma non lo allontanava nemmeno, così Stiles decise di ritentare di levarglieli, piano, per non spaventarlo.
Aveva appena abbassato il bordo quando la stretta di Derek sui suoi capelli si fece più forte e il castano dovette bloccarsi di nuovo; alzò gli occhi su di lui trovandolo cereo, ma era impossibile dire se fosse a causa della febbre o della paura. Detestava vederlo così, ogni volta era come ricevere uno schiaffo in faccia e vedersi sbattere davanti agli occhi fino a che punto l’aveva traumatizzato.
Il ragazzo deglutì la saliva e si allungò per prendere un asciugamano e spiegatolo lo porse al moro. Quello lo guardò esitante mentre le sue labbra, notò Stiles, tremavano e assumevano una sfumatura violastra.
Alla fine il mannaro cedette e lo prese portandoselo davanti al sesso.
Stiles stando attento gli levò i pantaloni e l’intimo insieme e con tutta la delicatezza di cui era capace legò l’asciugamano sui fianchi del suo amato. Il giovane però non si stese a letto e rimase ad osservarlo, ben sapendo che non poteva stendersi.

«Per favore, fammi vedere la schiena»

Derek esaudì la richiesta del ragazzo barcollando e con lo sguardo vacuo; sussultò quando la punta delle dita dell’umano sfiorarono la sua pelle ed irrigidì i muscoli per non scappare. Stiles cautamente gli fece sapere che avrebbe dovuto toccarlo cercando di essere il più discreto possibile, ma sentendo la reazione del mannaro sotto le sue dita si trovò costretto ad ingoiare le lacrime.
Erano settimane che era sempre sull’orlo di una crisi di nervi, l’ultima cosa che poteva essere utile al moro per stare meglio, e si detestava per non riuscire ad avere un maggior controllo sulle sue emozioni. Perché era scontato che Derek sapesse, sapesse del disgusto di sé che provava, di tutti i suoi pianti, del suo terrore, della sua angoscia; le sue emozioni appestavano l’aria della casa del giovane e non facevano che rendergli più difficile la guarigione.

“Calmati o peggiorerai la situazione”

Doveva estrarre l’infezione dalle ferite di Derek o non sarebbe mai guarito così si fece forza e, messosi un asciugamano sulle spalle, prese a premere sui gonfiori lungo le ferite.
Era un lavoro penoso e lungo, ogni grugnito del moro era un pugno dello stomaco per lui: aveva giurato di non fagli più del male e ora aveva infranto quel suo giuramento parecchie volte, non importava che fosse necessario, lui non voleva far soffrire Derek mai più.
 


Dopo un’ora abbondante il ragazzo gettò infine l’asciugamano a terra e stabilì che le ferite erano pulite.
Pulite, non disinfettate. L’infezione non era ancora debellata, forse avrebbe dovuto pure dargli un antibiotico e non aveva idea di come avrebbe potuto procurarselo. S’impose di pensare ad una cosa per volta, perciò si diresse di nuovo in bagno e poi in cucina nella speranza di trovare qualcosa per disinfettare le ferite. Speranze che ovviamente s’infransero al confronto con la realtà.
Derek era un mannaro e come tale non aveva nessun genere di medicamento in casa. Stiles aveva sperato che ne avesse comprati quando avevano cominciato a frequentarsi, visto la facilità con cui si faceva male, ma forse non aveva nemmeno fatto in tempo a formulare un pensiero del genere.
Perciò ora si trovava in cucina, aggrappato al bancone, cercando di capire cosa poteva fare. Lo sguardo vagava fino a che non si fermò su un pacchetto di sale rimasto aperto. Gli venne in mente una delle poche lezioni davvero utili della prof di biologia, “Come pulire e disinfettare gli strumenti senza disinfettante”. Bastava solo un po’ di acqua, sale e limone. Avrebbe anche potuto usare l’aceto, ma non ne avrebbe trovato in casa: a Derek faceva schifo.
Preparò l’intruglio pregando di non sbagliare le dosi e ripromettendosi di procurarsi un disinfettante serio quanto prima, poi tornò veloce al capezzale del moro.

«Derek…»

«Abbiamo finito?»

Il mormorio esausto del giovane lo interruppe e lo costrinse a prendersi qualche secondo per calmarsi. Ogni volta che piangeva restava sull’orlo delle lacrime per ore, bastava pochissimo a farlo piangere di nuovo.

«Purtroppo no» gli rispose posando il bicchiere col disinfettante sul comodino «Le ferite sono pulite, ma non abbastanza. Questo è il meglio che sono riuscito a fare… dovresti andare da un medico e farti dare un antibiotico»

Le dita del moro artigliarono il lenzuolo con cui si era mezzo coperto. Stiles lo sapeva che non ci sarebbe andato, non c’era bisogno che lo dicesse ad alta voce.

«Brucia?»

Il mannaro si era voltato verso di lui con la testa e occhieggiava il bicchiere. A quella domanda, il castano sospirò rassegnato.

«Non ne ho idea. Non so nemmeno se funziona. Non ho avuto idee migliori.»

Derek non disse altro, nascose il viso nel cuscino e sopirò in segno di resa. Stiles perciò riprese il suo penoso lavoro.
 


Venti minuti più tardi aveva finito e il mannaro non aveva detto una parola. Il ragazzo non si era nemmeno azzardato a chiedergli se gli facesse male, la vergogna gli cuciva la bocca. Gli diede un ultimo sguardo; sembrava tranquillo: era riverso sul fianco, attento a non appoggiarsi sul braccio che persisteva a restare rotto, e respirava piano. Stiles si convinse che si fosse addormentato dato che aveva gli occhi chiusi, ma quando provò ad alzarsi il moro lo afferrò per un polso facendolo sussultare.

«Resta» mormorò con gli occhi lucidi per la febbre, e al ragazzo non sembrò vero che glielo chiedesse o che lo stesse toccano.

Poi lo stomaco gli si annodò, pensando alle conseguenze che avrebbe potuto avere sul suo amato restare con lui in un momento del genere.

«Non credo sia una buona idea…» provò a dire ma il mannaro scosse la testa e aumentò la forza nella sua stretta.

«Resta» insistette, con gli occhi allucinati «Ho… ho sognato… cose.»

Non c’era bisogno che Derek specificasse cosa avesse sognato, Stiles lo poteva immaginare perfettamente.

«Proprio per questo non dovrei restare» cercò di suonare calmo e ragionevole, ma il moro scosse la testa gli mentre quelle parole uscivano dalla sua bocca.

«Stiles resta» il giovane deglutì la saliva e aprì di nuovo la bocca per parlare ma le parole non vennero fuori.

Dopo qualche secondo, Derek chiuse occhi e bocca e tornò ad appoggiarsi al cuscino. Il castano si aspettò che lasciasse la presa, ma diminuì solo la forza che ci metteva.

