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Autore: Enchalott    07/09/2018    5 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a chi si appassionerà! :)
"Percepì il Crescente tatuato intorno all'ombelico: la sua salvezza, la sua condanna, il suo destino. Adara sollevò lo sguardo sull'uomo che la affiancava, il suo nemico più implacabile e crudele. Anthos sorrise di rimando e con quell'atto feroce privò il cielo del suo colore".
Genere: Avventura, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Deviazione
 
Il guardiano della prigione agganciò con calma esiziale la torcia all’anello di bronzo verdastro e avanzò inesorabile nella sua direzione.
Màrsali si trascinò sempre più indietro, strisciando sul duro pavimento di pietra, finché le catene che le circondavano i polsi esili non le incisero la carne già segnata a fondo, infondendole una nuova fitta dolorosa.
“Vi prego… vi prego, non avvicinatevi…” pregò tra le lacrime, tentando di scalfire lo sbarramento truce che era l’uomo che la fronteggiava, quasi certa che non l’avrebbe né ascoltata né risparmiata.
Incombeva su di lei, minaccioso e possente, ombra nell’ombra.
La schiena della ragazza raschiò contro la parete gelata e umida. Si sentì perduta.
“Abbiate pietà, vi imploro…”
Il cappuccio di pesante fattura celava il volto dell’energumeno e le chiavi lunghe e arrugginite tintinnavano alla cintola borchiata ad ogni suo nuovo passo, come un accanito conto alla rovescia.
Màrsali si raccolse su se stessa, incapace quasi di respirare, di pensare che cosa ne sarebbe stato di lei dopo quella violenza, quell’umiliazione lancinante e ingiusta che le sarebbe stata inflitta di lì a breve.
“No! Non mi toccate! Vi prego, non fatelo!”
Il carceriere la raggiunse e la costrinse nella sua direzione con un movimento brusco. Odorava di cuoio e di stantio, di gelo e di uomo.
La veggente iniziò a gridare, mentre le lacrime eruppero dagli occhi brucianti, nel disperato e vano tentativo di liberarsi dalla sua stretta tenace.
“Guardami…!” ordinò lui con una voce roca e incerta, come se fosse rimasto a lungo in silenzio ed avesse perso l’allenamento alla favella.
Ma la giovane serrava le palpebre e si difendeva da quell’aggressione, rifiutando il contatto, terrorizzata e quasi senza più forze.
“Màrsali…!”
Non sarebbe stato il suo nome, pronunciato con una sorta di considerato rispetto, a farla abbandonare imbelle alla sua condanna, al colosso che la strattonava per prenderla contro il suo volere. Avrebbe preferito morire, piuttosto che cedere se stessa al disonore, allo sfregio vergognoso ordinato dal reggente.
La cappa scura del carceriere scivolò sulle spalle robuste nella colluttazione e il suo volto duro e annerito fu illuminato dai bagliori tenui della fiaccola. Una lunga ferita gli attraversava la guancia destra, parzialmente celata dai capelli ispidi e dalla barba incolta. Gli occhi scuri erano aggrottati sotto le folte sopracciglia.
“Màrsali. Màrsali, non ti farò del male…”
“No, vi supplico, non toccatemi!”
Quella promessa non la confortò. Reagì ancora, spingendolo indietro con le braccia tese. Ma qualcosa nel suo tono riguardoso la colpì. Riaprì gli occhi e li fissò sul suo aguzzino, tremando di paura.
“Non mi riconosci, piccola Màrsali?”
Quella voce…
 
Così prenderai freddo, piccola Màrsali…
 
Qualcosa di lui scaturì debolmente dal passato, rendendole palese l’identità del guardiano. Furono quelle parole a diradare la sua nebbia e a restituirle la speranza.
“Kesthar…?” balbettò, sgranando gli occhi, diffidente.
“Sì…”.
“Non… non è possibile!”
Sotto lo strato di lordura e l’aspetto selvaggiamente irsuto, il viso granitico che la fissava era quello del suo antico vicino di casa.
