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Autore: Ksyl    11/09/2018    1 recensioni
Dopo gli spari della 8x22
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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4.

La guardò a lungo, fino a smarrire il senso dello scorrere del tempo, perso nella sua contemplazione, per imprimersi nella mente ogni linea del suo viso. Aveva aderito con fervore al nuovo proposito di non lasciar passare nemmeno un minuto senza riempirsi della sua presenza – o dirle che l'amava, ma questo sarebbe potuto accadere solo più avanti, quando si fosse svegliata e lui l'avrebbe portata via con sé. Fuggendo, se necessario.

Si tratteneva a stento dal farlo, contro ogni logica e buonsenso. Voleva che tornasse cosciente, subito, in modo da farla dimettere. Entrambi. Così sarebbero tornati a casa, anche se la cosa non avrebbe mancato di risvegliare spaventosi ricordi della loro recente disavventura, ma a quello avrebbero pensato più avanti.
Si sarebbe preso cura lui di lei, una volta che avesse potuto sbarazzarsi di medici, macchinari e tutto quello che contribuiva a tenerli lontani.
Aveva continuato ad accarezzarle con dita delicate il dorso della mano. Era una loro consuetudine di cui nessuno era a conoscenza. Era così che l'aiutava a rilassarsi, quando era nervosa o preoccupata.
Nella loro vita di prima, che adesso appariva così lontana, quando si erano già infilati a letto e con le luci spente, dopo essersi augurati la buonanotte, Kate allungava il braccio verso di lui e glielo appoggiava sullo stomaco, in una muta richiesta di conforto.
Era il suo modo di fargli capire che aveva bisogno di lui. Non di parlargli, non di sfogarsi. Non era il tempo dei discorsi, solo quello della vicinanza.
Rimanevano in silenzio, finché non si addormentava. Lui andava avanti a lungo a sfiorarle la mano con tocchi circolari.
Il consueto nodo in gola si fece vivo per tormentarlo di nuovo. Quando sarebbe riuscito a respirare normalmente? Quando l'avrebbe avuta tutta per sé?
Si chinò in avanti. Appoggiò la guancia sul palmo aperto, nell'illusione di ricevere una sua carezza. Fiori. Mancavano dei fiori. Perché si era presentato a mani vuote?

Fu proprio in quel momento, mentre era immerso in pensieri di nessuna importanza, che la realtà di quello che era successo lo trafisse con violenza. Fino ad allora la sua mente si era rifiutata di ripercorrere gli eventi di quel mattino spaventoso. Forse era il modo in cui la sua psiche difendeva se stessa.
Fu invaso dalla disperazione, un'ondata travolgente che si schiantò contro di lui. Non se l'aspettava e non poté fare niente per difendersi.
Era peggio di qualsiasi sofferenza fisica avesse mai provato.
Chiuse gli occhi, stringendo i pugni, per resistere all'urto.
Tentò di convincersi che, quando il dolore risale dall'inconscio, è perché si è in grado di sopportarlo. Non gli sembrava il suo caso. Desiderava solo smettere di sentirsi tanto dilaniato.
Vederla in carne e ossa, e non solo come una proiezione della sua disperazione, aveva distrutto le barriere della sua resistenza.
Aveva vissuto gli ultimi giorni con l'unico scopo di rivederla e di accertarsi che stesse bene. Aveva tenuto a bada pensieri molto cupi solo scacciandoli dalla sua mente e concentrandosi sul momento in cui si sarebbero incontrati di nuovo.
Aveva fatto un patto con se stesso, per non abbandonarsi all'angoscia, che adesso era arrivata a rivendicare i suoi diritti.

Per la prima volta riusciva a rendersi conto, con crudo realismo, che aveva rischiato molto più di quello che si era raffigurato analizzando la situazione solo con l'impiego della sua mente razionale.
Un conto era dirsi che avrebbe potuto perderla per sempre. Diventare vedovo. Gli mancò il fiato quando la parola si stampò nel suo cervello. Non aveva mai riflettuto sulla situazione in quei termini. Era orrore puro.
Vederla semi sepolta – brutta scelta di vocabolario, Rick. Sei uno scrittore, inventati qualcosa di meglio– stesa in un letto anonimo, con il lenzuolo a coprirla fino al mento significava invece invitare la realtà a prenderlo a schiaffi senza risparmiarsi.
Non ricordava cosa fosse successo, dopo. Non sapeva chi avesse chiamato l'ambulanza, perché non l'aveva chiesto a nessuno. Il suo intento di negazione aveva fin lì funzionato alla perfezione.
Forse i vicini, forse qualcuno della loro famiglia che era passato da loro, magari per avvisarli del pericolo. Forse Beckett era riuscita a prendere il suo cellulare e inviare una rapida chiamata, ma non riusciva a rammentarlo.
Non sapeva se i suoi ricordi fossero corretti, o se la sua fantasia avesse colmato i vuoti.
L'unica cosa che ricordava lucidamente, anche se avrebbe preferito il contrario, era il suo respiro. Forse era il proprio, ma era convinto che si trattasse di quello di Kate, anche se, a quel punto, non avrebbe potuto giurarlo.
Era diventato sempre più flebile ed era stato sostituito da un rantolo, verso la fine. L'aveva sentita fare fatica a respirare, ma lui non era stato in grado di muoversi, anche se ci aveva provato molte volte. Aveva ancora molto chiara la sensazione di paralisi. Era schiacciato su quel pavimento costretto ad ascoltare sua moglie morire.
Poi, in ultimo, anche quel suono si era spento. Tutto il resto si amalgamato nella sua testa a creare una cacofonia confusa di voci, urla, ordini. Forse era stato tutto un sogno, forse era stato lui il primo a perdere i sensi e i suoi ricordi erano solo il modo che aveva di punire se stesso, ricreando ancora e ancora versioni sempre più temibili dello stesso trauma.