«Ho bisogno che tu sia qui. Quando finisce…» di nuovo il moro si bloccò, ma il ragazzo non gli mise fretta. Era una delle frasi più lunghe che avesse pronunciato in quei giorni; si era perfino dimenticato di respirare tanto era concentrato sulle parole del mannaro.

«Quando finisce sono terrorizzato e ho paura anche solo a respirare. Ti prego resta. Forse… forse puoi fare qualcosa…» gli occhi di Derek tornarono ad aprirsi e si fissarono nei suoi.

Sapeva che era un grosso azzardo, che poteva peggiorare la situazione e dargli la sensazione che il suo incubo non fosse finito, ma restare solo coi suoi incubi era peggio. Lo sapevano entrambi. Così Stiles cedette e si sedette a terra accanto al letto. Derek, poco dopo, si addormentò esausto.
Passò forse un’ora o due ad ascoltare il respiro del ragazzo che amava, apparentemente sereno, con la testa e la schiena appoggiate al muro, quando il moro si accigliò e cominciò a gemere nel sonno. Subito, l’umano gli si avvicinò, ma esitò a svegliarlo, sperando che l’incubo finisse o per paura di spaventarlo ancora di più. Alla fine riuscì a superare il disagio del toccarlo e lo scosse lievemente, facendo forza sul fianco esposto.

La risposta di Derek fu rapida e spaventosa: come aprì gli occhi e lo vide, il braccio sano scattò verso di lui. Gli afferrò la gola ancora prima che Stiles potesse capire cosa stesse succedendo e se ne rese conto solo quando sentì gli artigli del mannaro bucargli la pelle.
Era raggelato, ma provava una sorta di calma mentre succedeva; se l’era meritato, aveva fatto del male a Derek e lui giustamente era spaventato e si difendeva. Non gli passò nemmeno per la testa di difendersi o provare a fermarlo, nemmeno a parole.
Incredibilmente non si ritrovò riverso in una pozza di sangue con la gola squarciata, ma a guardare sorpreso e atterrito il viso del ragazzo che amava con gli stessi sentimenti negli occhi. La mano che lo soffocava si spostò sulla nuca, sfiorandogli la guancia e l’espressione sul viso febbricitante di Derek si fece addolorata. Non voleva fargli del male, anche dopo tutto quello che gli aveva inferto lui. Lo stomaco del castano si annodò per il rimorso.
La mano del moro tremava, ma non si allontanava, se lo tirò leggermente più vicino addirittura. Il ragazzo non ne capì il motivo a assecondò il movimento senza fermarsi a farsi domande inutili, finendo per trovarsi vicino al volto del moro, già bagnato di sudore.

«Ti asciugo la fronte» sussurrò piano per non dargli troppo fastidio.

Il moro chiuse gli occhi e fece un lieve cenno d’assenso pima di riaprirli. Il castano stese la mano per prendere sia la bottiglia d’acqua vicino al comodino che uno degli asciugamani abbandonati poco distanti e, inumiditolo, prese a tamponare delicatamente la pelle del mannaro. Lo faceva con estrema delicatezza, senza fretta, come se stesse pulendo l’opera d’arte più fragile e meravigliosa della terra. Cosa non troppo lontana dalla realtà per lui. Derek non si lamentò, né sfuggì ai contatti involontari, rimanendo ad osservare il vuoto con uno sguardo vacuo.
Stiles poi decise che lasciargli l’asciugamano umido sulla fronde gli avrebbe fatto piacere, così lo piegò per bene e dopo averlo inumidito di nuovo, glielo sistemò sul capo, ma con sua sorpresa, il mannaro lo prese in mano e prese a passarglielo sul collo.
Il castano per qualche secondo sentì solo il cuore salirgli in gola e il ventre scaldarsi, per poi darsi della bestia: il collo era un suo punto debole, gli era sempre piaciuto che Derek lo toccasse lì o lo baciasse, ma non poteva provare quel misto d’eccitazione aspettativa ora che il moro era ridotto in quelle condizioni. Per causa sua.
Quelle sensazioni furono sostituite, da un nodo in gola e da un pizzicore agli occhi e al naso, che peggiorò quando realizzò che il mannaro stava ripulendolo dal sangue che gli aveva involontariamente fatto versare. Gli ci volle tutto il suo autocontrollo per non scoppiare in singhiozzi e comunque il giovane si era accorto perfettamente del suo stato d’animo.

«Vieni a letto?»

Fu solo un sussurrò, ma il ragazzo lo sentì forte come se glielo avessero urlato nelle orecchie. E annuì, non si pose il problema che potesse essere spaventoso per il mannaro. Semplicemente gli rimise l’asciugamano sulla fronte e gli si sdraiò accanto, sopra le coperte e lasciandogli spazio per muoversi. Non dissero altro per quella notte.
Stiles dormì poco e male, sdraiato su un fianco e ascoltando il sonno del ragazzo steso alle sue spalle. Nemmeno lui dormì bene: ebbe si sonno agitato per gran parte della notte, tormentato dalla febbre e dagli incubi che spesso lo svegliavano. Più di una volta il ragazzo si sentì afferrare il braccio o la spalla e gli artigli del moro pungergli la pelle, ma non se ne lamentò. Derek non lo ferì mai e lui finse sempre di dormire, anche quando lo sentì sollevarsi per osservarlo.

Verso le sei Derek sembrò addormentarsi profondamente e quando la luce grigia dell’alba cominciava a filtrare dalle finestre chiuse, il castano decise di alzarsi e vedere come stava il giovane. Senza che il moro se ne accorgesse. Spostò la coperta e con suo sollievo vide che i graffi non erano nulla più di striature rosse sulla pelle; Derek stava guarendo.
Tirò un sospiro di sollievo e si alzò dal letto, indeciso sul da farsi. Era stravolto, ma non sapeva se dormire, spostarsi sul divano o farsi del caffè; indeciso, si voltò verso Derek che dormiva e scoprì un’espressione calma sul suo viso. Il cuore prese a battere più veloce: erano settimane che non vedeva la serenità sul viso del ragazzo che amava, né credeva che l’avrebbe vista tanto presto, così scoprirla ora, dopo quella notte d’inferno era un balsamo per lui, ma gli faceva tremare le mani e il cuore. Nemmeno sembrava che avesse passato una notte terribile.
Fu allora che gli venne in mente di controllore che la febbre stesse scendendo. Con il cuore che batteva forte si avvicinò e stese la mano, ma ancora tremava.

