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Autore: Happy_Pumpkin    06/09/2018    1 recensioni
Il detective Shisui Underwood è stato mandato alla città di Innsmouth per risolvere uno strano caso di omicidio che vede presumibilmente coinvolta una setta locale. Ma già a partire dalla notte stessa ha modo di ricredersi ancora sulla realtà dietro gli oscuri avvenimenti della cittadina popolata da misteriosi personaggi.
Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Parole. Nomi. Suoni gutturali che sembravano vomitati dalle profondità della terra e delle acque abissali. Le sentivo nella testa, sibilanti, gorgheggianti nelle orecchie, mi avvolgevano la lingua, stringendomela come per mozzarmela.

[Accenni ShiIta | Presenza di luoghi e nomi ispirati a H.P. Lovecraft]
Fanfiction partecipante alla challenge 20.000 storie sotto i mari indetta dal gruppo SasuNaru Fanfiction Italia
Genere: Dark, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Itachi, Shisui Uchiha
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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Abisso cap 2




Abisso


II
Crepe



Nella vita, esistono dei momenti ben precisi in cui bisogna rendersi conto che non sempre la razionalità è la soluzione per tutto. Forse per questo sin da ragazzino sono stato un fiero sostenitore delle scelte istintive; almeno, suppongo, visto che non ho memoria di chi ero o di cosa facevo. A giudicare da come sono andati questi mesi, ritengo comunque di aver aderito a questa tipologia di scelta proponendomi come un valido esempio di detective dalla testa calda.
Il che ha fatto esasperare Allen nelle poche volte in cui abbiamo collaborato a qualche caso. A mio discapito, però, se nemmeno uno irascibile come lui mi ha ancora ucciso vuol dire che qualcosa di buono riesco a combinare, no?
E poi sono simpatico. Il genere di persona che riesce a smorzare la tensione con una battuta carismatica, abilità da non sottovalutare quando le cose sono andate oltre il livello di disastro totale.
Ma in quel momento, in una notte lunare a Innsmouth passata in una locanda fatiscente, non mi sentivo per nulla simpatico e, sinceramente, avrei voluto aggrapparmi a un barlume di razionalità per spiegare come fosse possibile che un ragazzo morto da giorni, all’improvviso, mi comparisse davanti, trasformato come se avesse sempre vissuto in una realtà acquatica parallela alla mia noiosa esistenza umana.
“Tu eri morto – biascicai, incredibilmente a corto di parole – e come fai a sapere il mio nome?”
Colui che si era presentato come Itachi Uchiha era rimasto fermo. Gocciolava acqua solo dai capelli che ricordavano folte alghe, mentre la pelle a scaglie riluceva umida.
L’espressione sembrò ammorbidirsi, quasi stesse provando compassione per la mia reazione sconvolta, infine replicò con la sua voce che conteneva in sé l’eco del mare:
“Quindi hai perso la memoria – sembrò dispiaciuto, persino più di quanto lo fossi io – con il tempo ti spiegherò tutto. Ma ora… dobbiamo fuggire. Se rimani qui morirai, Shisui.”
Bene, fantastico, non solo il mio collega era scomparso, ora dovevo trovarmi un cadavere misterioso che mi avvertiva riguardo la mia morte prossima.
“So che la città fa schifo, ma da qui a morir…”
“Ascoltami. Prendi le tue cose e fuggiamo. Ti guiderò fino al luogo in cui potremo fermarli: aiutami, prima che sia troppo tardi.”
Lo scrutai, incurante di mostrare una smorfia perplessa. I suoi occhi scuri però erano intensi, profondi, così umani da far spavento.
“Aspetta, aspetta: sto per morire, ma mi chiedi di venire con te per tipo… cosa? Salvare il mondo?”
Feci un sorriso di scherno.
Itachi mi guardò, immobile e silenzioso, perdendo quell’aura di affetto che mi aveva perseguitato in quegli attimi, al punto da desiderare poterla contemplare ancora, ancora e ancora.
“Per evitare la fine del mondo come lo conosciamo.”
Bussarono alla porta.
Sussultai, sentendo il cuore schizzarmi in gola. Mi voltai di scatto verso l’ingresso, udendo una successione di colpi dal ritmo preciso. Quattro, per la precisione.
“Henry.”
Mormorai, sgranando gli occhi. Scattai ad aprire la porta, ma Itachi mi afferrò. Avvertii il tocco freddo delle sue mani sulla pelle: non umido come mi sarei aspettato, ricordava più un oggetto lasciato all’aperto in una notte gelida.
“No. Non aprire.”
Lo fissai. Dall’altra parte della porta, dopo i quattro colpi era caduto il silenzio. Vidi un rivolo d’acqua colare oltre i capelli che accarezzavano il torace bluastro di Itachi, senza capezzoli o ombelico, un corpo non generato dalla vita ma da qualcosa di oscuro.
“Lasciami.”
Con un gesto brusco allontanai il braccio, anche se sentii qualcosa dentro strapparsi, quasi fossi stato io a essere ferito da quelle parole. Itachi non tentò nuovamente di bloccarmi.
Corsi alla porta e faticai per qualche istante a girare correttamente la chiave, dandomi dell’idiota con maggiore frequenza di altre volte, infine la spalancai.
“Allen!” esclamai, vedendomi davanti il mio collega. Notai che aveva perso il cappello, i vestiti erano malconci e non accennava a muoversi; forse per via di Itachi: anche per lui doveva essere stato un bello shock notare il nostro oggetto d’indagine tornare in piedi vivo e vegeto.
Mi girai un istante verso di Itachi e mi resi conto che lo sguardo era fisso oltre le mie spalle, come in attesa di qualcosa. Lo seguii, avvertendo più distintamente l’odore del mare cercare di coprire un profumo dolciastro, nauseante. Non un profumo, realizzai, affatto: un olezzo di morte, di un cadavere in putrefazione che presto avrebbe sperimentato la lenta decomposizione.
“Itachi…” mormorai.
No. Itachi era mare. Era quella spuma potente delle onde tempestose nascoste da un’apparente calma piatta. Tornai a guardare il mio collega. E prima che potessi dire altro, vidi i suoi occhi vitrei, la bocca esangue leggermente aperta e il volto terreo che spiccava più della barba non fatta da giorni.
Poi, all’improvviso, la sua testa scivolò. Lenta, com’era lenta la putrefazione, e in un suono vischioso si staccò dal collo, schiantandosi a terra in un tonfo reso ovattato dalle assi marce del pavimento.
Per una frazione di secondo il corpo rimase ancora in piedi, sospinto da qualcosa di più forte della gravità stessa, e io stentai a credere che quello fosse davvero Allen, o che la testa ai suoi piedi gli appartenesse. Infine, il mio collega, o quanto rimaneva di lui ancora intero, crollò e probabilmente mi sarebbe venuto addosso se Itachi non mi avesse afferrato per la maglia, tirandomi indietro con una forza spaventosa per quello che credevo essere un corpo asciutto, meno fisicamente massiccio del mio.
Sentii i miei stessi passi sul legno che scricchiolò lamentoso, assieme ai battiti del cuore che mi rimbombavano nelle orecchie. Merda. Merda. Merdissima.
Henry era morto, decapitato, testa tagliata e via. E io ero lì, in mutande, con una creatura innaturalmente bella e inquietante, nel peggiore posto di sempre in cui vivere un’esperienza simile.
Cercai di ritrovare la concentrazione, di pensare alle immagini serene come mi avevano insegnato a fare al manicomio, tra una medicina e una fumata d’oppio: una valle piena di fiori, una tavola con del buon cibo, una scopata. No, quella non era tra le visioni consigliate a degli internati, ma io ci pensavo lo stesso.
Mi passai una mano tra i capelli, ma mi voltai comunque verso Itachi quando questi disse:
“Attento. Ora è troppo tardi, dovremo percorrere l’altra via.”
“Che cazzo…”
Udii dei rumori. Di passi, pesanti, mal coordinati: sembravano appartenere a più persone, di corporatura grossa e sgraziata, probabilmente. Guardando verso l’entrata scorsi il corridoio buio rischiararsi da un fascio di luce, quello di torce.
Ripensai a Marsh. Quel grasso figlio di puttana.
“Stanno venendo a prendermi. Cazzo. Cazzo. E Allen… è stato decapitato, però non è schizzato sangue, non c’era pressione. Era già morto? Come…”
La mano che impugnava la pistola tremò leggermente. Deglutii, i passi si facevano più vicini e io ero a mia volta prossimo a morire: perché, me lo sentivo, chiunque fosse venuto a cercarmi mi voleva morto.
Non pensai a rivestirmi, né ad altre cose che in una situazione normale sarebbero sembrate importanti. Potevo sparare ancora diversi colpi, cinque per la precisione, senza ricaricare il tamburo: avevo modo di ucciderli, prima che uccidessero me.
Ma all’improvviso, senza parlare, Itachi mi afferrò il polso e io sentii qualcosa, dentro di me, entrare dalla pelle: una scarica prima di gelo che però si trasformò in una sensazione confortante, come se il mio corpo potesse venire plasmato e... mi andasse bene.
“Vieni con me.”
Il suono della risacca.
Lo ascoltai, accettando quello che mi diceva.

