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Autore: Ksyl    11/09/2018    1 recensioni
Dopo gli spari della 8x22
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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2.

Aveva aspettato quel momento per lunghe, interminabili, ore. Aveva cercato di rimanere calmo, pressoché immobile, perché temevano che si sarebbe agitato di nuovo e questo avrebbe complicato le cose.
Si era quindi impegnato a convincerli di essere tranquillo, senza il reale pericolo che desse di nuovo in escandescenze. Era stato difficile, quasi superiore alle sue forze, ma gli aveva dato uno scopo concreto in quella infinita giornata infernale.
Aveva finto di riposare, tenendo gli occhi socchiusi e misurando lo scorrere del tempo grazie alla luce che filtrava dalle tende, rischiando di impazzire.

Si era sforzato di mangiare, se un brodino tiepido e insapore poteva essere considerato cibo. L'aveva finito a forza, ingoiando le cucchiaiate una dopo l'altra, reprimendo la nausea.
Alexis era rimasta seduta vicino a lui quasi tutto il giorno, in silenzio. Le aveva sorriso, per non mostrarle il suo reale stato d'animo. Avevano scambiato solo qualche laconica frase. L'aveva rassicurata di stare bene e non di sentire dolore. Non era vero, ma non voleva che gli aumentassero gli antidolorifici, con il rischio che lo intontissero e lo rispedissero dritto nelle sue allucinazioni.
Non aveva bisogno di incontrare Beckett nel mondo onirico che la sua mente sconvolta aveva prodotto per proteggerlo dallo shock. Era viva e nel mondo reale, esattamente quello in cui gli impedivano di incontrarla.
Perché era troppo presto, era troppo debole, prima doveva rimettersi. Il vuoto ritornello che continuava ad ascoltare sempre più frustrato.

Aveva pensato a un piano dopo l'altro per convincerli, ingannarli, persino fuggire. Aveva passato in rassegna tutte le persone che avrebbero potuto aiutarlo a uscire dalla sua camera senza che le infermiere se ne accorgessero.
Era difficile, visto che il loro bancone era proprio fuori dalla sua stanza e che era controllato a vista. A intervalli regolari, che non sapeva quantificare, venivano ad accertarsi che la situazione fosse tranquilla e lui ancora sano di mente.
Perché non lo legavano, già che c'erano? Era peggio che stare in un carcere di massima sicurezza, con l'unica colpa di desiderare conoscere, se gli era concesso, le condizioni di sua moglie, visto che vederla sembrava essere fuori discussione.
Parevano tutti considerarla una pretesa che violava i diritti umani.

Era arrabbiato. Ferocemente indignato contro la sua impotenza fisica e contro i cattivi che li tenevano lontani – e lui aveva un certa esperienza nel campo di nemici particolarmente insistenti. Ondate di ira si propagavano nel suo corpo, facendolo fremere. Il cuore iniziava a battere sempre più velocemente, e tutti i suoi buoni propositi rischiavano di saltare, vanificando i suoi progetti. Non appena si agitava, la macchina a cui era attaccato segnalava implacabile un battito anomalo, con il rischio che qualcuno si allarmasse e prolungasse l'agonia della loro separazione. Doveva stare calmo. Contare i secondi, che si sarebbero trasformati in minuti e ore.
Gli avevano promesso che quando sarebbe stato meglio - non specificando cosa significasse di preciso-, lo avrebbero messo al corrente delle condizioni di Kate. A quel punto sapeva solo che era viva e che c'era suo padre con lei. Ne era grato, almeno non era da sola. Ma lui era suo marito.Luiera più importante di tutti. Da principio aveva tentato di convincerli usando la logica. Era lui che doveva prendere delle decisioni riguardo ai suoi trattamenti medici, giusto? L'aveva buttata lì, non aveva idea se ci fossero delle decisioni da prendere, la sola idea lo atterriva.
Gli avevano risposto di non preoccuparsi e di pensare solo a riprendersi. "Più tardi il medico di sua moglie verrà ad aggiornarla". Più tardi, quando?Si era aggrappato a quella promessa.
"Non siete voi i suoi medici?".
"No", era stata l'informazione sibillina che avevano lasciato cadere, senza aggiungere altro.
Dove era Kate? Perché non era nel suo reparto, visto che si trovava nello stesso ospedale?

