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Autore: Black Swallowtail    04/09/2018    2 recensioni
“Ti sei mai sentito così? Come se ovunque andassi, nessuno ti volesse. Come se qualunque cosa facessi, tu stessi sbagliando. Anche se sei andato a letto alle dieci e mezza, ti ritrovi nell'oscurità a chiederti cosa stai sbagliando, cosa hai sbagliato. A quel punto sono le cinque e come ogni notte non sei riuscito a dormire. Non ti viene da piangere, né da urlare, strepitare, insultarti, perché non sei il tipo. E ti chiedi dove andrai a finire, ma non vuoi davvero sapere la risposta. Perché ti fa paura, una paura tremenda.
Ti sei mai sentito così?”
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ragazza di fuoco fatuo.

 

“Ti sei mai sentito così? Come se ovunque andassi, nessuno ti volesse. Come se qualunque cosa facessi, tu stessi sbagliando. Come se perfino respirare fosse faticoso, alzarsi dal letto pesante e volessi solo rimanere fermo al buio e non pensare a nulla. Ed invece inizi a pensare, pensare, pensare. Anche se sei andato a letto alle dieci e mezza, ti ritrovi nell'oscurità a chiederti cosa stai sbagliando, cosa hai sbagliato, alle persone che hai ferito perché non sei mai riuscito ad esprimerti, ad urlare quello che senti, ti rendi conto che vivi in una bolla e non riesci a sentire gli altri, per cui fai finta di non avere nulla di male, che a sbagliare siano le persone che ti sei lasciato alle spalle. Oppure ti giri e rigiri, provi a sopprimere questi pensieri, prima che tu possa aver preso sonno sono le due e pensi che stai andando dalla parte sbagliata, che nessuno ti vede per come sei, che quello che stai tentando di fare finirà sprecato, sprecato come le tue capacità che non ci sono. Ti senti un buco nello stomaco, lì dove dovresti invece essere soddisfatto di te, perché ti sembra di buttare via le giornate e non riesci a trovare la forza di riempirle. Ti senti pieno di vergogna ed ogni giorno più vuoto di prima, più abbandonato, più solo, più finto, più incapace. Allora ti riprometti che sarai migliore, che da domani farai qualcosa, e ti trascini con il senso di soffocamento al petto fuori dal letto.

A quel punto sono le cinque e come ogni notte non sei riuscito a dormire. Non ti viene da piangere, né da urlare, strepitare, insultarti, perché non sei il tipo.

Ti senti solo assolutamente, infinitamente vuoto ed inutile, incapace e spaventato.

Sopratutto spaventato.

E ti chiedi dove andrai a finire, ma non vuoi davvero sapere la risposta. Perché ti fa paura, una paura tremenda.

Ti sei mai sentito così?”

Piega appena la testa, la ragazza di fuoco blu, con le iridi che non scintillano di fiamme e la voce che non si spegne, non si abbassa, non si fa fievole, come nei film o nei libri, ma è tranquilla, immobile, come se stesse raccontando la cosa più idiota, più vuota di tutte, come se mi stesse parlando di quello che ha mangiato a pranzo o di come si senta sola, assolutamente sola in mezzo alla folla di persone che la circondano, un pesce fuori dall'acqua che non riesce a respirare, e si muove fluttuando come uno spettro, uno spettro che se ne sta seduto sul fondo delle aule a lezione, con la penna che gira pigramente tra le dita, il cellulare poggiato sul banco, spento, senza un rumore, e una borsa poggiata sulla sedia accanto alla sua.

Quella borsa è sempre lì, come se stesse tenendo il posto a qualcuno, a qualcuno che non arriverà mai, che forse non c'è mai stato. Nessuno si avvicina, nessuno le parla, semplicemente esiste in silenzio e sfiorisce in silenzio, si attira qualche occhiata sfuggente, di quando in quando, quella di chi cerca un posto libero ma lascia stare, proprio come se la temessero, come se da lei spirasse un vento impercettibile, un sapore amaro che tiene lontani tutti, come un meccanismo di autodifesa, perché se nessuno ti sta vicino, non fai male a nessuno. Solo a te stessa. È questo quello che dice, ne sono sicuro, ma in realtà è come un'erba maligna cresciuta in un'aiuola.