*

Avete presente un’allucinazione portata dagli acidi, solo, senza usare acidi? Probabilmente no, forse perché siete persone responsabili e non avete mai sperimentato nemmeno cosa accada o, forse, perché sembrerebbe impossibile ottenere un simile effetto senza l’ausilio di droghe. E, in effetti, fino a quella notte a Innsmouth avrei concordato con voi: i medicinali che mi davano quando ero internato sapevano catapultarmi in un mondo tutto mio, fino a farmi collassare in un sonno profondo, quello che gli infermieri del Manicomio di Arkham si auguravano per non dover sedare uno schizofrenico o un suicida durante il loro noiosissimo turno di notte.
Ma, appunto, Innsmouth ha cambiato moltissime mie percezioni su cosa potesse essere plausibile e cosa no.
Morti decapitati che camminano? Possibile.
Io che fluttuo sui tetti di Innsmouth trascinato da una creatura acquatica divenuta leggera, come nebulizzata nell’aria? Possibilissimo.
Perché è esattamente quello che ho vissuto scappando da quella claustrofobica camera della locanda.
Itachi mi sollevò da terra come se fossi stato un palloncino d’elio e, quasi in una forma fluida, con i capelli marittimi che avevano preso a fluttuare privi di gravità, mi portò con sé oltre la finestra da cui prese a grondare una cascata d’acqua. Acqua che arrivava dappertutto e, allo stesso tempo, da nessuna parte.
Volammo a pochi centimetri dalle tegole rossicce delle case, a tratti coperte di muffa, a tratti spezzate o mancanti, tra i fumi dei comignoli e le stelle che ci macchiavano la pelle lunare. Sentii delle urla frustrate e, infine, rumore di spari: mi voltai, per vedere Marsh, il suo collega e un altro che non avevo mai visto cercare di arrampicarsi oltre la finestra, ringhiando, perché i loro corpi rigonfi faticavano a passare attraverso.
Quando spararono seguii la scia dei proiettili che, però, fortunatamente ci mancarono, anche se alcuni finirono attraverso i capelli di Itachi senza mai farli smettere di fluttuare; a sua volta, lui non cambiò direzione.
Quando arrivammo alla macchina parcheggiata all’ingresso della cittadina, la creatura mi posò a terra e avvertii nuovamente il peso del mio corpo sul terreno, perdendo per un istante l’equilibrio. Mi appoggiai all’auto, con in testa mille domande, chiedendomi perché non potevamo continuare a elevarci per sempre o in che modo saremmo riusciti ad andarcene, inseguiti da mezza Innsmouth: udii infatti le sirene d’allarme che riecheggiarono tra le case decadenti e le vie sudice con un lamento stridente.
Ma, prima che potessi far presente di non avere nemmeno i pantaloni, figurarsi le chiavi della macchina, Itachi con uno scatto feroce, cambiando completamente la compostezza iniziale, tirò un pugno alla portiera e il vetro andò in frantumi infinitesimali; allo stesso tempo, lo sportello si aprì con un clack sordo.
“Sali, la macchina partirà. Ho ancora un’energia cinetica residua per avviare il motore.”
 “Ok, non so cos’hai detto, non so come hai fatto a fare tutto… – gesticolai, correndo verso il posto del guidatore – tutto questo, ma va bene lo stesso: l’importante è portare il culo il più possibile lontano da qui. Finché non troverò il modo di ammazzarli, dar fuoco a loro, alle catapecchie schifose in cui vivono e riprendermi il corpo di Henry. Merda, l’ho lasciato lì. Ma ti riporterò indietro, amico, lo farò.”
Borbottai qualcosa, giusto per parlare mentre il motore si avviava, e misi la retro.
Guardai Itachi, in piedi dove ancora c’era lo sportello dal vetro in frantumi, la mano sanguinante con delle schegge piantate dietro: il sangue era scuro, simile a melma delle profondità oceaniche prive di luce, ma lui non sembrò sentire dolore.
“Sali 
 lo esortati – se puoi salire o, non so, fluttui, quella roba lì.”
Avvertii degli spari in lontananza, accompagnati da urla che ricordarono più ringhi.
Itachi sembrò esitare un istante, poi aprì del tutto la portiera e si sedette, con un movimento meno fluido e più impacciato, quasi il suo corpo dovesse abituarsi a un simile oggetto umano.
I suoi capelli d’alga gocciolavano ancora acqua, impregnando il sedile, al punto che scorsi una pozza formarsi ai suoi piedi, mentre le dita erano connesse da una guaina trasparente, come fossero palmate, al pari dei piedi. Era nudo, ma non aveva genitali.
Curioso riuscissi a notare tutti quei dettagli in una situazione simile; allo stesso tempo, seppur inseguito al punto da sentire il fiato odoroso di pesce marcio di Marsh e degli altri sul collo, provai una sorta di stupida e adrenalinica esaltazione.
Anche se sostanzialmente mezzo nudo, con solo una pistola che gettai in grembo a Itachi, sentii finalmente di essere nel mio elemento: in una macchina che conoscevo come le mie tasche, finalmente fuori da quella camera opprimente e con la cittadina che presto sarebbe stata alle mie spalle. Sull’onda della positività, mi ricordai di avere nel cruscotto qualche soldo di emergenza che mi portavo sempre dietro, oltre a un distintivo di riserva, contraffatto da falsari che mi dovevano dei favori: spesso, il fondo monetario dato dalla Centrale era ridicolmente misero, e perdere il portafoglio con il distintivo vero nei posti più impensabili era all’ordine del giorno.
Infine, quegli stupidi uomini-pesce non mi avevano nemmeno tagliato le gomme dell’auto per rallentarmi la fuga – a Boston mi avrebbero fatto saltare direttamente la macchina; forse erano convinti di non vedere mai più il ragazzo morto nello scantinato che, invece, era riuscito a portarmi in salvo.
Mi inoltrai a tutta velocità nella strada sterrata fuori Innsmouth, scorgendo attraverso lo specchietto retrovisore le forme sgraziate di Marsh e degli altri che tentarono, furenti, di spararci contro. Ma ero già lontano per venire raggiunto dai proiettili che s’infossarono tra la polvere.
“Grazie.”
Riuscii a mormorare, ritrovando il mio piglio socievole. Avevo bisogno di dire qualcosa, qualunque cosa, meglio se, nel farlo, potevo esprimere la mia gratitudine per essere sopravvissuto.
Per un attimo Itachi non mi rispose, nemmeno mi guardò. Aveva il volto distante, perso a contemplare forse il cielo notturno e le sue stelle.
“Dirigiamoci a sud, verso il promontorio dove c’è l’isola di Nodens. Sarà un viaggio lungo; ti chiedo se, nel mezzo, possiamo fermarci in un motel.”
Istintivamente, sorrisi nel sentire quel linguaggio così educato, persino gentile, che fece riecheggiare qualcosa nelle mie memorie disastrate. Un senso di calore, persino d’affetto.
“Sì, certo.” Replicai senza nemmeno pensarci.
“Grazie.” Rispose Itachi, riecheggiando la mia stessa parola di prima.
Continuai a guidare.

*


Il viaggio in macchina era stato rilassante; provai un vago senso di sonno una volta che la tensione di quella corsa folle scemò, lasciandomi intontito e meno lucido mentre percorrevo le strade scarsamente illuminate del Massachusset. Lanciai un’occhiata a Itachi che sembrava invece non necessitare di sonno: nella penombra pareva un essere umano qualsiasi, anche se teneva a distanza la pistola come se gli desse fastidio; per il resto, quasi non si muoveva.

