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Autore: Elveon    06/09/2018    2 recensioni
Non avevo la più pallida idea del dolore che si portava dentro, di come si fosse spenta la vita in lei, sotto un velo di grigio torpore. A modo mio, riuscivo ad essere brutale, cieco di fronte a siffatta nobiltà, che nascondeva fra le pieghe dell’orgoglio una timida compostezza nel perseverare in quella rarefatta forma di coraggio.
Genere: Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non era neanche l'alba quando, col fragore delle onde sugli scogli e un lontano richiamo di gabbiani, mi svegliai. Credo di aver fatto anche una smorfia orribile, mentre piano mi stiracchiavo e il boato ovattato della risacca riempiva la piccola camera da letto.
Lei era ancora lì, poggiata sul mio petto col viso semicoperto da un lembo di lenzuolo e un fiume di capelli. Avvertivo il suo flebile respiro sfiorarmi la pelle, prima che la brezza mattutina filtrasse attraverso la tapparella, facendomi rabbrividire. Fu piacevole scoprire di avere freddo a poche ore da una notte bollente; fu quasi traumatico, però, capire che ne avevo bisogno. Ma perché? Lì per lì non ebbi neanche la forza di cercare una risposta. Nel dubbio, delicatamente la strinsi. Il suo calore mi confortò, o forse era il suo profumo. Affondai il viso in una ciocca e mi lasciai inebriare da quell'aroma di balsamo, Lucky Strike e sesso. Solitamente mi faceva effetto, ma in quel momento della mia libido neanche l'ombra; piuttosto, ebbi un vago sentore di inquietudine, come se qualcosa non andasse.
Non riuscivo a capacitarmi. Avevo debellato l’ansia da parecchi anni ormai. Eppure stavolta c'era qualcosa di diverso: mi era impossibile arginare quella piena che montava dal fondo dell’anima. Forse ero ancora troppo intorpidito, pensai; oppure solo arrugginito nelle pratiche di contenimento. Così  nel giro di pochi secondi mi trovai combattuto fra il voler fuggire da quel letto e il timore di svegliarla per poi spiegarle tutto.
Prossimo allo scoramento, al limite del masochismo, dismisi ogni barriera e mi lasciai travolgere, consapevole dei rischi. Ciò che partorii fu la peggiore delle mie paure:
Una vita con lei... è davvero quello che voglio?

Poi la mente tornò indietro nel tempo.
Molti affermano che il passato è passato; altri, come me, cercano strenuamente di crederci, consapevoli che in realtà non è così. La sua è una bella storia. Sul serio. Una storia splendida, se non fosse per il finale. Ha trascorso tutta la vita, o quasi, con lo stesso uomo: dalle medie all'università. Praticamente da quando riesci a distinguere una cotta da qualcosa di più, a quando cominci a pensare a come racimolare i soldi del mutuo per una casa insieme. Son perfino arrivati in punto di matrimonio, con tanto di proposta vecchio stampo. Poi lui la tradisce e… Fine. Undici anni gettati al vento per una debolezza reiterata. Quando me l'ha raccontato la prima volta non sapevo che cosa dire. Per me non aveva senso. La mia storia più lunga era durata un paio d'anni, se consideriamo anche l’innumerevole serie di: "adesso basta, è finita!". Mi era sembrato lecito contemplare il perdono, ma avevo la sensazione, poi neanche tanto sbagliata, che io del vero amore non c'avessi mai capito niente. A dirla tutta, per me quella era roba da poesia. La realtà, fino a quel momento, m'aveva parlato una lingua completamente diversa. Non riuscivo a immaginare un sentimento scisso dal piacere della carne. Non avevo la più pallida idea del dolore che si portava dentro, di come si fosse spenta la vita in lei, sotto un velo di grigio torpore. A modo mio, riuscivo ad essere brutale, cieco di fronte a siffatta nobiltà, che nascondeva fra le pieghe dell’orgoglio una timida compostezza nel perseverare in quella rarefatta forma di coraggio. Perché è di questo che si tratta: di coraggio. Aveva tutte le ragioni per non farlo, eppure, alla fine, aveva osato, aveva rischiato, aveva lanciato l'amo, ed io, che la vedevo come la ragazza perfetta, avevo colto al volo l'occasione, ignaro della complicata trama cui stavo prendendo parte. Implicitamente mi stava dando modo di riscattare un'intera vita con la prospettiva di una vera storia d'amore, dall'altro stavo dando a lei l'occasione ideale per risorgere dalle sue ceneri. Stavo per diventare uomo. Lei, per tornare ad essere donna. Per un po’ questa speranza fu verità. Tacitamente enunciammo il dogma fondante e così, come due naufraghi che si trovano nel cuore della tempesta, puntammo tutto sull'isola che non c'è.