Assolutamente sola.

Perennemente sola.

E come tutte le persone sole, incapaci di parlare, incapaci di alzare la testa e tirare fuori un mezzo sorriso stentato che dica “anche io esisto!” soffre dentro di sé, mette la maschera dell'indifferenza o della tranquillità, di una sorta di tranquilla giovialità che sboccia quando qualcuno le si avvicina, un contatto che dura lo spazio di una lezione o di una camminata al di fuori, di una fugace domanda, una finzione che va avanti quanto basta per mascherare quella lenta decadenza che la mangia dall'interno.

Una ragazza di fuoco fatuo che brucia e nessuno la vede, fiammelle che ardono appena sotto la pelle, la consumano, la divorano senza che lei emetta un suono, perché alla fine pensa che sia giusto così, che non c'è nulla che possa fare, che ogni suo tentativo sia destinato a fallire e quando riceve un complimento si schernisce e lo scansa, ma dentro di sé penso esploda, esploda come una supernova, una galassia che collassa, una bomba atomica sganciata nel silenzio del deserto, perché in un respiro forse, si dice, forse può essere migliore, forse c'è modo di ricostruirsi, di essere migliori, di essere quello che si era sognati.

È un sogno che si infrange quando è da sola, quando sta seduta in mezzo ai libri della sua camera sparpagliati, in disordine, libri che ha letto ma che forse non avrebbe voluto leggere, libri che, osservandoli, le danno un senso di amarezza, che le fanno sussurrare a bassa voce, o forse sussurrare solo nella sua testa, perché cazzo ho perso tempo così, perché non ho seguito quello che sarei dovuta essere, che avrei voluto essere.

Impreca, no, lei non lo farebbe, certamente, si direbbe solo che è un fallimento, un fallimento come è naturale, perché nell'esistenza qualche fallimento deve pure esistere e lei è una di questi; ma nonostante questo rimane immobile nel buio ad osservare lo schermo del suo computer, le immagini che le si dipanano davanti agli occhi, si morde il labbro, lo fa quasi sanguinare, stringe i pugni deboli, sente quasi le nocche emettere quel sordo scricchiolio artritico, e si domanda perché, perché non muove il culo, perché è ancora ferma qui davanti, perché non prova a cambiare, a lavorare su se stessa, a mettere da parte il marciume e la spazzatura della sua esistenza.

Ma invece di smettere di guardare quelle esplosioni di colori vuote sullo schermo, invece di muoversi, di leggere quel libro, di studiare quel piccolo capitolo, di guardare quel film, quelle cose che la renderebbero migliore, che ai suoi occhi la trasformerebbero, le darebbero l'aspetto che lei stessa desidera, si morde il labbro e va avanti, prova a non pensarci.

Allontana i pensieri che la divorano e brucia, fiamme che diventano tanto grandi da stringere la stanza in un pugno di fuoco, in cui lei arde come un ciocco di legno secco a forma di pallida, bella ragazza, strana e solitaria, che muore e marcisce come un fantoccio mal costruito.

Seduta su una sedia, con le gambe allungate di fronte a sé, di un'aula scalcinata dell'università, le mani affondante nelle tasche, il cappuccio tirato sul viso, tamburella le dita contro il muro, la musica sparata dentro le cuffie, tanto forte che la sento come se fosse nelle mie, parole che si accavallano, senza senso, suono che fluisce nelle sue orecchie, nell'ambiente, viene masticato e sputato fuori come cibo scadente, come panini secchi del McDonald's, sembra una sorta di spirito, diverso dagli altri, che la gente non perde tempo a guardare, nessuno ci degna di attenzioni, perché in fondo non ce le meritiamo, non siamo che comparse nella loro storia, una storia che forse è meno soffocante di questa, di quella di una ragazza tormentata ed insoddisfatta che giocherella con il cavo del cellulare in attesa di una risposta; un cellulare, no, uno smartphone anonimo, dalla cover anonima, monocolore, come se fosse uno sforzo di integrarsi a metà, mal riuscito, tanto normale e piatto da risultare solo uno scialbo pugno allo stomaco, un elemento di disturbo, assolutamente sbagliato.