“Puoi metterla nel cruscotto, se vuoi.” Gli dissi, riprendendo a guardare davanti a me.
Sentii la sua occhiata addosso, infine la replica apparentemente pacata: “Meglio che non tocchi troppo la tua macchina. Credo di avere una buona conduzione e non vorrei compromettere il sistema di avviamento.”
“Accidenti, addirittura? C’è qualche altro superpotere di cui non sono a conoscenza?” scherzai, stropicciandomi un istante gli occhi mentre mi toglievo un po’ del torpore di dosso, grazie a un incipit di una sana conversazione – la mia specialità.
Avvertii un accenno di risata. Forse me l’ero solo immaginata, non potendo vedere l’espressione della creatura se non di sfuggita.
“Non è una questione di poteri. Sono solo diverso rispetto a un essere umano.”
“Quindi… non sei umano? Perché quello che credevo fosse il tuo corpo mi sembrava proprio appartenente a un uomo.”
Replicai, con istintiva ironia. Gli lanciai un’occhiata rapida per cogliere un’espressione ferita e antica, persino saggia; mi pentii di essere stato così diretto.
“Scusa, non…” feci per dire, ma lui scosse la testa.
“Avevo sembianze umane – sentii che continuava a scandagliarmi, come per studiarmi – finché non sono state risvegliate le mie vere origini. Dentro di me ho sempre saputo chi ero; ciononostante, mi mancano certe abitudini.”
Guardai la strada e il paesaggio che si stava lentamente rischiarando, presto illuminato dalle prime luci dell’alba. Non sapevo come Itachi potesse essere tanto calmo: era stato presumibilmente ucciso da gente del suo paese – e, visto che gli stessi poliziotti non avevano esitato un istante a spararci addosso, non stentavo a credere che Innsmouth fosse un covo di fuori di testa – si era trasformato in una strana creatura dotata di scaglie e, come me, era fuggito nel cuore della note dopo aver rischiato nuovamente di rimetterci la vita. Se poteva morire, beninteso.
Io avrei dato di testa. Eppure, mi resi conto che a mia volta accettavo la situazione, quasi fosse scontata. Mi veniva quasi da ridere, perché non avevo più preso nulla, tranne tranquillanti di tanto in tanto e sporadicamente antidolorifici per placare gli attacchi d’emicrania.
Forse quel mese di lavoro a casi comunque particolari, forse quello che dovevo aver passato e non ricordavo, dovevano avermi segnato più di quanto avessi creduto possibile.
“Quindi sei così sereno perché in qualche forma sapevi che non saresti realmente morto, trasformandoti in quello che sei ora.”
“Non è mai una certezza. Diciamo che come i Marsh hanno caratteristiche simili geneticamente, la nostra famiglia, sebbene più giovane, ha a sua volta tratti peculiari che ci accomuna. Tra i quali la possibilità di mutare, anche se non accade a tutti: è una scommessa.”
Sentii nuovamente il suo sguardo su di sé: gli occhi scuri e profondi, l’espressione attenta eppure distante, appartenente a un altro mondo a me sconosciuto. Ritenni di capire quel discorso.
“In quello scantinato – feci presente, all’improvviso – ho visto delle strane scritte, come in un rituale: cosa hanno a che fare con tutto questo? E... suvvia, quella gente è pazza: in cosa ci stiamo andando a cacciare?”
Più andavo avanti con le domande, preso da un’ansia improvvisa di sapere eppure, al tempo stesso, rimanere all’oscuro, più avvertivo una fitta alla testa all’altezza delle tempie, capace di mandarmi lampi d’oscurità agli occhi.
Itachi mi toccò, per poi domandarmi a sua volta:
“Stai ricordando?”
Frenai sul ciglio, portandomi le mani alla testa mentre chiudevo gli occhi per il dolore:
“Cosa? Cosa dovrei ricordare, dannazione? Fa male.”
Avvertii la sua mano su di me salire fino alla cervicale. All’improvviso il tocco mi sembrò più caldo, persino benefico, i miei muscoli tesi si rilassarono e il dolore si attenuò, come qualcosa di sgradevole tenuto nascosto in uno sgabuzzino.
“Scusami. Voglio che tu stia bene. Ricordare non è importante, non più.”
Lasciò la mano lì, sulla mia testa. Io annuii d’istinto, sentendo che quelle parole mi placavano, quella creatura mi faceva bene, simile a una memoria gradevole di una vita felice, capace di scaldare il cuore. Eppure, allo stesso tempo c'era qualcosa di insidioso che mi dava il tormento.
“Quando te la senti – aggiunse Itachi – riprendiamo il viaggio. Fermiamoci al primo motel, hai bisogno di riposare.”
“Posso proseguire oltre.”
“Non ne dubito. Ma io presto avrò bisogno di reidratarmi e il sole eccessivo non mi fa bene; poi, è meglio non dare troppo nell’occhio in pieno giorno: non siamo esattamente raccomandabili.”
Mi guardai, ricordandomi di essere ancora in mutande, inoltre avevo al mio fianco un uomo coperto di scaglie coi capelli fatti d’alghe; effettivamente aveva ragione: non il classico esempio di persone che si vedono passeggiare per Boston e dintorni.
Finii per scoppiare a ridere, ma dentro di me sentivo un vuoto cosmico, l’idea di qualcosa che dovevo recuperare prima di impazzire.