“Non posso farlo così, finirò per svegliarlo”

Stiles rimase a guardare il moro con una smorfia sul viso; aveva un piano B, ma se Derek si fosse svegliato sarebbe stato molto peggio. Tuttavia non vedeva altre alternative, così si chinò su di lui e permette le labbra sulla sua fronte.
Era fresco, più fresco delle sue labbra; la febbre era passata o quasi. Il ragazzo si rialzò con un accenno di sorriso sul volto: era la prima cosa che andava bene da quando il Nogitsune aveva ingannato entrambi. Qualcosa poi nel viso del moro lo costrinse prima ad aguzzare la vista, poi a spalancare gli occhi sorpreso: anche Derek sorrideva. Un sorriso lieve e quasi invisibile, ma sorrideva.
Uscì dalla stanza con gli occhi e il naso che pizzicavano a causa delle lacrime che stava per versare. Si diresse in cucina, deciso a ricacciarle indietro: aveva pianto ogni giorno da quando era successo tutto quell’orrore e non voleva farlo ora che intravedeva un minuscolo miglioramento. Senza fare rumore si mise a fare il caffè, con la mente concentrata solo sui movimenti che facevano le mani.
Un quarto d’ora dopo stringeva tra le mani una tazza di caffè nero e bollente, ma non riusciva a portarsela alle labbra. Come in trance, fissava il liquido scuro e immoto, coi muscoli irrigiditi e un oppressione al petto. Alla fine sentì una carezza lenta scendere lungo il naso e pochi istanti dopo la superficie del caffè s’increspò. Aveva cominciato a piangere.

Lo fece senza un rumore, coi denti stretti e irrigidito dal dolore. Il suo sguardo era fisso sulle varie increspature che si formavano nella tazza e si accorse dei passi che si avvicinavano solo grazie al silenzio nel loft.
Quando alzò il capo con le lacrime che gli rigavano le guance Derek era davanti a lui. Non dissero nulla, rimasero a guardarsi in silenzio; Stiles sapeva che la sua espressione doveva essere addolorata, ma il moro aveva il viso come scolpito nella roccia. Il castano non sapeva cosa aspettarsi e lo guardava in attesa che lui facesse qualcosa.
Stava per gridargli addosso? Stava per recriminargli quello che gli aveva fatto? La febbre? Stava per andarsene? Per dirgli che quello che era successo in doccia era da dimenticare ed era tutta colpa della febbre? Stava per dirgli di andarsene?
La mente del ragazzo si dibatteva tra tutte quelle domande e a salvarlo arrivò la mano del mannaro. Fu un gesto fluido, prima ancora che se ne rendesse conto, la mano del moro gli accarezzava la guancia e il pollice gli asciugava le lacrime. Stiles si trovò a trattenere il fiato mentre il cuore gli esplodeva in gioia e dolore.
Un secondo dopo, con lentezza, il moro si avvicinò e si chinò su di lui, fino a posargli un bacio in fronte. Il gesto era rigido ma deciso e il castano lo avvertì distintamente, così s’immobilizzò col terrore di allontanarlo. Nemmeno la sensazione orribile della mancanza d’aria riuscì a farlo muovere.
Le labbra di Derek erano ancora premute sulla sua fronte e lui non riusciva a respirare per la sorpresa, riusciva solo a lasciar scendere le lacrime. Quando la pressione sulla sua fronte diminuì fu assalito da pensieri orribili.

“Sta per lasciarmi. Sta per lasciarmi. Sta per dirmi che non riesce più ad amarmi dopo quello che gli ho fatto. Sta per cacciarmi. Sta per dirmi che-”

Le labbra di Derek si posarono sulla sua guancia, vicino alla radice del naso, poi si spostarono su un neo, sotto l’occhio, sulla linea della mascella, sullo zigomo e poi sull’altra guancia, asciugando con quei baci le lacrime che lui stava piangendo.
Lui lo stava consolando.
Dalle labbra di Stiles sfuggì un singolo singhiozzo e il moro gli sussurrò una sola parola per confortarlo.

«Grazie»
 
~♦~
 
Era passato poco più di un anno e mezzo da quando il Nogitsune aveva rubato il suo corpo e aveva violentato Derek, costringendolo a guardare.
Era passato poco più di un anno da quando, senza dirselo si erano lasciati.

Dal momento in cui Derek era guarito dalla febbre le cose erano sembrate andare meglio, tanto che due giorni dopo, quando Stiles gli aveva chiesto di passargli un bicchiere, il moro senza pensarci aveva usato il braccio che credevano rotto e avevano scoperto che era guarito. Le cose restavano difficili, non avevano parlato nemmeno tra di loro di quello che era successo, ma si sforzavano di far funzionare la loro storia, pur tenendola segreta; i giochini e le battute da parte del branco erano l’ultima cosa di cui avevano bisogno.
Baciarsi era rimasto difficile e lo facevano di rado. Un paio di volte il castano si era sporto verso Derek con l‘intenzione di posare le sue labbra sulle sue, ma quello si era ritratto rigido e pallido; mortificato, Stiles aveva rinunciato, attendendo che fosse il moro a trovare il coraggio di farlo. Era rimasto in attesa anche svariate settimane, con la fermezza e la tenacia di un fedele che prega per un miracolo.
Poi era tornato a Quantico e Derek l’aveva baciato una notte prima che partisse, sotto una pioggia fitta e la luce di un lampione; quando si erano separati, Stiles aveva creduto che gli avessero strappato il cuore dal petto insieme a quel bacio. Aveva il sapore di un addio.
Quando Derek aveva smesso di rispondere ai messaggi e non l’aveva trovato al suo ritorno era stato preso da una dolcezza amara al pensiero che il cuore glielo avesse strappato lui e lo conservasse con cura.

Di lui aveva avuto sporadiche notizie in quell’anno. Ogni tanto quando chiamava Scott o Liam quelli gli parlavano dell’ultima calamità accaduta in quella dannata città e gli dicevano che il moro era apparso per portare loro un qualche artefatto o il suo aiuto quando le cose sembravano senza via d’uscita, ma le informazioni si fermavano lì: Derek come appariva spariva nel momento in cui la minaccia rientrava.
I giorni gli scivolavano addosso, concentrato sui casi e la solitudine. Da Quantico l’avevano trasferito a New York, dopo uno stage condotto brillantemente e la sua vita si era fatta più piena e frenetica, ma sempre arida di sentimenti ed incontri.

E ora si trovava sul marciapiede di una trafficata strada newyorkese a guardare dal lato opposto incredulo e paralizzato dallo stupore.
Dall’altra parte, inconsapevole di lui, stava Derek.

L’aveva visto tre volte quella settimana, sempre convinto d’essersi ingannato; l’aveva visto fermo in una fermata della metro, mentre usciva da una caffetteria e mentre entrava in un taxi. Sempre in situazioni poco chiare e in momenti pieni di fretta, ma ora era impossibile sbagliarsi.

Forse si sentì osservato, forse fu il caso, fatto sta che il mannaro si voltò e i loro occhi s’incrociarono. Stiles si sentì percorrere da un brivido e il suo stomaco era annodato da un miscuglio indistricabile di emozioni: speranza, ansia, gioia e dolore che gli bruciavano l’anima senza pace, ma sopra tutti avvertiva il rimorso per ciò che aveva fatto all’uomo che ancora amava.
Dopo un anno di silenzio lo amava ancora.
Dopo un anno e mezzo ancora non si dava pace per ciò che gli aveva fatto.
Qualcuno lo urtò sull’affollato marciapiede facendogli perdere l’equilibrio. Quando riuscì a tornare in piedi e si voltò a cercare di nuovo Derek scoprì che era scomparso.