Piega appena la testa lateralmente, forse si chiede dove ha sbagliato. Starà dicendo che non doveva dirmi queste cose, si starà dando della stupida, vorrebbe davvero rimangiarsi tutto e tornare a soffocare dentro il suo catramoso cordoglio e il suo dolore indescrivibile. Non quel dolore da romanzo, che passa per la schiena e si diffonde in tutto il corpo, non quel dolore da romanzo, che pesa sul petto come un macigno e fa curvare le spalle, ma quel dolore che non si può descrivere a parole ed aggettivi, ma che, per qualche ragione, per qualche motivo dovuto alle zone più buie e recondite dei nostri neuroni sensoriali, riusciamo perfettamente ad associare a quelle situazioni peculiari insite nel nostro essere.

Il suo è il dolore di chi, nel buio di una stanza alle cinque di mattina, senza avere il fiato corto o il respiro affannoso, senza piangere o strepitare o imprecare, si chiede dove abbia sbagliato. O se abbia mai fatto qualcosa di giusto. Dove abbia preso il tornante non giusto, dove si sia smarrita, quando tutto è iniziato ad andare in salita, perché ogni cosa che fa sembra andare male, perché si disprezza e si disgusta e si odia e si fa, assolutamente, semplicemente, schifo.

Uno schifo che va oltre l'odio fisico, uno schifo riassumibile come schifo dell'animo, uno schifo chiuso in un barattolo, un barattolo a forma di essere umano, specificatamente di età ventuno, specificatamente di sesso femminile, specificatamente incapace di aprirlo e dire a qualcuno che, dentro, sta morendo ogni giorno, perché d'altronde quando si ha paura di se stessi, si ha paura degli altri. Si ha paura di far vedere il proprio schifo, si prova vergogna per un tale, orrido schifo, indescrivibile a parole.

Allora si sceglie il silenzio, il silenzio assoluto, il silenzio divorante che fa stare sempre peggio, che fa strisciare e mentire alle domande basilari, che impedisce di creare rapporti profondi, che impedisce di parlare, che costringe a rendere ogni azione un supremo atto di catarsi, un modo per esprimere se stessi, un modo per parlare di se senza parlare, senza voce, come ora, come sta facendo ora, mentre insistentemente alza lo sguardo attorno e si chiede perché sia sola, perché sia assolutamente sola in quest'aula, perché le persone la evitino, ma abbassa subito gli occhi perché non vuole contatto visivo, perché il contatto visivo la brucia, aumenta le fiamme che schizzano da sotto la sua felpa nera con sopra scritto, a caratteri enormi, uno slogan pessimistico, e se glielo chiedessi, se le domandassi cosa sia, forse per un momento proverebbe a parlarmene, prima di ritirarsi nel suo guscio. Si chiede anche perché io sia qui, perché sia seduto accanto a lei, con un'aula libera come quella, ed è un'ottima domanda, una domanda a cui non saprei dare una risposta diversa dal semplice “mi andava di stare qui,” o meglio, potrei dare un'altra risposta, ma questo implicherebbe pindarici voli e similitudini che funzionano solo in pensieri aggrovigliati, aggrovigliati come i suoi.