*

Il motel era parecchio dozzinale, tenuto in piedi da qualche sistemazione artigianale qua e là: le porte con cardini cigolanti avevano il legno esterno rovinato e la verniciatura un tempo smaltata era sgretolata, mentre l’intonaco sulle pareti stava cadendo a pezzi, fagocitato da chiazze di muffa estese e rigonfio d’umidità. Il parcheggio era desolato, eccetto per due macchine utilitarie vecchio modello, illuminato dall’insegna ‘aperto’ che ogni tanto tremolava, accompagnata da un ronzio insistente. A tratti, l’asfalto del parcheggio era rovinato, come se la terra fosse stata spinta da qualcosa di oscuro per aprire crepe dove le erbacce fiorivano selvagge, simili a tentacoli.
L’uomo che accolse i due viaggiatori era un ometto dall’aspetto banale, piuttosto in carne, con occhiali dalla spessa bordatura nera che cadevano sul naso e i capelli radi disperatamente raccolti, in un tentativo patetico di coprire la calvizie. Sollevò gli occhi verso i due uomini, con Itachi rimasto nell’ombra rispetto all’unica luce smorta sulla testa dell’albergatore, mentre io appoggiai le mani sul bancone alto, nascondendo il fatto di essere sostanzialmente in mutande e con una pistola dietro la schiena.
“Vorremmo fermarci qui un paio d’ore. E… ha per caso dei vestiti? Di qualsiasi genere, glieli pago.” Assunsi un’aria sicura di me.
“Vestiti, eh? – si prese qualche secondo per osservarci e infine dire – Qualcosa ho. Fanno duecento bigliettoni, più la camera.”
Mi guardò con un certo compiacimento accusatorio.
“Duecento? Sei matto.” Risi.
“Non sono io quello che ne ha bisogno.” Replicò l’altro con scherno, per poi sollevarsi gli occhiali.
Feci per replicare, sempre per tener fede al mio principio dell’istintività, ma dalla penombra Itachi mi bloccò: “Daglieli.”
Parlò con voce morbida, ma talmente decisa da farmi venire i brividi, quasi avesse plasmato parole d’oscurità.
Gli rivolsi comunque un’occhiata come per dire Hai bevuto troppa acqua salata o cosa? ma mi sembrava talmente saggio e a conoscenza di cose a me ignote che tacqui. Finii dunque per tirare l’elastico della mutanda, stando attento a non perdere la pistola, e tirai fuori le banconote, provenienti dal modesto gruzzoletto extra custodito nel cruscotto.
L’uomo contò i soldi, leccandosi la punta delle dita dalle unghie fastidiosamente troppo lunghe, poi mi guardò e appoggiò i contanti sulla superficie usurata, riprendendo a fissarmi.
Vidi che era in procinto di dire qualcosa, ma io presi il distintivo falso e glielo mostrai con sicurezza: “Direi che la camera puoi anche darcela gratis, se non vuoi farci un prezzo equo.”
“Duecento tutto – sbottò l’uomo dopo essere sbiancato, infine mi lanciò le chiavi – la seconda stanza del porticato a destra. Fuori massimo alle dieci o vi addebito un giorno intero in più.”
Non un grande affare, considerando che era già l’alba. Gli sorrisi sornione, senza rassicurarlo su nulla. L’albergatore borbottò qualcosa sull’andare a prendere i vestiti, poi lo vidi scomparire dietro il claustrofobico e stipato cabinato in cui era seduto.
Mi girai verso Itachi e annuii come per dargli fiducia, anche se sembrava stessi facendolo più per me stesso, ma lui annuì a sua volta, accennando un mezzo sorriso con le labbra bluastre, senza sbattere una sola volta le strane ciglia coralline.
Quando l’uomo rientrò,
senza cura appoggiò sul bancone un sacchetto della spesa di fortuna con dentro quelli che, effettivamente, sembravano vestiti; nemmeno mi misi a controllare cosa esattamente ci fosse, fiducioso che ci saremmo potuti adattare: qualsiasi cosa sarebbe stata meglio della nuda pelle, anche perché cominciavo a sentire freddo.
Quando entrammo nella camera, dopo aver fatto scattare più volte la serratura un po’ rigida, vidi che c’era un letto matrimoniale con lenzuola e cuscini dalle federe ingiallite, quasi avessero decisamente troppi anni, ed erano coperte da un pile color terra che, assieme alla moquette che ricordava senape, dava un aspetto vecchio alla stanza odorosa di chiuso. Forse perché effettivamente era vecchia, esattamente come la carta da parati dalle tinte improbabili che si stava lentamente staccando, mentre i mobili di legno erano usurati e scheggiati in più punti.
Mi sedetti sul letto e le molle cigolarono; infine, dopo un istante rovesciai il sacchetto, curioso di scoprirne un po’ infantilmente il contenuto. Due paia di pantaloni quasi sicuramente più grandi delle nostre taglie, camicie a quadri in flanella, un gilet mezzo scucito da cui fuoriuscì un fazzoletto spiegazzato, due cinture consumate e un cappello color grigio topo. Decisamente non il bottino dei sogni, ma meglio di nulla. Ringraziai in realtà che non ci fossero delle mutande.
“Trattamento extra-lusso!” scherzai, per poi guardare Itachi che era rimasto in piedi.