“È giusto così. Chi vorrebbe vedere il proprio aguzzino?”

Quel pensiero lo accompagnò durante tutta la giornata e ogni volta che incrociava gli occhi di un colpevole vedeva i suoi.
 


Tornò a casa che era l’ombra di se stesso, anche peggio del solito. La vita gli scorreva davanti come il paesaggio monotono dal finestrino della metro. Non vedeva i volti, non vedeva i luoghi, raggiunse l’ingresso del condominio dove abitava solo perché i suoi piedi conoscevano la strada a memoria. Con la stanchezza che glieli rendeva pesanti come blocchi di cemento, salì le scale dell’androne e raggiunse l’ascensore, trovandolo vuoto. Non che ci fosse molta gente in giro a quell’ora.
Fu quando le porte si aprirono e lui arrivò sul pianerottolo che capì che c’era qualcosa che non andava. D’improvviso la consapevolezza che ci fosse qualcuno con lui gli risvegliò i sensi. Senza dar segno d’essersene accorto si avvicinò alla porta del suo appartamento, un’unica stanza per privare eventuali ladri di posti in cui nascondersi, e come il migliore degli attori finse di cercare le chiavi nelle tasche con il solo scopo di raggiungere la pistola d’ordinanza.
Infilò la chiave nella toppa e la girò per avere una via di fuga. Poteva essere solo un nuovo inquilino o qualcuno che per qualche motivo aveva cambiato i suoi orari, non doveva per forza essere qualcuno che lo voleva morto; era troppo presto per essersi inimicati qualche boss o la mafia cinese.
La mano tuttavia era sul calcio della pistola, già libera dalla fondina e ben nascosta dalla giacca.  Con un movimento studiato si girò estraendo l’arma, mentre l’altra mano spingeva la porta per entrare svelto in casa. Solo che si trovò davanti a qualcosa che non si aspettava.

Prima che il suo cervello potesse davvero capire cosa stesse succedendo, l’inseguitore, un guizzo di capelli scuri, pelle chiare e barba, gli si era infilato tra le braccia prendendogli il viso; era bloccato, non poteva sfuggirgli, gli avrebbe spezzato il collo con un movimento dei polsi. Il cuore gli risalì fino alle labbra e lì fu fermato dalle labbra del giovane.
Tutto si cristallizzò nello stupore del momento.
Lo stava baciando.
Derek lo stava baciando.

Solo ora riconosceva le mani sul suo viso, solo ora aveva riconosciuto il verde degli occhi. Se non ci fossero state le labbra morbide del mannaro avrebbe davvero temuto che il cuore gli sfuggisse dal petto perché l’aveva sulla punta della lingua.
Il bacio era delicato, un semplice premere delle labbra dell’altro, un bacio che un tempo avrebbe subito approfondito cercando con la lingua quella del moro, ma non oggi. Non ora. Troppo stupito per fare alcunché riuscì a tenere in mano la pistola solo perché in un angolo remoto del suo cervello resisteva la consapevolezza che cadendo sarebbe potuto partire un colpo e ferire un innocente.
Tutto il resto erano le labbra di Derek sulle sue.

«Derek»

Un mormorio, la prima parola che disse quando la bocca del moro si allontanò dalla sua. Incredulo, tremulo, il suo nome sembrò l’invocazione ad un dio che si credeva perduto

«Derek?»

L’emozioni gli esplosero nel corpo come se tutto si fosse bloccato nel momento in cui aveva perso il suo innamorato: lo stomaco si scaldò e si annodò, la gola fu chiusa dal bisogno e le gambe si fecero molli come gelatina per lo stupore e la gioia insperata.

«Derek?»

Il moro rimase in silenzio. Si chinò su di lui e lo baciò di nuovo, più forte, con bisogno e Stiles stavolta rispose. Si aggrappò alla sua maglia con la mano libera e si lasciò spingere verso la porta aperta. Ebbe solo la prontezza di appoggiare la pistola al ripiano accanto alla porta e Derek la chiuse con un calcio. La mano corse a fare compagnia alla gemella e fu un bene; quando il mannaro gli schiuse appena le labbra e gli leccò la punta della lingua, quasi cadde a terra per la sorpresa.
Si separò da lui solo quanto bastava per guardarlo negli occhi, così incredulo che stesse succedendo davvero. Derek glielo lasciò fare, non tentò di fuggire, non lo fece nemmeno quando gli sfiorò le labbra col pollice o intrecciò le dita ai suoi capelli.
Sembrava così reale. Erano di nuovo l’uno tra la braccia dell’altro e d’improvviso non gli importò che fosse forse un sogno e che gli avrebbe spezzato il cuore una volta finito. Per quel momento, finché durava, voleva dimenticarsi di tutto, di tutto ciò che non fosse Derek.

Avvicinò la bocca alla sua e già schiudeva le labbra, ma per Derek ci stava mettendo troppo e gli andò incontro; la sua lingua trovò subito la sua, rendendo il loro bacio umido e scaldando i loro corpi. Stiles sentì il bisogno di abbandonarsi, di stendersi, di cedere a Derek anche sul freddo pavimento dell’appartamento, ma lui la pensava in altro modo. Mentre il castano reclinava il capo e continuava a mordergli le labbra con le sue, il mannaro lo faceva indietreggiare verso il letto, abbandonando il suo viso solo quando le loro gambe incontrarono il materasso con le lenzuola ancora gettate di lato.
Le mani di Derek gli accarezzarono il collo facendolo rabbrividire, poi si spostarono sul suo petto, scivolarono sui suoi fianchi e risalirono la sua schiena, mentre lui allacciava le braccia al suo collo. Il suo pensiero aveva i contorni sfumanti, non si preoccupava di cosa stesse per succedere, gli importava solo di Derek e del suo essere con lui.

Non si ribellò quando, spingendolo col suo corpo, il moro lo fece sdraiare nel letto.
Non lo fece quando, senza smettere di baciarlo e mordergli le labbra, cominciò ad armeggiare con la fibbia dei suoi pantaloni.
Lo assecondò quando gli prese una mano e gliela spinse sotto la maglia e lo spronò ad accarezzargli la pelle del ventre.
Lo assecondò quando gli sfilò l’intimo e i pantaloni gettandoli sul pavimento.
Qualsiasi cosa Derek volesse fare non glielo avrebbe impedito.

E poi c’era quello che voleva lui. Lui che voleva che le braccia del moro lo stringessero, voleva le sue labbra sulla bocca, il corpo contro il suo, voleva fare l’amore con il suo amato con tutto il suo essere.
Le mani del mannaro gli accarezzavano la pelle delle cosce e lui sentiva il calore irradiarsi dal bassoventre fino alla punta degli arti; quante volete aveva desiderato che lui lo toccasse ancora così, che l’avesse toccato così prima di ciò che era successo. Aveva desiderato la sua mano avvolta sul suo sesso, le dita che gli carezzavano la spina dorsale e la bocca che gli torturava la pelle del collo e lo desiderava ancora.
Ed era sbagliato.
Lui non meritava quella dolcezza, non meritava di godere, di fare l’amore; lui meritava ben altro.