Lo ricordava come un ragazzo di una decina d’anni più grande di lei, che la faceva giocare in mezzo al giardino innevato, aiutandola a plasmare buffi pupazzi di neve nel gelo invernale. Che la faceva volare in alto tra le braccia robuste, quando era ancora una bambina, facendola ridere, per avvicinarla alle nuvole lontane. Che le prestava la sciarpa logora, per tenerla al caldo. Un giovane buono e onesto, che lavorava come maniscalco, di cui aveva perso le tracce quando i soldati gli avevano dato fuoco alla bottega, perché non aveva di che pagarli. Era pressoché irriconoscibile.
“Kesthar… pensavo che tu fossi…” mormorò con un po’ di sollievo.
“Morto? Ci sono andato vicino” ammise lui, sedendosi a terra e prendendole delicatamente le mani tra le sue.
Sganciò il mazzo dei ferri dal fianco e cercò quello adatto, liberandole i polsi dai ceppi. Osservò le ferite livide e profonde con un’espressione avvilita.
“Mi sono salvato dell’incendio, ma non potrei definirla una fortuna in verità… Mi hanno rinchiuso qua dentro e ancora non comprendo come mai la fame e il freddo non mi abbiano dato il colpo di grazia…”
Màrsali lo ascoltava, ancora incredula, massaggiandosi le membra indolenzite. La cicatrice lungo il suo viso sembrava una ruga dolorosa, mentre raccontava la sua breve e disgraziata storia.
“La casa mi è crollata addosso, ma le fiamme mi hanno risparmiato, anche se ne porto addosso la firma…” continuò, tastandosi mestamente la guancia “Certo, le guardie non si sono impietosite, quando mi hanno scovato che ancora respiravo in mezzo alle macerie carbonizzate. Un uomo vivo può sempre saldare i suoi debiti. O lavorare come un animale. Hanno pensato questo, quando mi hanno trascinato via da ciò che restava della mia esistenza precedente. A causa di quanto ho subito quel giorno lontano, sono diventato quasi completamente sordo. Forse è per questo motivo che mi hanno reclutato come sorvegliante della prigione, quando il mio predecessore è deceduto: io non posso sentire le urla dei condannati, le loro lagnanze e neppure i discorsi privati che vengono fatti all’interno di queste pesanti mura. So che la mia vita è legata a questa fogna per il resto dei miei giorni. Sono ormai parte di essa.”.
“E’ terribile…” sussurrò la ragazza, anche se lui non poteva udirla.
L’uomo le sollevò il mento, abbozzando un sorriso timido.
“Ho imparato a leggere le labbra, perciò se vuoi dirmi qualcosa, mi devi guardare…”
“Mi dispiace, Kesthar…” disse lei, scandendo le parole.
L’uomo scosse la testa, rassegnato e meditabondo.
“Ho saputo che cosa è successo a Odhran… la morte è scesa sulla nostra terra. E’ solo questione di tempo, tutti siamo destinati a finire presto nel suo nero abbraccio”.
“Non dire così…”
“Io… io non sono più il ragazzo che ricordi, Màrsali. Per sopravvivere ho dovuto diventare l’essere spregevole che vedi ora. Sono divenuto il crudele guardiano delle prigioni di Jarlath e non posso permettermi di provare pietà. Mai. Qui mi chiamano Haffgan, come uno degli spiriti che governano l’Oltretomba. Perché divido l’esiguo cibo e il tenue fuoco tra coloro i quali trascinano le loro sfortunate vite in questo luogo tetro. E la mia decisione spesso ne decreta la vita o la morte.