Fin da subito mi accorsi che non sarebbe stato facile. Partivamo da due fronti completamente diversi: lei, che dopo una vita di profonda devozione verso il proprio uomo e i propri sentimenti, aveva fatto un passo indietro, imboccando la strada dell'agnosticismo sentimentale; io, che dopo una vita da miscredente, ci credevo davvero per la prima volta. E forse, alla fine, fu proprio questo a permettermi di non mollare, ma ho dovuto faticare parecchio affinché si fidasse nuovamente di qualcuno. Ho lottato, contro ogni mia repulsione, per scatenarle le stesse emozioni di un tempo. A volte mi chiedo se lei abbia davvero ricominciato da zero; le persone lasciano sempre un po’ di se lungo la strada della vita; pezzi che non torneranno mai più. Le prime storie poi, quelle che durano anni, quelle apparentemente perfette, si portano via i pezzi migliori. Ciò che si fa dopo è solo un'opera di restauro: si rimpiazzano i pezzi perduti con altri inventati di sana pianta. È un po’ come mettere le protesi al cuore, e lasciarle li finché il rigetto sarà un ricordo lontano. Allora si ricomincia, o almeno, ci si prova, perché la paura di soffrire di nuovo è sempre lì, in agguato. C'è chi la chiama maturità, io lo chiamo sfregio. Ci sono cose che niente, neanche l'amore, dovrebbe cambiare.
Forse è anche per questo che avrei voluto qualcosa di più da lei; mi ritrovai a peccare di puro e sadico egoismo per non essere geloso di quel passato che l'aveva vista protagonista in tutto, specialmente nel modo di amare: senza remore e senza riserve. Non c'era qualcosa che non avesse già fatto, visto, detto o vissuto con lui. Come ho potuto sperare di essere migliore? mi ripetevo, ancora e ancora. Come posso credere di essere l'uomo della sua vita? ...ed anche quando un barlume di speranza sorgeva nell'oscurità, l'ennesimo dilemma mi rigettava in fondo all'abisso:
Può una vetta già scalata, sognare un altro scalatore?
Poi quel flusso di pensieri venne spezzato.
«...mmh...»
Il suo destarsi mi fece accorgere che la stavo stringendo troppo forte. Allentai la presa, lei si sistemò meglio, ignara, e tornò a dormire. Nella mia mente vagavano ancora ricordi frammentati, sensazioni indefinite che turbinavano intorno al mio smarrimento. Avevo bisogno di trovare qualcosa a cui aggrapparmi per crederci ancora, qualcosa che centrasse il mio equilibrio, o sarei impazzito di lì a poco.
Sulla parete dinanzi vi era già un caleidoscopio di puntini luminosi; piano piano tutte le forme della stanza vennero fuori dall'ombra. Notai a fatica una cornicetta con una nostra foto; da quando c'eravamo trasferiti in questa casetta sulla spiaggia per goderci le ferie, aveva voluto arredare tutto lei. A me lasciava l'onore del consiglio, e così dovevo ancora familiarizzare con questo nuovo layout. A dire il vero in quattro anni non ricordo di due mesi di fila passati con le cose al solito posto. Ha la smania di cambiare tutto; ha un continuo bisogno di rinnovare e rinnovarsi. Ed eccomi di nuovo al punto di partenza. Paura. Paura di fare la fine di una cornicetta, o di un libro: spostato, sostituito, cestinato, con l'unica colpa di aver voluto un posto fisso nella sua vita. "Io voglio te..." ha sempre detto, e con queste dichiarazioni di possesso loro dicono tutto e niente, ma noi siamo troppo presi da qualche loro bellezza, fisica o intellettuale, per vedere oltre le parole, per capire quanto cuore ci mettono, quanto siano realmente coinvolte. Forse come dice il mio vecchio, dovrei vivermela come viene, senza pensarci troppo. Ma come si fa a viversela ancora come dei sedicenni? Sbuffai. Per anni mi ero concesso al miglior offerente, incurante di possibili coinvolgimenti emotivi, ed alla fine mi ero consumato troppo in fretta, senza guadagnarci nulla; nulla che valesse davvero la pena di essere custodito gelosamente. Per la prima volta avevo sentito il bisogno di cambiare, di rispondere alla necessità del cuore di potersi nutrire di qualcosa di diverso, di nuovo, di forte, di travolgente. Qualcosa che avrebbe finalmente lasciato il segno, comunque fosse andata. Potevo essere migliore di così; semplicemente potevo essere in grado di amare, e c'ero riuscito, dando tutto. Davvero tutto. Eppure, già da alcuni mesi non era più lo stesso. Mi sentivo svuotato. Avevo l'impressione di aver corso troppo, di aver superato quell'invisibile limite di ciò che lei avrebbe potuto darmi, ed ora vagavo da solo nel mio delirio d'amore, al punto che cercavo di riempire le giornate come potevo, pur di non pensarci.