«Fammi male»

Le parole risalirono le labbra come un respiro.

«Fammi male»

Una supplica con la voce incrinata e le mani del giovane si bloccarono.
Derek lo ascoltò impietrito mentre Stiles nascondeva le lacrime nel cuscino e rinnovava la sua richiesta.

«Fammi male, ti prego»

«No»

Le parole erano uscite in un sussurro, ma il ragazzo le aveva sentite alla perfezione.
Un singhiozzo dopo era a carponi, voltato verso il moro che era inginocchiato davanti a lui coi pantaloni mezzo aperti, serio nonostante tutto.

«PERCHÉ?» gemette l’altro sull’orlo della disperazione «Ti ho fatto del male, perché ti rifiuti di farne a me?!»

Fu allora che Stiles notò che l’espressione seria del mannaro nascondeva del rimorso; la sua rabbia scomparve lasciando il posto ad un dolore sordo e rassegnato. Torno a dargli le spalle e si chinò per raccogliere i pantaloni gettati accanto al letto.

«Non avresti dovuto tornare se ancora ti faccio stare così male. Non ti saresti dovuto forzare a-»

Le parole furono soffocate dal cuscino contro cui Derek l’aveva spinto.

«Non è questo» gli mormorò all’orecchio col sesso caldo che gli premeva tra le natiche.

Stiles inghiottì la saliva e liberata la bocca mormorò: «E allora perché sei pieno di rimorsi?»

Un sibilo velenoso quasi come quello di un serpente gli uscì dalle labbra e con quello il timore di aver esagerato, ma Derek non sembrò raccogliere quella cattiveria. Non si degnò nemmeno di rispondergli e cominciò a slacciargli i bottoni della camicia.
Il ragazzo pur non avvertendo più la voglia di fare l’amore con lui non si ribellò: sul suo cuore pesava ancora lo stupro che il moro aveva subito a causa sua, che gli riservasse lo stesso trattamento, lui non chiedeva altro.

«Perché dovrei farti del male?»

La domanda era un sussurro caldo nel suo orecchio e lo fece rabbrividire, anche di piacere; era tanto che sognava di avere Derek vicino in quel modo, tra un incubo e l’altro.

«Perché me lo merito. Ti ho fatto del male, merito di riceverne» mormorò nel cuscino.

«No»

Una risposta secca e uno strofinare umido tra le sue natiche.

«Sì invece!» gemette lui, pieno di sensi di colpa «ti ho violentato, poteva essere il Nogitsune a controllarlo, ma il corpo era il mio!»

«Stiles, tu non mi hai violentato.» va voce del moro ora era dura e diretta e le sue mani gli accarezzavano la pelle scoperta del petto. «Sei una vittima quanto me»

A quelle parole il castano si divincolò e riuscì a voltarsi per guardarlo negli occhi; non poteva accettare di essere discolpato in quel modo.

«Io non-»

«Stiles.»

Il ragazzo ammutolì: Derek aveva usato un tono che non ammetteva repliche e che lo costrinse ad ascoltarlo.

«Volevi davvero farlo?»

Stiles inghiottì a vuoto e balbettò una risposta.

«Sì… no, io- io- non così» gemette alla fine, scoppiando a piangere «Volevo che fosse bello, volevo che fossimo sereni, volevo andare piano e fartelo godere… non volevo che succedesse nulla di tutto questo!»

Il ragazzo parlava coprendosi il viso con le braccia ed era scosso dai singhiozzi; una persona normale non sarebbe riuscito a capire le parole che uscivano dalle labbra, ma per il mannaro erano limpide e cristalline. Tuttavia non diede segno di rabbia, solo un densa tristezza traspariva dai suoi occhi.

«Volevo portarti nel bosco, o riempire la camera da letto di candele e riempirti di baci… volevo farti una sorpresa, invece di fermarmi come al solito, avrei continuato, ti avrei lasciato carta bianca e… e…»

La voce del ragazzo si trasformò in un lamento che sfuggiva ai denti stretti per tenere tutto dentro. Non ce la faceva, quei desideri gli spezzavano il cuore, perché non avrebbero più potuto, dovuto, realizzarli. Avrebbe dovuto decidersi prima invece di essere spaventato dal dolore, dall’essere scoperto, dal non essere all’altezza, avrebbe dovuto fidarsi di Derek e del suo desiderio di farlo godere. Derek non l’avrebbe mai fatto soffrire come aveva fatto lui.
Aveva sprecato tutte le sue occasioni.

Il dolore che sentiva nel petto si fece così acuto da togliergli il respiro e l’unica cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stata gridare tutta la sua esasperazione, ma il grido era bloccato in gola e da lì non si muoveva, facendogli ancora più male.
Arrivarono le mani di Derek a levargli le braccia dal viso per poterlo guardare negli occhi, ma lui strinse i suoi, non si sentiva pronto a quel contatto. Sapeva che gli occhi del moro sarebbero stati dolci e pieni di compassione, lo sapeva da come lo toccava, e lui non meritava nulla di tutto ciò.

«Stiles, guardami per favore.»

La voce era dolce come si era aspettato, ma scosse la testa e cercò di riportare le braccia sul viso, ma il moro non glielo permetteva. Cocciutamente, insistette finchè il giovane non cedette, ma invece che incontrare il suo volto la sue braccia trovarono il collo del mannaro. Trasalì e quando sentì un bacio posarsi sulla sua fronte, spalancò gli occhi per la sorpresa.

«Non farlo più, ti prego» la sua supplica ferì Derek, glielo lesse negli occhi, ma non poteva fare altrimenti. «Non lo fare più, non me lo merito. Non mi merito i baci, le carezze e il tuo perdono. Non mi merito nulla di tutto ciò. Mi fa solo stare più male. Non merito il tuo perdono.»

Il dolore negli occhi del suo innamorato si fece ancora più profondo, ma lui non gli diede retta; si chinò su di lui e gli baciò le labbra con dolcezza. Un bacio rapido, delicato, che non fu difficile allontanare, ma che gli provocò un dolore indicibile nel petto. Perché Derek avrebbe potuto baciarlo solo per farlo soffrire di più, per farlo stare male, per negargli tutto quello che aveva desiderato, ma non era quello il motivo che spingeva il mannaro. Derek lo baciava perché gli voleva bene. Perché gli era mancato. Perché baciarlo gli piaceva ancora.

«Perché Derek? Io non mi merito questo. Non mi merito che tu mi voglia ancora bene-»

«Non sei tu che puoi deciderlo»

Ora le lacrime scendevano lente dai suoi occhi mentre guardava quelli verdissimi del suo amato. Lui, pur addolorato, emanava una sorta di calma irreale che non sapeva spiegarsi da dove arrivasse. Si sarebbe aspettato grida, urla, recriminazioni, perfino delle botte, ma non questo.