Si fece sera, lo intuì dalle lunghe ombre che invasero la stanza. Alexis gli chiese se voleva che accendesse la luce, ma lui rifiutò. Era più facile nascondere il suo tumulto interiore se rimaneva al buio.
Qualcuno spinse dentro il carrello su cui era appoggiato il vassoio con la sua misera cena.
Si mise a sedere, con grande fatica. Avvertiva fitte dolorose ogni volta che tentava il minimo movimento, ma non lo avrebbe dato a vedere.
Si sforzò di mangiare il cibo che sapeva di cartone. Doveva farlo, per recuperare le forze. Non avrebbe confessato a nessuno che il solo fatto di tenere la schiena dritta gli provocava violente vertigini.
Solo quando ebbe terminato diligentemente il suo pasto si fece vivo il medico che, sospettava, lo aveva evitato di proposito per tutto il giorno.
"Buonasera, signor Castle. Come sta?".
Odiava quella domanda. Che cosa si aspettava che rispondesse? Odiava il suo camice immacolato e quel sorrisetto di superiorità con cui lo salutava entrando.
"Molto bene, grazie", rispose sfoderando tutto il suo fascino. Beckett gli aveva sempre detto che non era capace di mentire, ma in questa occasione l'avrebbe sorpresa. Il solo pensarla gli strinse la gola. Gli mancava. Era preoccupato per lei, e temeva che non stesse bene. Ma, più di tutto, voleva starle vicino, per lei e per se stesso.
"Ha dei capogiri?".
"No".
Grande sorriso. Forse non era così bravo come attore. Di sicuro non se l'era bevuta nessuno.
Si schiarì la voce.
"Vorrei sapere come sta mia moglie", affermò con decisione, pur mantenendo un tono cordiale.
Avrebbe voluto gridargli in faccia che era un suo diritto e che li avrebbe denunciati tutti e fatti radiare dall'albo, ma si contenne.
Il medico gli diede un'occhiata penetrante. Castle sentì Alexis trattenere il fiato.
"D'accordo", accettò dopo qualche minuto in cui doveva aver valutato il suo equilibrio mentale. "Vado a chiamare il mio collega".
Castle non riuscì quasi a credere alla sua fortuna.
"Non può anticiparmi qualcosa?".
"Mi dispiace. Non sono io a occuparmene".
Li avrebbe fatti licenziare tutti, dal primo all'ultimo.

Attese, di nuovo, finché non si sentì venir meno dalla tensione. Non doveva lasciarsi andare, non poteva svenire proprio in quel momento. Respirò profondamente. Gli sembrò di aver recuperato un po' di forze.
Entrò qualcuno. Si trattava di una donna, che non indossava un camice, ma qualcosa che assomigliava a una tuta rosa. Era molto giovane e questo lo confuse. Pensò che si trattasse dell'ennesimo, inutile, estraneo, ma capì dalla targhetta che era un medico.
Si sedette sul letto accanto a lui e gli sorrise. Aveva modi molto amichevoli e sembrava molto più accessibile rispetto a tutti gli altri dottori che si erano occupati di lui, in modo accuratamente professionale, ma mai troppo cordiale.
"Coma va, Rick? Io sono Allison".
Sentirsi chiamare per nome rischiò di far cedere gli argini della sua compostezza. Non voleva che fosse tanto gentile. Preferiva il distacco degli altri.
"Andrà meglio quando saprò di mia moglie". Non aveva voglia di convenevoli.
"Ha ragione. Sono qui per questo".
Chi era? Un angelo venuto a soccorrerlo?
Castle non disse niente, era troppo teso per riuscire a sostenere una conversazione. Attese. Era diventato bravo a farlo.
"Sua moglie è al piano di sotto. La pallottola ha perforato un polmone e ha causato un massivo pneumotorace. Ha perso molto sangue. Ha anche avuto un arresto cardiaco, ma l'abbiamo salvata".