Notai che i capelli non gocciolavano più: sembravano anzi più corti, come se si fossero ritratti. A ben guardarlo anche la pelle era meno lucida e in alcuni tratti le scaglie erano sollevate, simili a pelle secca.
“Stai bene? – domandai alzandomi, per andargli vicino – Ti stai… seccando.”
Nel pronunciare quella parola mi resi conto di quanto fosse ridicola; eppure era proprio quello che stava accadendo al corpo davanti ai miei occhi.
“Sono vincolato all’acqua. E qui non ce n’è abbastanza, devo reidratarmi.” Ammise Itachi. Non sembrò allarmato, solo triste. A ben pensarci, quella creatura emanava una sorta di malinconia intrinseca: per quanto oscura e misteriosa, non riusciva a trasmettermi solo un’idea di paura, evocava anzi in me una nostalgia capace di stringermi il cuore in una morsa.
“La vasca. Siediti e nel frattempo te la riempio. Temperatura?”
Domandai con quasi fare affabile, incapace di non sorridere, quasi come se fosse un gioco.
Itachi accennò a un sorriso mentre si sedeva sul bordo del letto. Qualche pezzo di pelle secca, squame leggere che sembravano d’argento, si staccò dalle guance asciutte. A un battito di palpebre, polvere di corallo nero gli cadde sulle gote.
“Fredda. Ti ringrazio.”
“Figurati, per così poco.” Replicai, minimizzando il grande sforzo di colmare d’acqua una vasca da bagno.
Armeggiai con rubinetto, tappo e getto d’acqua, all’inizio un po’ giallognolo – come se nessuno si fosse lavato da tempo immemore – e poi via via sempre più pulito. Rimasi qualche secondo in piedi a controllare che la vasca si riempisse, poi tornai da Itachi che, silenzioso, attendeva con le mani incrociate sulle gambe.
“Ti aiuto ad andare verso la vasca, sembri debole.” Ammisi, porgendogli una mano.
Con orgoglio, la creatura mi guardò. Non seppi se l’avevo offesa, però non riuscii proprio a smentire una cosa ovvia: in quelle ore di viaggio Itachi era l’ombra dell’essere rifulgente potere di Innsmouth.
Mormorò qualcosa, parole remote e più flebili di un sussurro, però alla fine accettò il mio sostegno. Quando si alzò, parte dei capelli d’alga rimase sul letto e sulla schiena, simili a erba secca; ma Itachi non sembrò prendersela particolarmente e replicò, guardandomi con occhi d’abisso:
“L’aria mi uccide, ma posso impedirglielo.”
Fece una sorta di sorriso furbetto, al quale replicai increspando le labbra di riflesso. Proseguimmo fino al piccolo bagno, dalle piastrelle di un azzurro pastello incrinate in alcuni punti, dove la vasca si era riempita fino quasi all’orlo di acqua che rifletté lo stesso colore ceruleo della stanza. In quei pochi passi, avevo sentito l’inconsistenza del peso della creatura, fondale d’oceano in secca, e il suo odore iodato, quasi come se la spuma e la tempesta mi si fossero incollati addosso. Solo allora, così vicino a lui, notai delle ferite dietro le orecchie: sembravano branchie, esattamente come quelle dei pesci.
Quando fummo di fronte alla vasca, curioso gliele sfiorai  con un dito e Itachi sussultò, guardandomi un istante stranito, ma non disse nulla. Si limitò a portare su di esse la mano palmata, dalle venature trasparenti e leggere tra le dita diafane, come per proteggerle.
“Scusami.” Bofonchiai, sentendomi infantile.
Lo lasciai per chiudere il rubinetto un tempo di metallo scintillante, il cui smalto era saltato rivelando un’anima arrugginita; infatti quando ruotai la manopola essa cigolò triste, ma l’acqua finì lentamente di fluire, limitandosi ogni tanto a gocciolare pigra sulla superficie piatta.
“Ti aiuto a entrare, sembri un vecchietto coi reumatismi.” Scherzai, per quanto io fossi persino meno dignitoso, tra le mutande e la canotta sporca dalle recenti peripezie.
Itachi accennò, sorprendentemente, a una risata. Però non parlò, limitandosi ad annuire quasi per dare conferma alle mie stupide parole.
Una volta che la creatura entrò nel suo elemento, già mi sembrò di vedere risplendere di una luce nuova le sue scaglie che si animarono di colori vibranti; quando si immerse completamente, scorsi mille sfumature di azzurro, blu e verde pennellarsi sul suo corpo, come se invisibili correnti d’elettricità si irradiassero sulla sua pelle, sospinte dall’acqua stessa che le rendeva vive. I capelli d’alga, tessuto di un verde cupo eppure intenso, si gonfiarono, fluttuando animati da una corrente impalpabile.
In piedi, lo contemplai e provai l’impulso di raggiungerlo. Lui aprì gli occhi e, nel silenzio irreale del bagno, mi guardò da sott’acqua. I coralli, miniature di perfezione, sembravano ospitare organismi millenari, ultima barriera prima dell’universo dietro le iridi scure che racchiudevano misteri. Nella stanza minuscola si diffuse l’odore del mare, della salsedine, delle onde che schiaffeggiavano gli scogli e le barche in legno coperte di bitume e vecchi molluschi.