«Io non ti capisco… dovresti odiarmi, dovresti farmi del male e farmi pagare tutto quello che ti ho fatto e invece mi baci e cerchi di discolparmi»

Era fermo, col moro tra le sue gambe, così vicino che poteva sentire il calore del suo corpo.

«Te l’ho già detto, sei una vittima quanto me» insistette l’altro asciugandogli una lacrima col pollice, ma il castano scosse la testa.

«No, non posso discolparmi così facilmente, ho fatto una cosa orribile, non posso cavarmela così!» gridò sbattendo i pugni sul materasso.

Le mani di Derek si allontanarono dal suo viso e si raddrizzò dandogli modo di guardarlo in tutta la sua bellezza. I muscoli erano ancora ben definiti e sul suo corpo non c’era traccia del passaggio del Nogitsune, lo si poteva intuire solo dal viso; le guance erano lievemente scavate, gli zigomi più pronunciati, qualche filo bianco in più tra i capelli e nella barba. Gli occhi stanchi avevano un accenno di rughe d’espressione che un anno fa non aveva mai notato.

«E cosa vorresti che facessi? Che ti riservassi lo stesso trattamento che mi ha riservato lui?» Gli occhi del castano si fissarono nei suoi e deglutì la saliva perché non poteva rispondere a quella domanda. «Stiles. Stai davvero chiedendo a me di violentarti?»

Il ragazzo distolse lo sguardo addolorato. Sapeva che quello che avrebbe voluto Derek non poteva farlo, né voleva farlo. Si morse le labbra e chiuse gli occhi: anche nel suo desiderio di soffrire e pareggiare i conti riusciva a ferire Derek.

«Scusa»

La voce uscì in un mormorio, ma dire quella parola lo fece sentire lievemente meglio. Era solo una parola, ma voleva dire molto di più. Voleva dire che gli dispiaceva di averlo fatto star male, di avergli chiesto una cosa orribile, di avergli fatto male, di non essere riuscito ad opporsi a quella creatura malvagia.
Il moro tornò a chinarsi su di lui fino a sdraiarsi sopra il suo corpo, pelle contro pelle, facendo tremare il castano.

«Lo so»

Glielo mormorò vicino il viso, con gli occhi illuminati di dolcezza e una mano che gli sostava i capelli dalla fronte.

«Ti amo ancora»

Le parole sfuggirono alla sua bocca prima che la mente formulasse quel pensiero e trattenne il fiato spaventato dalla possibile reazione del mannaro.

«So anche questo»

Poi si chinò su di lui e gli baciò la bocca, a lungo. Il suo corpo aderiva al suo e le sue dita si perdevano nei suoi capelli. Il ragazzo per un po’ rimase fermo per un po’ temendo di fare qualcosa di sbagliato, ma alla fine il desiderio di stringere di nuovo il suo amato tra le braccia fu troppo forte. Con lentezza fece scivolare le mani sui suoi fianchi per poi risalire fino alle spalle e attirarlo a sé, col timore che potesse di nuovo allontanarsi da lui.

«Sai che non andrò da nessuna parte, vero?» gli domandò forse intuendo le sue paure.

«E perché dovresti restare?» gli chiese il castano che ancora non sapeva darsi una risposta alla sua visita, al suo essere in un letto con lui.

«Perché ti amo ancora»

Quelle parole furono un fulmine a ciel sereno, furono così inaspettate che anche se Stiles aveva aperto bocca per replicare non erano uscite parole. Avrebbe potuto credere di tutto, ma che Derek l’amasse ancora, dopo tutto quello che era successo, mai l’avrebbe pensato.
E di nuovo le labbra del moro furono sulle sue, togliendogli la capacità di pensare a qualsiasi cosa che non fosse la lingua che scivolava sulla sua.

«Ma io non lo merito» furono le prime parole che riuscì a pronunciare quando il moro si allontanò da lui.

«Non credi che questo debba deciderlo io?» ribattè l’altro con dolcezza

«Ma ti ho fatto del male…» insistette il castano che non intendeva accettare il perdono che il giovane insisteva ad offrirgli.

«Ma volevi farmene? Se avessi potuto scegliere, me l’avresti fatto lo stesso?» gli chiese guardandolo dritto negli occhi. Stiles scosse la testa perché no, fargli del male era l’ultima cosa che avrebbe voluto e il moro lo baciò e lo guardò con dolcezza, mandandolo in confusione.

«Sei una vittima anche tu, anche se forse non vuoi ammetterlo con te stesso.» il ragazzo deglutì e attese che continuasse perché anche se non voleva rinunciare al suo senso di colpevolezza, più ascoltava Derek più desiderava essere perdonato. «Se ti avessero puntato una pistola alla tempia e ti avessero minacciato non sarebbe stato molto diverso. Stiles non avevi scelta. Ti hanno costretto a fare qualcosa di crudele e che tu non avresti mai voluto fare. Stiles tu sei innocente» concluse calcando sull’ultima parola.

Di nuovo il castano scosse la testa «Non farla così semplice. Non basta dire che non volevo per cancellare le mie colpe»

«Ma non potevi fare altro! Era più forte di noi, cosa potevamo fare? Nessuno dei due aveva la forza per contrastarlo»

«No, io non ce la faccio a cavarmela con così poco, non può bastare solo che tu dica che non ho colpa e che tu mi perdoni, non può essere così semplice» sussurrò avvilito.

Il moro sospirò e si sdraiò al suo fianco accarezzandogli il viso e i capelli.

«Non posso cavarmela con così poco» sussurrò guardandolo negli occhi.

Il mannaro rimasse in silenzio per un po’, senza mai smettere di accarezzarlo. Piano avvicinò la fronte alla sua trovandosi così vicino al suo viso che, nonostante l’avesse già baciato più volte, a Stiles mancò un battito.

«Ti amo»

«Der-»

A zittirlo arrivò il bacio del moro.

«Ti amo»

«Derek, no»

«Stiles, io ti amo. Non puoi cambiare questo fatto»

Di nuovo il ragazzo aprì la bocca per ribattere, ma il mannaro lo baciò mozzandogli il respiro. Ci volle tutta la forza di volontà di Stiles per divincolarsi e liberarsi di quelle labbra che non voleva lasciare. Voltò la testa e già gli ripeteva che non avrebbe dovuto dire una cosa simile, ma il moro gli leccò il collo facendolo sussultare.
Stiles si coprì di pelle d’oca e s’immobilizzò sentendo il piacere che quel contatto gli provocava. Non fece nemmeno in tempo a dirsi che non se lo meritava che Derek prese a baciargli la pelle della gola, a mordicchiargliela e a leccargliela. Il ventre del ragazzo si scaldava, mentre i muscoli si tendevano preparandosi a qualcosa che non pensava di poter ricevere.
Un ansito sfuggì dalle sue labbra e dopo un secondo sentì le labbra del suo innamorato incurvarsi contro la pelle del collo.

«Derek, Derek» cominciò a mormorare imbarazzato e col fiato corto «Derek dobbiamo fermarci»

Gli posò le mani sulle spalle facendo una lieve pressione, ma l’altro insistette a stuzzicarlo.