Castle non riuscì più a respirare. Di colpo la gola si era chiusa e l'ossigeno faticava a passare. Si sforzava con violenza di farlo entrare, ma riusciva solo a boccheggiare in cerca di aria. Il cuore gli si strinse in una morsa dolorosa, che si irradiava per tutto il petto.
L'angoscia lo invase, scorrendo in tutto il suo corpo. Agguantò il braccio del medico e la implorò con gli occhi di non farlo morire. Non era mai stato tanto male nella sua vita. Era la fine, ne era certo.
"Rick, mi guardi. Deve respirare. Non le sta succedendo niente".
Castle scosse la testa, per comunicarle che l'avrebbe fatto volentieri, se solo fosse riuscito.
La sentì ordinare a qualcuno di portare un ansiolitico, e di fare in fretta.
"È solo un attacco di panico. Non sta morendo. Respiri". Allison gli strinse la mano, gentilmente, sollecitandolo a seguire le sue indicazioni.
Sentirglielo dire, per assurdo, lo calmò. La donna continuò a guardarlo negli occhi, per incoraggiarlo.
L'aria tornò a circolare nei suoi polmoni, il cuore smise piano piano di battere furiosamente.
Inspirò di nuovo, più volte, con grandi boccate avide.
"Non... non voglio nessun farmaco. Sto bene... Meglio", si corresse con voce rotta.
Allison rimandò indietro l'infermiera, che era pronta a fargli l'iniezione.
"Come sta mia moglie adesso?".
La vide indecisa se continuare o meno. Castle la implorò con lo sguardo di dirgli tutta la verità. Non avrebbe sopportato di rimanere a tormentarsi con le vaghe notizie che aveva ricevuto.
"Non ha ancora ripreso conoscenza. È in coma farmacologico".
"Che cosa?!".
Non era riuscito a contenersi. Questa era la peggiore notizia di tutte. Lui l'aveva immaginata sveglia, magari sofferente, ferita, mai incosciente.
"È la procedura normale che si usa in questi casi, non deve preoccuparsi. È stata messa a riposo perché il suo corpo potesse riprendersi. L'intervento è stato molto lungo e con... qualche complicazione, ma non è in pericolo. Non più".
Non era ancora del tutto convinto. Capiva la necessità logica di un passo del genere, ma lo riempiva di orrore l'idea che fosse in un letto, da sola, forse persa nel suo stesso mondo allucinatorio post operatorio. Che, nel suo caso, era durato molto meno. Magari era convinta che lui fosse morto.
"Voglio andare da lei".
Il medico si preparò a rifilargli il solito discorsetto. E lui che aveva pensato che fosse un'alleata. La fermò subito.
"Lo so. Sono ancora debole, devo riprendermi, non sono pronto ad alzarmi. Continuate a ripeterlo. Ma se devo passare ancora un altro giorno senza vederla, finirò con l'impazzire. Non riesco a dormire nemmeno con i tranquillanti. Non faccio altro che tormentarmi. Non ce la farò mai riprendermi, se continuate a lasciarmi in queste condizioni. Per favore. Solo qualche minuto".
Non gli importava di supplicarla. A quel punto non gli era rimasto altro.
Alison lasciò passare qualche istante, in silenzio.
"Facciamo un patto, Rick".
Trovava irritante che lo chiamasse per nome, ma lasciò correre. Si predispose ad ascoltarla. Era già qualcosa il fatto che non avesse opposto un netto rifiuto.
"Adesso cerchi di metabolizzare le informazioni, e si tranquillizzi. Glielo ripeto, Kate non è in pericolo. Dobbiamo solo aspettare che sia pronta, prima di svegliarla. Domani potrà vederla, d'accordo? Ma solo se mi promette di riposare e di non sprecare le sue forze".
Affare fatto. Avrebbe ricominciato a contare i minuti che lo separavano da lei. Sarebbe stata un'altra lunghissima notte.

   
 
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