Mi sedetti sul bordo della vasca, sfiorando la superficie con le dita per rompere con lievi increspature una superficie altrimenti piatta. Non vidi bolle provenire dalle narici di Itachi che continuava a guardarmi e sembrava poter respirare dalle ferite dietro le orecchie, le stesse che effettivamente avevo notato sul cadavere.
Lo fissai e, per un attimo, credetti volesse trascinarmi giù con sé, facendomi sprofondare, quando fino a poco fa pensavo di essere io ad anelare l’acqua. Mi sentii confuso, disorientato, spaventato eppure affascinato al tempo stesso.
Per questo tolsi la mano con un gesto rapido e mi alzai in piedi; l’asciugai su di un panno consumato da troppi usi e lavaggi, quindi uscii dal bagno, per poi sedermi sul letto. Non udii movimento dalla vasca e mi sentii meschino: forse mi andava bene così, forse desideravo che Itachi uscisse. Che tornasse a essere quel cadavere, però vivo, umano. Uomo.
Mi grattai la cicatrice, nervosamente. Più volte, fino a dover smettere prima di farmi realmente male. Che fine aveva fatto tutta quella positività di cui mi ero circondato durante il viaggio?
Sollevai lo sguardo che mi cadde sul mucchietto di vestiti tolti dal sacchetto. Scorsi qualcosa in mezzo che prima non avevo notato. Con un gesto lento avvicinai la mano, tolsi una maglia, poi un pantalone e scoprii di cosa si trattava.
Mi morì un ultimo respiro in gola.
Feci saettare gli occhi verso il bagno e tesi le orecchie, mentre la mano era rimasta immobile; Itachi era ancora dentro, nella vasca. Poi riportai rapido lo sguardo verso i vestiti e raccolsi ciò che non mi aspettavo di trovare nel mezzo: un blocchetto per gli appunti.
Non uno qualsiasi. Lo stesso, identico, usato da Henry Allen. Henry, che io avevo lasciato a Innsmouth, senza potermi voltare indietro. Lo riconobbi dalla rilegatura in cuoio, i bordi un po’ usurati, le pagine ingiallite e rigonfie di scritte.
Perché era lì? Cosa ci faceva? Il tizio del motel? Ma in che maniera poteva sapere dove trovarlo o prenderlo, anche solo prevedere che noi saremmo passati di lì. No, impossibile.
Lo afferrai, espirando: avvertii delle fitte alla testa lancinanti capaci di togliermi il fiato, ma non lo lasciai. Con movimenti convulsi, disperati, consapevole del frusciare della carta in una stanza immersa nel silenzio, aprii il blocchetto e cominciai a leggere le note e le trascrizioni di Allen.

Annotazioni scritte muri e riflessioni.
Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn. Indica R'lyeh? Shisui può leggerlo?

Io? Perché avrei dovuto? Le ho sognate quelle parole, le ho sentite. Ero sulla scena del crimine, d’altronde, ma… quando le ho lette?

Incisioni cultistiche. Non è opera dei cultisti di Dagon. Legati a Cthulhu? Uchiha? Da qui la differenza di abitudini e deformazioni rispetto ai Marsh. Indagare legami setta e Uchiha.
Connessione a omicidio Sasuke Uchiha?

Rilessi il nome. Più e più volte. Sasuke. Tornai a guardare la porta del bagno. Itachi sarebbe uscito? Mi avrebbe visto? Cosa doveva vedere o capire?

Sasuke.

Chiusi gli occhi. Sentii il suo nome, sussurrato dalle onde. Li riaprii, avvertendo la bocca secca, per poi continuare a leggere. Le mani tremavano ma non ci feci caso e sfogliai un’altra pagina, l’ultima scritta da Allen.