«Derek, Derek, sul serio, io-io non credo che-»

Il mannaro lo prese per i fianchi e se lo attirò più vicino facendolo rabbrividire di piacere. Stiles strinse gli occhi e si morse le labbra per non dire più nulla, per non ammettere a se stesso quanto desiderava che il mannaro continuasse. Perché lui lo voleva, voleva che Derek lo toccasse, lo accarezzasse, lo facesse di nuovo sentire amato, ma lui non meritava nulla di tutto ciò. Le sue mani sulle spalle del moro minacciavano di scivolare sulla sua schiena di attirarlo a sé, la sua schiena fremeva per inarcarsi e portare di nuovo i loro corpi vicini, e in tutto questo, Derek non aveva mai smesso di torturargli il collo.

«Derek, per favore, ferm-»

Ecco, era successo l’irreparabile. Se n’erano accorti entrambi.
Derek allontanò il viso quanto bastava per guardarlo negli occhi e forse avrebbe avuto un sorriso di trionfo come le prime volte, quando mentre studiava gli mordicchiava il retro del collo fino a farlo piegare a novanta sulla scrivania con un erezione nei pantaloni, ma non stavolta; forse avvisato dal suo odore c’era solo un sorriso lieve e pieno di dolcezza.

«Stiles. Non piangere.»

Lui sentiva le labbra che tremavano e gli occhi farsi lucidi. Lottava disperatamente per accontentare la richiesta di Derek, ma la vergogna per l’erezione tra le sue gambe gli era insostenibile.

«Non piangere» un ordine dato con dolcezza.

«Ma-»

«Non stai facendo nulla di male» Stiles tremò e lo guardò negli occhi, sentendo le guance calde per la vergogna e le lacrime «Non mi stai facendo del male. Fai un respiro profondo e calmati. Per favore»

Il ragazzo lo accontentò, ma il disagio non diminuiva, anche se riuscì a non far scendere una lacrima.

«Stiles, io ti amo e averti tra le mie braccia è la cosa che più mi fa felice. Non sai quanto mi sei mancato in questi mesi, non ho fatto altro che pensarti e pensare a quanto mi sarebbe piaciuto fare l’amore con te, ma se tu non vuoi io mi fermo e non farò altro.»

Derek ora era serio pur non abbandonando quell’aura di dolcezza che lo circondava. Gli occhi di Stiles tornarono a chiudersi addolorati.

«Non ce la faccio, ti ho fatto una cosa… una cosa orribile, non ce la faccio a fare questo. Non me lo merito, dovresti prendermi a pugni fino a esserti sfogato, non dirmi che mi ami e baciarmi come se fossi la persona più importante della tua vita»

«Tu vuoi fare l’amore con me?»

Dalle labbra del castano uscì un sospiro profondo e doloroso. Avrebbe solo voluto rispondere di sì, ma non poteva.

«Primo, tu sei e sarai sempre la persona più importante della mia vita. Secondo…» sussurrò per poi baciarlo subito dopo «… lo schiaffo morale più grosso a quel mostro e a quello che ci è successo sarebbe fare l’amore. Sarebbe…» Derek gli sfiorò la linea della mascella col naso «… farlo con lentezza, con dolcezza, fino a farci venire le guance rosse, fino a tremare, fino a supplicare noi stessi di godere…»

Le labbra del moro furono di nuovo sulle sue, le sue mani sui suoi fianchi lo attirarono verso di sé e di nuovo Stiles sentì la pressione dell’erezione di Derek tra le sue natiche.

«Lo vuoi?»

Le labbra di Stiles tremarono mentre il gelo gli prendeva il suo corpo. Quello che gli proponeva Derek lo spaventava perché non sapeva se sarebbe stato in grado di fare l’amore con lui. Aveva paura di avere dei flash di quelle ore orribili, di fare qualcosa che facesse ricordare lui.
Tuttavia annuì.

Sulle labbra di Derek apparve un sorriso e mentre il cuore del castano cominciava a battere più veloce, si allungò verso il suo viso con l’intenzione di baciarlo; il moro fu ben felice di andargli incontro e di baciarlo con passione. Poi prese a spingersi contro di lui cercando di entrare.
Stiles cercò di rilassarsi e di facilitarlo, ma non era semplice con tutte le sue paure.

“Sarà solo il dolore di un momento” cercò di convincersi “Non avrà nemmeno il tempo di accorgersi che mi sta facendo male”

Tutti i muscoli dell’addome erano contratti per la tensione e sentiva il bacino rigido, ma sarebbe morto piuttosto che fermare il mannaro.
Derek aumentò la forza nello spingersi dentro di lui e la punta del suo pene superò dolorosamente l’anello di muscoli facendogli fare una smorfia, che il castano cercò subito di nascondere. Non uscì un gemito dalle sue labbra e il dolore poco dopo scomparve con sua sorpresa.

«Stiles» colse al volo le vene del moro colorate di nero «Non mentirmi.»

Pronunciate queste parole Derek uscì da lui, che si ritrovò a boccheggiare per il sollievo; i muscoli irrigiditi si rilassarono e solo in quel momento si accorse di avere la schiena fradicia di sudore. Fece due profondi respiri ad occhi chiusi per calmare il battito frenetico del suo cuore, ma si accorse con orrore del peso che abbandonava il letto.
Con il cuore in gola si voltò per afferrare il moro, la sua mano strinse l’aria. Derek era già lontano da lui.
Rimase un momento bloccato in quella posizione scomoda con il cuore che gli martellava nelle orecchie. Aveva sbagliato. Di nuovo.
Si mise seduto a gambe incrociate, a capo chino e con le mani abbandonate in grembo. Si stava lentamente piegando su se stesso sentendo un dolore insostenibile al cuore; era come se una morsa gli stesse stringendo la gabbia toracica. Poi sentì il rumore di passi che si avvicinavano e un bacio sulla spalla lo sorprese.

«Grazie per non aver ancora alzato gli occhi. Io… non mi sento molto a mio agio a farmi guardare.» il ragazzo sentì chiaramente un sospiro «Non ancora almeno»

Il letto tornò a inclinarsi per il peso del moro e Stiles dovette imporsi di non alzare lo sguardo, per assecondare le necessità di Derek, che tuttavia aveva altre priorità.

«Stiles, ho bisogno che mi guardi negli occhi» mormorò prendendogli il mento tra pollice e indice e facendoglielo alzare. «Io voglio fare l’amore con te, ma solo se lo vuoi anche tu. Se non ti va o non te la senti non faremo nulla, faremmo solo danni. Ma questo devi dirmelo tu e dei essere sincero, con me e con te stesso.»

Stiles prese un respiro profondo per rispondere, inghiottì la saliva e disse le parole che non credeva di riuscire a lasciar uscire.

«Voglio fare l’amore con te.» mormorò guardandolo dritto negli occhi «Non so se ci riesco però» ammettere questo timore gli rese impossibile sostenere lo sguardo del mannaro.