In questi silenzi assoluti c'è il terrore, il terrore di aver sbagliato, il terrore di stare soffocando, di stare disturbando, il terrore di aver fallito e ci si dice che, forse, era meglio stare da soli, forse era meglio rimanere imperscrutabili, abbandonati sul fondo dell'aula, senza nessuno attorno, con solo sguardi fuggevoli di quando in quando, a fluttuare come in quella bolla stoica che impedisce di toccare e di farsi toccare, ed è giusto così, perché in ogni caso, “a chi interessa di cosa esce fuori da me?” Lo ripeti quando qualcuno ti parla dei suoi problemi o quando qualcuno ti chiede dei tuoi problemi, quando qualcosa traspare dalla tua maschera o riesci, per una volta, a dire che stai male, che stai molto più che male, che non riesci a smettere di pensare ai tuoi errori, alle tue scelte sbagliate, alla tua incapacità di cambiare o di prendere una strada diversa da quella inerziale. Per cui, in quei momenti, devi salvarti all'ultimo istante e te ne esci con un mezzo sorriso dei tuoi, un biascicato “va tutto bene,” che sembra convincente a tutti tranne che a te stessa, per cui naturalmente pensi che a loro non interessi, ma la verità è che sei diventata brava, sei diventata mostruosamente brava, a fare finta, per cui se tutto va male, in realtà va bene, lo dici con aria piatta e faccia normale, normalissima, a volte ci tiri dentro anche un sorriso, magari un sorriso tirato, di quelli che ti accartocciano la faccia e che ti fanno schifare di te stessa nelle poche foto che ti costringono a fare.

Stai bruciando e nessuno se ne accorge, ma a te sta bene così, perché questo fuoco è solamente tuo, queste scintille e queste fiamme le hai coltivate tu stessa, questo ti ripeti, e se volessi spegnerla, sarebbe tutta una tua impresa, un tuo sforzo, un'impresa per la quale non sei pronta, e che cazzo, no, non imprecheresti, ti limiteresti a constatare con amarezza divorante ma familiare che forse per te non c'è modo di cambiare o di migliorarti, ma solo di rimanere così, immutata ed invisibile per gli altri, per alcune persone, incapace di essere letta per scelta, più che per indole, alla costante, silenziosa ricerca di qualcosa che possa distrarti dall'acido dell'esistenza che ti cresce dentro, alla disperata spedizione per trovare qualcuno che possa capirti.

Anche se si tratta di una bugia anche questa perché finisci per chiuderti nella tua scatola e non comunicare anche con chi cerca disperatamente di abbattere le pareti e preferisci fingere e fingere e fingere, ancora ed ancora, come in uno squallido film adolescenziale sui problemi di comunicazione, quelle orribili americanate che vengono propinate come capolavori perché sono state nominate a qualche premio, e tu sei lì, al centro di questo macrocosmo composto da te, te stessa, medesima, la delusione, l'amarezza, la rassegnazione, la tristezza, l'incomprensibilità, la falsità, e poi qualche viticcio che si allunga a toccare altre persone con cui intrattieni rapporti che sembrano infruttuosi, che esistono solo per esistere, perché ci sono, perché altrimenti saresti sola e, per quanto ti ripeti che non farebbe differenza, essere soli, davvero, assolutamente soli, ti spaventa.

Perché c'è differenza tra non avere nessuno che ti capisce e non avere nessuno, assolutamente nessuno, come in questo momento, in cui sei una grossa, bluastra palla di fuoco ardente, che ogni giorno scivola nella stanza, prima degli altri o dopo degli altri, mai nello stesso momento, per sedersi in fondo, separata, circondata dal vuoto, da quel vuoto indescrivibile che non sai spiegare ma credi di meritare, quel vuoto che non riesci a rompere, o che non vuoi rompere, perché non conosci altro e ti spaventa conoscere altro, ti fa inorridire, ti fa ritirare in te stessa e quindi, a quel punto, aspetti di bruciare da sola, fino alle tue ceneri.

Sei una ragazza di fuoco fatuo.

“Sì.

Ogni giorno.”

 

I fuochi attirano altri fuochi.

Consumano più ossigeno.

Sperano di spegnersi più in fretta.

 

 

   
 
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