Ho chiesto a Zadok Marsh, dopo aver controllato il cadavere all’obitorio: i segni dietro le orecchie che aveva l’uomo, Itachi Uchiha, erano gli stessi del ragazzino morto.
Gli ho estratto l’informazione, non voleva parlare.
Itachi e Sasuke erano fratelli.

Non è possibile.
Perché però mi sembrava di saperlo? E non mi piaceva, non mi piaceva affatto ricordarmene. Grattai la cicatrice alla tempia, sentii l’unghia scavare la pelle, consumandola. Faceva male.

Morte Itachi Uchiha: 10 aprile.
Morte Sasuke Uchiha …  No, no, non dovevo saperlo, dovevo dimenticarlo, dimenticarlo! 10 aprile.
È passato un anno. Connessione?

Mi alzai in piedi, tenendomi la testa fra le mani dopo aver gettato a terra il blocchetto. Aprii la bocca e urlai. Cercai di farlo, di gridare, di aprirmi in due il cranio e tirare fuori il dolore, tutto quel dolore condensato tra le spire dell’encefalo annidato nella mia scatola cranica, ma… non uscì un suono.
Tutto quello che provenne dalle mie labbra secche fu un vago eco ovattato, bolle indistinte di un corpo immerso nell’abisso. Ansimai, passandomi le mani sul volto.

Un anno fa.

Sentii la voglia di piangere. Mi toccai la cicatrice. Avvertii qualcosa di caldo macchiarmi la pelle. Sangue. Non avevo scavato abbastanza, il male era ancora lì.

Un anno fa ero stato ricoverato al Manicomio di Arkham.

Non fidarti di lui!

Le parole pronunciate da Daves prima di morire sibilarono attraverso la cicatrice, penetrandomi fin nel cervello. Puntai lo sguardo sul bagno, ignorando il taccuino caduto a terra. Il cuore pompò sangue e paura, una paura arcana.
Itachi. Non gli uomini di Innsmouth, non divinità occulte. Itachi.
Ne fui certo, me lo sentii. Mi avrebbe ucciso. E io gli avevo permesso di toccare l’acqua, di rendersi di nuovo forte, potente e terribile. Quant’ero stato stupido, ammantato da quella gentilezza rarefatta. Mi avrebbe ucciso come aveva ucciso suo fratello, un anno fa? Perché era stato lui, doveva essere stato lui. I Marsh non c’entravano nulla, Allen l’aveva capito, per questo è stato ucciso e io avrei fatto la stessa fine.
Perché ero stato ricoverato? Non aveva importanza, io dovevo vivere. Solo questo.
Mi portai una mano alla tempia, bloccando il flusso del sangue mentre cercavo di riprendere il controllo del mio respiro. Itachi avrebbe capito, mi avrebbe sentito e annusato la mia paura. Non doveva sapere o sarei morto.
Quella notte, nel sonno, avrei ucciso la creatura. Era bellissima, qualcosa di totalmente inumano, ma proprio per questo, per questo suo potere e i suoi segreti, mi avrebbe divorato.
Avrei aspettato la sua lontananza dall’acqua, solo questo. Sentii, ancora, la voglia di piangere e non seppi il perché: prima, nel viaggio, eravamo felici. O forse ero solo io a crederlo, stupido, stupido uomo semplice e sentimentale.
In quell’istante, vidi Itachi Uchiha. Era nuovamente forte, portava con sé l’oceano e i suoi colori, la sua potenza e quel senso di sconfinata perdizione: le sue scaglie erano metallo fuso dalle ombre colorate del vetro, i suoi capelli il fondale in cui si intrecciava la vita e gli occhi mi guardavano solo apparentemente inespressivi. C’era nei suoi riflessi il grigio dell’orizzonte in tempesta e l’eco nostalgico di un vecchio pescatore. Ma il nero emergeva dalle iridi, mano oscura che trascinava a fondo.
“Stai sanguinando.” Constatò, fermandosi di fronte a me.
Tolsi la mano dalla tempia e mi guardai il palmo, instupidito, vedendolo tinto di rosso.
“Non è nulla. Sto bene.” Mentii. E soffocai la mia paura primordiale nell’avere quella creatura di fronte. Gocciolava acqua, come io perdevo sangue.
Allungò la mano. Rimasi immobile, ma non respirai, soggiogato dai suoi occhi e dal mio istinto di sopravvivenza.
Mi toccò la tempia, come già aveva fatto in macchina ore fa. Espirai, una sola volta. Non riuscii nemmeno a chiudere gli occhi.
All’improvviso il dolore cessò, le fitte dilanianti alla testa tacquero, facendo pace con il mio cervello. Itachi ritrasse la mano e io mi toccai la cicatrice: aveva smesso di sanguinare.
“Riposati.” Sussurò la creatura. Il suono della risacca del mare custodita da una conchiglia.
Non sentii altro, perché avvertii il mio corpo farsi pesante e crollare in un tonfo sordo. Riuscii solo a muovere una volta gli occhi per cercare con lo sguardo il taccuino ma, mi accorsi, era sparito.

*


In quelle poche ore di sonno prima del sorgere del sole cercai di svegliarmi, così da tenere fede al mio proposito, ma non ci riuscii. Fu come se un sonno profondo mi avesse tenuto ancorato al letto, permettendo alla mia mente d’involarsi altrove: sognai città immense e diroccate, creature dal capo coperto di spuma, sabbie infinite nelle quali si immergeva il cielo.


“Stai ricordando?”