Derek non disse nulla e quando tornò a guardarlo in faccia, il ragazzo scoprì che aveva solo alzato un sopracciglio in attesa di dettagli. Lui era restio a raccontarglieli, preoccupato che il giovane potesse sentirsi in colpa senza motivo, ma si sforzò di parlare; doveva essere sincero con entrambi o le cose non sarebbero migliorate.

«Ho paura di fare qualcosa di sbagliato. Di spaventarti. Di avere dei flash del… dello…» il castano fece un profondo respiro e riprese a parlare; per lui era difficile perfino pronunciare quella parola «…dello stupro. Che ne abbia tu. Di non essere all’altezza. Che faccia male. Che non sia bello come me l’aspetto. Che il Nogitsune non sia davvero imprigionato» continuò a contare sulle dita «di fare qualcosa di stupido o di imbarazzante. Che per te non sia bello come te l’aspettavi…»

Derek era seduto davanti a lui a gambe incrociate che ascoltava attento «È parecchia roba… forse non-»

«Ma voglio provare!» ribatté il ragazzo a mezza voce, sporgendosi verso di lui; il moro rimase interdetto per il tono deciso che aveva usato. «Voglio provare, ma non voglio fare casini…» aggiunse tornando a guardarsi le mani abbandonate in grembo «E non so da dove cominciare…»

«Abbiamo già cominciato» la voce e le parole del moro gli fecero spalancare gli occhi per la sorpresa «Parlami.» aggiunse afferrandolo per i fianchi e tirandoselo più vicino «Dimmi cosa non ti senti di fare. Traccia dei limiti.»

Derek sentendo che il suo battito diventava più veloce si avvicinò al suo viso per baciarlo.

«Io non voglio darlo» un sussurro ad occhi bassi che lo bloccò a pochi centimetri dalle labbra del castano «Non voglio… stare sopra. Voglio che sia più diverso possibile da… da…» il ragazzo sospirò esasperato e alzò gli occhi nei suoi. «Hai capito, no?»

Derek annuì «Altro?»

«Vorrei… voglio guardarti in faccia. Voglio averti vicino. Voglio che ti fermi se qualcosa ti fa stare male.» il moro annuì di nuovo. «E tu?»

«Voglio andare piano. Voglio che ci piaccia. Voglio che tu mi fermi se ti faccio male. Chiaro? Perché non hai detto nulla prima?»

Stiles arrossì e distolse lo sguardo, ma il mannaro voleva una risposta. «Speravo che non te ne accorgessi e che andasse via presto» mormorò in risposta mentre il moro cercava i suoi occhi.

«Stiles, se ti dovessi fare male non me lo perdonerei. Fermami prima»

Il castano fece un cenno d’assenso; capiva il bisogno del mannaro di essere diverso dal Nogitsune, non aveva bisogno di altri sensi di colpa. Il moro fece un sospiro di sollievo e gli diede un rapido bacio a fior di labbra, per poi levargli la camicia e gettarla a terra; poi gli prese le mani e le guidò sui suoi fianchi.

«Toglimeli» gli mormorò sulle labbra.

Col cuore in gola e con lentezza il ragazzo obbedì mentre riprendevano a baciarsi. Intimo e jeans finirono sul pavimento e loro due erano di nuovo abbracciati nudi, in un intreccio di gambe, braccia e lingue. Le mani di Stiles erano sulle scapole del moro, mentre le sue accarezzavano senza sosta i suoi fianchi e percorrevano la spina dorsale del ragazzo. Il moro costrinse entrambi su un fianco e si allungò per recuperare qualcosa dal comodino con un sorriso lieve.

«Mi sembra di essere tornato a due anni fa…» mormorò mostrandogli un tubetto di lubrificante «… quando ci volevano ore per rilassarti»

Un sospiro lievemente divertito uscì dalle labbra del più giovane «Non è che abbia fatto qualcosa in questi mesi… nemmeno da solo…» ammise nascondendo il viso nell’incavo del collo del moro e appoggiandogli una gamba sul fianco per lasciargli spazio per prepararlo.

«Allora andrò molto piano» gli mormorò l’altro all’orecchio per poi baciargli il collo.

Un dito, umido e fresco cominciò ad accarezzare l’anello di muscoli tra le sue natiche.
 


Gli raccontò della psicologa, delle sedute, dei mesi che aveva trascorso lontano da lui. Di come il primo dottore a cui si era rivolto gli aveva riso in faccia, della solitudine che aveva patito.
Quando aggiunse l’indice gli raccontò di quanto lo pensava, di come fosse il primo pensiero alla mattina e l’ultimo alla sera. Della rabbia che aveva provato nel rendersi conto che l’unico modo per stare meglio era allontanarsi da lui e del dolore che gli aveva provocato stargli lontano. Stiles ascoltava ogni parola con le guance sempre più rosse, lacrime intrappolate tra le ciglia, il respiro sempre più corto e fremiti che gli percorrevano il corpo.
Derek aggiunse il terzo dito e gli raccontò dei sogni che faceva, di come gli incubi si trasformassero in sogni stupendi e di come questi su trasformassero in una fonte d’orrore e di ricordi. Gli raccontò di come si svegliava cercandolo nel letto col desiderio di abbracciarlo, di baciarlo, di averlo come in quel momento, e della disperazione nel non trovarlo al suo fianco.

Gli prese una mano su cui versò il lubrificante e gliela avvolse intorno al suo pene mentre il ragazzo boccheggiava e fremeva tra le sue mani. Gli raccontò di come aveva sognato il suo viso arrossato nella jeep quando non erano riusciti ad aspettare di arrivare a casa mentre lo spronava a masturbarlo, del desiderio che l’aveva preso al ricordo dei suoi gemiti e delle sue suppliche, dei baci che si erano scambiati.
Derek aveva tolto le dita da lui e l’aveva spinto con delicatezza con la schiena sul materasso, baciandolo, mentre Stiles ancora gli carezzava l’erezione col palmo della mano. Si separarono con le guance arrossate e gli occhi pieni di desiderio, poi qualcosa nello sguardo del moro cambiò e prese i polsi del ragazzo e li portò sulla sua testa bloccandolo; gli si poteva leggere sul viso il dispiacere di doverlo fare.

«Io… io sono più tr-»

«Derek» sospirò l’altro con un tremito d’attesa nella voce «Non fermarti»

Una mano tenne i polsi del castano, l’altra andò a tenere l’erezione del moro.
C’erano ansiti carichi di desiderio nella stanza.
Una spinta e dalle loro labbra si levarono gemiti di piacere.
 

 

 
 
 
 
 
 


 
Angolo Autrice
Grazie infinite a chi ha letto, seguito o recensito la scorsa os e per tutta la partecipazione che dimostrate. A brave riprenderò in mano pure “Legacy”. Nel frattempo spero che questo deliro non vi abbia fatto accapponare la pelle. Grazie in anticipo a chiunque voglia darmi la sua opinione in merito; siate implacabili.
A presto ♥

 
   
 
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