Ho compiuto azioni che…” sospirò, in preda all’angoscia, passandosi le mani tra i folti capelli “Tuttavia, quando ti ho vista tra le grinfie dei soldati del principe e ti ho riconosciuta, qualcosa in me si è ribellato. Non tu, piccola Màrsali, non qui. Sopravvivere a Odhran solo per finire in questo inferno gelato. No. Non posso consentirlo. Tu sei uno dei ricordi che mi ha mantenuto sano di mente. Ho rammentato quando giocavamo insieme nella neve, mentre mi torturavano; quando mi portavi la minestra calda bussando allegra alla mia finestra, mentre facevo la stessa cosa con i miei prigionieri; quando cantavamo insieme vicino al camino di casa tua, nelle notti in cui gli incubi mi facevano visita. Per la prima volta, dopo tutti questi anni, mi sono sentito nuovamente umano… per un momento ho pensato che, forse, non tutto dell’attuale me era orribilmente ributtante, che avrei potuto aiutarti, nonostante i rischi, per riscattarmi da…”
La ragazza gli strinse forte la mano, con un nodo alla gola.
Vite spezzate e dolore. Morte e devastazione. Ferite indelebili e anime deturpate dalla sofferenza. Anthos avrebbe dovuto farsi carico delle conseguenze delle sue azioni sciagurate. Del suo aver rinnegato fino all’ultima riga la Profezia che avrebbe salvato i Regni. Lei era l’ultima veggente. Non poteva permettersi di alzare le braccia e rassegnarsi a piangere senza mettere in gioco se stessa. L’incontro con il suo amico d’infanzia non era una pura casualità, ne era convinta. Era un filo sottile, ma era l’unico a cui potesse aggrapparsi.
“Non voglio che tu ti metta a repentaglio per causa mia” gli disse ferma “Se tu mi facessi fuggire, il reggente lo verrebbe a sapere e sarebbe finita per entrambi”.
“Non posso lasciarti marcire qui dentro, piccola Màrsali…”
“Dovrai farlo. Solo così troveremo un modo per salvare Iomhar e questo mondo. Sento che verrà il giorno. Fidati di me”.
Kesthar osservò la trama azzurra dei dehalbh, che segnavano le mani della fanciulla e i suoi occhi celesti, disperati e sereni in concerto. Si sentì invadere dalla quiete che gli mancava da tempo immemorabile e dal calore di quel sorriso di giovane donna.
“Sei tu la veggente” rispose, chinando leggermente il capo “Mi fido e ti porto il rispetto che meriti. Ma non obbedirò all’ordine che mi è stato impartito. Non ti farò del male”.
“Devi rimettermi le catene, invece, e fingere di non conoscermi”.
Il carceriere aprì la scarsella di pelle che gli pendeva dal collo e ne trasse un vasetto cilindrico di vetro blu. Svitò il tappo e un forte odore medicamentoso si diffuse per la cella.
“E’ unguento. Ti disinfetterò le lacerazioni, prima di importi nuovamente quella tortura. Non se ne accorgerà nessuno. Più tardi ti porterò qualcosa da mangiare e una coperta. So che non è molto…”.
“Si accorgeranno che non mi hai usato violenza…”
“No. Fingerò di averlo fatto. Tu simulerai di avere perso la visione profetica. Ti chiedo scusa in anticipo. Dovrò strapparti i vestiti per rendere veritiera la versione che darò. Di lividi vedo che ne hai già a sufficienza, invece” commentò amaro.
“Sono pronta” rispose lei.
Kesthar si avvicinò e le passò il medicinale sulle ferite, facendola sussultare. Poi le fasciò i polsi, con una garza improvvisata dalla sua lunga gonna, imprecando contro la crudeltà del reggente del Nord.
“Perché è venuto qui? Che cosa voleva da te quel tiranno?” le domandò accigliato.
“Lui teme la Profezia. Voleva che io…”
La voce le morì in gola, come se un gigantesco artiglio d’acciaio le stesse serrando la trachea. Un dolore lancinante la invase, scuotendo il suo corpo e riversandosi in tutto il suo essere con devastante potenza. La magia la bloccò, così come Anthos aveva garantito, infliggendole una sofferenza indescrivibile. Tentò di urlare e non riuscì. Tutto divenne nero.
 
 
 
La regina Eudiya si precipitò negli appartamenti della figlia maggiore, sollevandosi i lunghi vestiti per essere più agile, mandando definitivamente all’aria l’etichetta di corte. Le guardie faticarono a starle dietro, mentre saliva rapida la scala a chiocciola, con il cuore in tumulto.