Anche se rifiutavo di ammetterlo, credo che stessi attraversando la fase della possessività, e non so quanto fossi lontano dall'ossessione. Non facevo che bramare il momento in cui mi avrebbe dimostrato il suo amore e soffrivo in silenzio, sopprimendo dentro di me la voglia di urlare al mondo che l'amavo. L'amavo più di ogni altra cosa, e le sarei stato grato per tutta la vita per questo dono meraviglioso. Ma al contempo biasimavo me stesso, perché sapevo che prima o poi avrei preteso lo stesso da lei. Avrei voluto sentirmi unico, amato, desiderato; avrei voluto essere lui, che s'era preso il suo meglio, indegnamente. Lo odiavo. Serrai pugni e mascella, e senza accorgermene mi ritrovai nuovamente di schiena sul letto, con lo sguardo al soffitto. Mi resi conto che era paradossale, perché all'apparenza avevo tutto: una bella donna, un bel lavoro, un bell'appartamento, un buon gruppo di amici, una buona famiglia alle spalle... e invece in quel momento sentivo che niente sarebbe riuscito ad essere importante come il mio bisogno di avere il suo amore in modo totalitario. Il mio me di qualche anno fa sarebbe inorridito all'idea di diventare così.


Poi lo sguardo cadde sul vaso di cristallo.
Faceva da supporto ad undici grossi gigli che le avevo regalato per il nostro anniversario, se così si può chiamare. Era una pratica a me sconosciuta, quella del mazzo di fiori, ma non volevo essere scontato, e le rose lo erano. "Il giglio bianco è simbolo di purezza..." mi aveva detto il fioraio. Io, nonostante tutto, la vedevo pura, come puro era il sentimento che mi ispirava ogni sacrosanto giorno. Mi ricordo che lei apprezzò molto alla fine. Non sono mai stato per le cose appariscenti e costose. E' anche vero che i fiori dopo un po’ appassiscono, e prenderli finti non era il caso. Così oltre ai fiori le buttai giù due righe. Il pianto che si fece leggendole mi ha quasi traumatizzato, ma ero contento, estasiato. Come poche volte, lei si era lasciata andare. Amava leggere; sapevo che le parole le sarebbero arrivate al cuore più di ogni altra cosa. Eppure neanche quella volta ebbi il coraggio di dirle tutto. Sapevo dentro di me che non era giusto; sarebbe stata lei, un giorno, quando si sarebbe sentita pronta, a darmi ciò di cui avevo bisogno. Ma il problema ero io. C'era una vaga possibilità che non sarebbe mai successo, o almeno avevo questo sentore. Cosa avrei dovuto fare a quel punto? Più volte mi ero scontrato con questo dilemma, e alla fine mi dicevo sempre che l'avrei aspettata, anche tutta la vita... e poi puntualmente mi smentivo. Non ce l'avrei fatta. Mi conoscevo. Avevo bisogno di lei. Un disperato bisogno di lei, di viaggiare alla stessa lunghezza d'onda. Così, lentamente, s'era fatta avanti l'ipotesi peggiore. Quella che non avrei mai voluto considerare... quella di perderla, semplicemente perché l'amavo troppo.
Ma si può davvero amare troppo?
«...mmh... 'more...» l'aveva appena sussurrato, in un modo così dolce che mi ricordai perché l'avrei aspettata in eterno. Mi venne voglia di coccolarmela, quasi a farmi perdonare tutta quella selva oscura di pensieri, ma la lasciai fare. Quando capitava, quelle poche volte, che mi svegliassi prima di lei, mi piaceva godermi quegli istanti fingendo di dormire, e così, quasi ad esorcizzare la mia angoscia, mi immersi completamente in quella farsa teatrale che così tante volte, alla fine, mi aveva strappato un sorriso. Poi, però, successe qualcosa... qualcosa che non mi sarei mai aspettato. Si sistemò meglio contro di me, lasciando che i nostri corpi aderissero quasi perfettamente, e aprì gli occhi. Lo notai dal battere flebile delle ciglia.
« Sai, ho fatto un sogno strano stanotte...» esordì lentamente.
In quel momento, nonostante la curiosità di sapere, non potei fare a meno di chiedermi se fosse successo altre volte che lei mi parlasse mentre dormivo.