Avvertii la bocca essiccarsi e il mio corpo volare assieme al pensiero, galleggiando nel sogno. Poi, mi svegliai di soprassalto: era piena mattina, scorsi la luce morbida del sole filtrare attraverso le imposte e le tende polverose. Vidi Itachi intento a scrutare attraverso la finestra, negli unici spiragli che consentivano di guardare verso il parcheggio silenzioso; le sue scaglie dalle migliaia di sfumature sembrarono più vivide sotto i raggi solari.
Mi portai una mano al collo, faticando a deglutire, come se qualcosa mi fosse rimasto incastrato in gola. Avvertii una sete disperata e quando provai ad aprire la bocca vidi una massa secca e oscura fuoriuscire, sgretolandosi sul mio grembo.
Itachi si voltò e io lo guardai. Ma quando riportai gli occhi su di me, non vidi nulla, neanche una traccia di ciò che avevo scorto, o forse avevo creduto di scorgere.
“Cosa mi hai fatto? – domandai, fissandolo – Sta succedendo qualcosa e tu...”
Chi sei veramente? Mi vuoi morto?
Non pronunciai quelle domande. Se Itachi mi avesse voluto morto, avrebbe potuto uccidermi in qualunque momento mentre ero incosciente, ma non l’aveva fatto. Questo significava che aveva un altro scopo, era chiaro anche dal mio salvataggio a Innsmouth.
L’isola di Nodens.
Era lì che Itachi doveva andare e aveva bisogno di me. Mi avrebbe fatto fuori, una volta arrivato? Che cosa c’era a Nodens che meritava tutta quella fuga e quei rischi?
Mi riscossi quando vidi Itachi davanti a me con in mano un bicchier d’acqua; me lo porse e, dopo un istante, lo presi con una certa diffidenza. Mi sentii persino in colpa in maniera contraddittoria, quasi come se ci fosse un’attenzione disinteressata nei suoi gesti.
Finii per bere; non poteva farmi dormire, o senza di me non saremmo arrivati da nessuna parte: le fonti d’acqua erano lontane, fiume Miskatonic compreso, e Itachi non poteva certo fluttuare esposto agli sguardi altrui senza rischiare. Quindi aveva comunque bisogno di me, questo mi rendeva temporaneamente protetto e mi dava il tempo di agire.
Posai il bicchiere sul comodino.
Itachi parlò all’improvviso: “Eri stanco, si vede che necessitavi di dormire.”
Simulò bene una sorta di interesse, ma i suoi occhi mi scrutavano per smascherarmi come in cerca di un segno rivelatore, di un segno che sapevo.
“Forse. Sento un sapore strano in bocca, come di terra.” Ammisi, fissandolo a mia volta con una sorta di sorriso, di quelli un po’ accattivanti che tiravo fuori quando parlavo con la gente. Itachi non ricambiò quel sorriso.
“Bevi ancora, se hai sete. Forse è solo questo.”
“Già. Forse è solo questo.” Ripetei.
Ci vestimmo. Quando conclusi, mettendomi addosso quello che capitava dal modesto mucchio pagato una fortuna, mi resi conto che Itachi era stato più lento. Forse per via delle mani, forse per il fatto che quel corpo non era pensato per stare avvolto da tessuti umani. Senza rifletterci lo aiutai ad allacciarsi i bottoni della camicia: un gesto stupido, quasi affettuoso per chi aveva appena pensato di uccidere ed essere ucciso da quella stessa persona; però agii come mosso da un riflesso incondizionato: non posso farci niente, a volte – spesso – sono istintivo.
Itachi mi guardò e, senza una parola, mi lasciò fare. Solo una volta, una soltanto, le sue mani fresche, non gelide, sfiorarono le mie, con una gentilezza accorta che non mi aspettavo.
“Grazie.”
Replicò non appena finii di allacciargli la cintura.
Ancora l’eco del mare, ipnotico. Cosa stava cercando di fare, Itachi, esattamente? Non dovevo avvicinarmi ancora, non più. Però perché l’idea mi sembrava intollerabile? Era stato questo il risultato di quella notte carica di fenomeni inspiegabili?
“Ci dirigiamo all’isola di Nodens, giusto?” domandai, cercando di mostrare un tono spensierato.
“Sì.” Confermò l’altro. Se se la fosse presa per il modo in cui avevo ignorato il suo ringraziamento, non lo diede a vedere. Una parte di me si dispiacque: avrei voluto scorgerlo arrabbiato, per dimostrarmi che ci teneva. Per credere che non mi volesse davvero morto, che tutta quella storia di Innsmouth e della sua famiglia, degli omicidi e della setta non fosse reale. Gli appunti di Allen nient'altro che il delirio di un uomo traumatizzato e solo.
Ma Itachi semplicemente uscì, anticipandomi verso la macchina.
L’odore del mare e l’aura abissale della sua presenza diminuirono all’improvviso. Guardai il bicchiere. Afferrai il lembo del lenzuolo, me lo avvolsi nella mano e spaccai il contenitore in vetro contro il comodino. Rapido, presi la scheggia più grande, capace di adattarsi perfettamente al mio palmo, buttai il resto e la avvolsi nel fazzoletto spiegazzato preso dal gilet, infilandomi il tutto nella tasca dei pantaloni un po’ larghi. Controllai che non si vedesse alcun rigonfiamento e, una volta presa anche la pistola, lanciai un’ultima occhiata alla stanza, aspettandomi all’improvviso di vedere ancora il taccuino di Allen ma, ovviamente, non c’era traccia.
Per un attimo dubitai persino di averlo realmente toccato quella notte.
Quando richiusi la porta dietro di me per incamminarmi verso l’auto, però, mi resi conto di non aver guardato il bagno, né rifatto il letto, sollevando le coperte; logicamente, non controllai nemmeno il giardinetto secco sul retro del motel.
Visto tutto quello che sarebbe accaduto dopo, a posteriori rimpiansi di non averlo fatto.
Forse, a quest’ora, sarei ancora vivo.



Sproloqui di una zucca

Il mistero s'infittisce, muahahah! Di questo capitolo mi piace il cambio di percezioni. Se all'inizio Shisui si fida di Itachi, o comunque ne è affascinato, con il passare delle ore questa sensazione cambia. Qual è la verità? Cos'è successo un anno prima?
Un sacco d'interrogativi che non avranno risposta! Scherzo, scherzo, ci saranno con il prossimo e ultimo capitolo.
Grazie per aver letto e alla prossima <3

Immagine: http://malignedaffairs.tumblr.com



   
 
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