Irruppe nella stanza da letto, spalancando le porte, ansimando, la lunga treccia disfatta che le pendeva su una spalla. La cercò con gli occhi.
“Madre!”
“Dionissa!”
Le due donne si corsero incontro e si abbracciarono, calamitate l’una nella stretta dell’altra.
Gli occhi della principessa erano rossi di pianto, il viso era pallido e segnato.
“Sto bene…” sussurrò, scostandosi leggermente.
Le braccia materne non la lasciarono libera, come per accertarsi che il suo corpo esile non fosse soltanto una mera visione.
“Lei dov’è?” domandò Eudiya, con un tremito nella voce, dopo essersi accertata per l’ennesima volta che quella fosse realmente sua figlia viva.
Dionissa indicò con mano tremante l’ingresso al salottino in cui riceveva usualmente gli ospiti. Le lacrime ricominciarono a scenderle dagli occhi verdi.
“Non c’è stato nulla da fare… è morta prima che… oh, madre, come hanno potuto fare questo? Perché?”
La regina scosse tristemente la testa, ma il suo sguardo si fece duro. Non potuto fare... Voluto fare. Si diresse verso la camera laterale con passo deciso. Era una Thaisa, non si sarebbe certo fatta intimorire dagli eventi in corso. Per contro, qualcuno l’avrebbe pagata molto cara, molto presto.
“State indietro!” ordinò perentoria alle guardie, che stavano varcando la soglia per non lasciarla entrare da sola “Non voglio che eventuali tracce vadano perdute nel confuso passaggio di troppe persone!”
“Ma altezza…” obiettò timidamente il comandante.
Eudiya si girò e lo squadrò severa. Gli occhi scuri ardevano d’ira e di profonda pena.
“Non sono i morti a spaventarmi! Sono i vivi! Vai a chiamare immediatamente Omiron. Che venga senza esitare!”
L’uomo si inchinò e sparì oltre la porta. I suoi passi concitati risuonarono per la torre in un’eco sempre più lontana.
 
Il corpo di Toula era stato composto sul divano e le tracce della terribile sostanza che le aveva strappato la vita erano ben visibili sulla pelle tirata del volto, sulle mani contratte e sulle labbra violacee. Macchie scure le invadevano il collo e la fronte. Pareva una bambola dipinta con scarsa cura, una porcellana opaca e incrinata.
Dionissa si fermò poco distante, senza trovare il coraggio per tornare sulla scena dell’orrendo delitto da cui era uscita incolume per puro caso.
“Dov’era contenuto il veleno?” chiese la regina, guardandosi intorno circospetta.
“In un’ampollina di vetro blu. Ma non ne sono certa. Forse Shion l’ha vista meglio di me, è lui che l’ha portata qui”.
Lo sguardo della ragazza si abbassò sui cocci variopinti che ingombravano ancora il pavimento. Rabbrividì, rivedendo la scena in tutta la sua violenza.
“Non scorgo nulla di quel colore” notò Eudiya “Avvicinami la lampada, Dionissa”.
Mentre la principessa si affrettava a sollevare la fonte di luce, la donna snudò il pugnale e frugò con cura in mezzo ai frammenti ancora umidi di tisana.
“Niente” affermò meditabonda “Avete toccato qualcosa?”
“No…” rispose la giovane, sorpresa “Ma posso essermi sbagliata… ho passato io la fiala alla povera Toula, però stavo parlando con mio fratello e non…” la voce si spezzò, devastata.
“Non puoi attribuirtene la colpa, tesoro. Non torturarti così. Ti capisco, ma non è utile a nessuno” disse la regina affettuosamente “Tutto ciò che possiamo fare, ora, è scoprire chi ha ordito questo piano perverso. Ho mandato a chiamare il nostro alchimista per capire di quale composto letale si tratta. Penso di averlo intuito, ma vorrei averne la certezza. E’ un punto fondamentale d’indagine, le ipotesi azzardate e senza prove non sono opportune”.
“Shion ha detto che la boccetta era un dono degli Aethalas…”
Eudiya aggrottò la fronte, adirata e sospettosa, sollevandosi da terra.