«...fatico di già a ricordare ma... avevamo un figlio. »
Mi si gelò il sangue. Un istante dopo avvampai. A quelle parole il cuore prese a pompare più forte, al punto che temevo potesse sentirlo. Fuori sembrava che perfino il mondo si fosse fermato. Mi sentivo emozionato, e anche parecchio stupido. Mi riusciva sempre meno di mantenere un respiro regolare e profondo. Lei non sembrava entusiasta, e questo mi turbò. Ma d'altronde chi lo è appena sveglio, mi dicevo.
« Tu ci pensi mai? - riprese poco dopo - Me lo chiedo spesso... a volte ti vedo distante, così lontano dall'idea di una famiglia insieme. Sempre pieno di lavoro... da quanto non lo facevamo? una settimana? »
In quel momento mi sentii morire. Morire di gioia. Non potevo crederci. Quindi... quindi era questo che lei avrebbe voluto.
« L'altro giorno mi ha chiamato tua madre; ho capito che si aspettava qualcosa, ma, adesso che... » si bloccò alzando lo sguardo al mio viso e incrociando il mio. Aveva appena preso a sorridere, che quasi sbiancò. Non so se fu più stupita di vedermi sveglio, o di vedere che stavo piangendo.
« Ehi... »
In quel momento mi sentivo devastato di felicità. Accennai un sorriso in automatico, forse per tranquillizzarla. Poi lentamente mi prese il viso fra le mani e mi baciò, con una dolcezza tale che, lì per lì, dimenticai tutto. Nessuno dei due seppe cosa dire. Lei in evidente imbarazzo tornò ad accucciarsi contro di me, ma sapevo che stava aspettando una risposta. Io dal canto mio, come facevo a spiegarle che...
« Scusami. »  
« Non dirlo neanche… sono io a doverti delle scuse. »
La sua espressione divenne curiosa e a tratti stranita. A quel punto non potevo più tirarmi indietro. Così con molta calma mi girai su un fianco, intrecciai le mie dita con le sue e, guardando un punto imprecisato, cominciai.
Parlai per un'ora intera. Sciolsi il nodo che avevo in gola e lasciai straripare quel torrente di emozioni che avevo dentro. Piansi ancora, poi risi... anzi, ridemmo. Sembravamo due tipi da manicomio, ma in realtà avevamo riscoperto un po’ di quella dolce fanciullezza perduta, quando porsi col cuore in mano ti apre ogni chiavistello.
Quell’infinita scala di grigi che aveva ottenebrato le mie giornate riprese il colore dell’alba fiammeggiante, dell’amore ardente, del roseo incarnato che avvampa sotto i colpi di un nuovo immenso calore. Fu come se la vita avesse ripreso a scorrermi nelle vene. Come mi spiegò più tardi il mio maestro di Yoga, avevo sperimentato l’apertura di Anahata, quello che per loro è il quarto Chakra. “Il tuo amore per lei ti ha distrutto ed elevato.” mi disse al termine di una lunga chiacchierata. “Ti ha forgiato come si forgia una spada… ti ha armato, come si arma il cemento.” Ed era straordinario, perché io in quel momento mi sentivo esattamente così: forte come non mai. Avrei scalato montagne, attraversato oceani a nuoto, corso per miglia e miglia, alimentato solo da quella fiamma imperitura. Finalmente riuscivo a sentirmi completo. Terribilmente vivo, e felice… al limite del possibile.
Perfino il mare, fuori, sembrava cantare.
Tuttavia, non potevo dire di avere ancora tutte le risposte. Da qualche parte avvertivo ancora il retrogusto amaro dell’insoddisfazione. Sapevo di avere un conto in sospeso con me stesso; un debito che dovevo assolutamente onorare. Così, con un pizzico di timore, profanai nuovamente la tomba di tutti i miei dilemmi: era la mia prova del nove. Chiusi gli occhi e sospirai. Il tempo iniziò a dilatarsi al punto che fra un battito e l’altro passava un’eternità.
Poi, la pace.
Quel che provai fu un enorme sollievo. Non v’era ostilità, laggiù, ma solo un profondo senso di quiete; quella calma piatta mi apparve come un mare al tramonto, dove l’azzurro si tinge d’ambrato, il freddo si fonde col caldo e l’abisso incontra l’immenso. Lì, fra le braccia vellutate del mio inconscio, ebbi la conferma. Non saprei in che modo spiegarlo, so soltanto che lo volevo.
Così, sorridente di fronte al suo sguardo allarmato, col coraggio impugnato a due mani:

« Vuoi sposarmi? »
Il suo "Sì!" fermo, fugò ogni dubbio.

Ancora a distanza di tempo, quando sento dire: che rumore fa la felicità? mi viene da rispondere: il rumore del mare.
 
  
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