“Qui non ce n’è traccia. Sei sicura che non l’abbia presa lui per lo stesso mio scopo? O che non fosse un contenitore diverso?”
“Mi… mi dispiace, ero troppo sconvolta, non sono riuscita a pensare a nulla…”
“Lo so. Abbiamo bisogno di tuo fratello. Perché non è rimasto con te?”
“E’ corso fuori dopo aver dato l’allarme, dicendo che avrebbe cercato nel palazzo eventuali pericoli. Temeva la presenza di un assassino incaricato di portare a termine il progetto, qualora il veleno avesse fallito…”
“Quel ragazzo non riesce mai a mantenere la lucidità…” borbottò la regina, alquanto preoccupata.
Si rivolse poi ad una delle guardie rimaste sulla porta.
“Tu! Trova immediatamente il principe reggente e portalo qui!”
Il soldato scattò sull’attenti e si precipitò all’esterno come una folgore.
Dionissa esaminò l’espressione della madre. La conosceva bene, c’era qualcosa che la turbava: la sua aria diffidente e tesa non era dovuta solamente alla scena tragica che le circondava in quel momento e al tentato omicidio. Era concentrata e stava riflettendo in silenzio.
“Mamma…” mormorò dolcemente “Che cosa non ti convince?”
Eudiya sospirò.
“Il veleno viene quasi certamente dal deserto ed è un preparato tipico delle popolazioni nomadi. Gli effetti che mostra la salma di Toula non mi sono nuovi. Chi muore per un dardo imbevuto di quella sostanza presenta simili caratteristiche. Gli Aethalas sono maestri in questo. Tuttavia…”
La principessa sgranò gli occhi, trattenendo il fiato.
“Tuttavia il vetro blu da noi non esiste. E’ un colore che non riusciamo a ottenere e dobbiamo importarlo qui ad Elestorya come merce preziosa. Mi pare strano che un contenitore così pregiato sia stato “sprecato” per una semplice bottiglietta di veleno, anche se doveva passare per un regalo. Inoltre, i Guardiani del Mare usano le fiale rosse per segnalare le sostanze pericolose e quelle verdi per i medicinali. Avrebbero usato queste per trarci in inganno… ma non possiamo fare congetture finché non troviamo quella maledetta boccetta!”
Dionissa sentì improvvisamente un freddo intenso. La realtà deviò e si avvolse, cambiando colore, come se le avessero rovesciato un liquido color cobalto negli occhi. Precipitò in un inchiostro scuro fatto di onde e lampi. Non era cielo e non era mare, era semplicemente una minaccia tinta di azzurro fosco. Immagini sconnesse attraversarono la visione, voci lontane, paura e dolore. Annaspò per uscire da quella realtà alternativa, ma questa la risucchiò in un vortice implacabile.
 
Eudiya vide la figlia impallidire, il suo sguardo farsi opaco, vacillare e brancolare nel vuoto. La sorresse prima che il mancamento la facesse precipitare a terra e iniziò a chiamarla con angoscia crescente.
Trascorsero minuti interminabili, nei quali la principessa rimase in bilico in quello stato di trance, mentre il Kalah le parlava e il suo accettarlo in quel fragile corpo, devastato dalla malattia, minacciava di prosciugarle definitivamente la vita.
Tornò in sé, mettendo faticosamente a fuoco il volto inquieto della madre e quello altrettanto preoccupato di mastro Omiron.
“Dionissa!”
“Mamma…”
“Prendi fiato, non sforzarti ulteriormente!”
“Adara…”
La regina fissò la figlia maggiore, ancora più in ansia, stringendola forte.
“Mia sorella…” continuò la veggente in un sussurro “Mia sorella è in pericolo!”
Eudiya non ebbe il tempo di chiedere altro, perché uno dei soldati della Guardia Reale irruppe trafelato negli appartamenti riservati, gettandosi in ginocchio, sconvolto.
“Non si trova!” boccheggiò “Il principe Shion è scomparso!”.
   
 
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