Non si era accorto di aver iniziato a piangere. Lo scoprì solo quando vide che la mano di Kate era bagnata. All'inizio, scioccamente, pensò che fosse uscito del liquido dalla flebo, che era però attaccata all'altro braccio. Si toccò incredulo le guance. Erano le sue lacrime. Non c'erano stati singhiozzi, solo il lento, inesorabile, fluire silenzioso del suo dolore. Si vergognò. Era venuto per sostenerla ed era il primo a lasciarsi prendere dallo sconforto. Lo sfogo non era nemmeno servito a farlo stare meglio. Si sentiva più miserabile che mai.
Le asciugò le dita con il risvolto della vestaglia. Percepì un movimento da parte di Kate, che gli fece salire il cuore in gola. Forse era stato troppo brusco e aveva combinato qualche danno. Adesso sarebbero entrati e l'avrebbero portato via, proibendogli di tornare. Spiò il suo volto, in cerca di qualche segno del suo risveglio, ma si tranquillizzò. Doveva essersi trattato solo di un fremito involontario.
Era stanco. Più di quanto ritenesse fosse umanamente possibile. Più di quanto avesse sperimentato nella sua vita. Aveva abusato delle sue forze, doveva ammetterlo perfino lui. Era il momento di lasciarla, anche se avrebbe preferito che gli estirpassero il cuore a mani nude.
Ancora solo qualche minuto. Voleva almeno sfiorarle i capelli.
Si stava allungando verso di lei, per mettere in pratica il suo intento, quando l'aprirsi della porta lo fece sobbalzare. Aveva fatto qualcosa di male? Era forse vietato dalla Convenzione di Ginevra? Apprezzò il ritorno del suo slancio battagliero.

Era Allison. Castle capì che il suo tempo era terminato, anche se lei non lo sollecitò a salutare sua moglie e a prepararsi per fare ritorno nella sua stanza. Si prese il tempo di esaminare le condizioni di Kate, controllò qualche parametro, aggiornò la sua cartella clinica. Gli piaceva essere testimone della delicatezza con cui si prendeva cura di lei. Era la stessa che avrebbe usato lui.
Solo alla fine si rivolse a lui.
"Va tutto bene?".
Benissimo. Potrei perfino uscire a divertirmi, staseraTenne per sé la risposta caustica. Non era colpa di nessuno.
Allison non sembrava aspettarsi di ricevere una risposta alla sua domanda retorica.
Rimase in piedi in fondo al letto stringendo le mani sulla sbarra di metallo, pensierosa, senza staccare gli occhi dalla sua paziente.
"Sapeva che è incinta?".
La domanda, posta in tutta tranquillità, come se stessero conversando del più e del meno, lo spedì dritto all'inferno.
Non era sicuro di aver capito bene. Riuscì solo a pensare, in modo del tutto incoerente, che aveva avuto ragione, la tuta rosa aveva un significato.
Di seguito fu invaso da interrogativi più pressanti, concreti. Come... quando era successo?
"Di quanto?", riuscì solo a mormorare con voce strozzata.
Si passò una mano sul viso. Non... non poteva saperlo, Kate, giusto? Non si sarebbe esposta a un tale pericolo, se...
No, era scorretto e ingiusto nei suoi confronti. Si erano ripromessi "mai più segreti", quindi, no. Kate doveva esserne all'oscuro, proprio come lui.
"Abbiamo calcolato tre, massimo quattro settimane".
Si sentì meglio all'idea di averla ritenuta innocente prima di ricevere quell'informazione, che, a dire il vero, stentava ad assimilare. Non avevano parlato di avere bambini, non prima che la storia con LokSat fosse finita.
Non gli sembrava il momento di indugiare in riflessioni di quel tipo, soprattutto davanti a un medico, ma faticava a collocare temporalmente l'evento.
"Siete sicuri?". Non poté fare altro che porre la prima domanda banale che gli venne in mente. Il problema era che non riusciva a far collimare l'idea della gravidanza di sua moglie – e anche un bambino reale, tra loro, di lì a qualche mese – con tutto il resto.
"Sì, siamo sicuri". Allison sembrava divertita.
"Ma... sta bene? Il bambino, intendo. Come può essere ancora vivo?". Dissanguamento, perdita di conoscenza, intervento, barbiturici. Era già notevole che sopravvivesse una persona – anche se si trattava di qualcuno di immortalecome Kate, – come poteva farcela un embrione?
"Al momento resiste. La circolazione placentare non è stata intaccata dallo sparo".
Resisterenon era una scelta linguistica che apprezzava. Voleva sentirsi dire che era forte e che sarebbe nato senza problemi. Capiva che non poteva aspettarsi un'affermazione del genere da un medico.
"Ma non possiamo sapere come andrà. Valutiamo la situazione quotidianamente".
Che cosa significava? Dovevano proteggere il suo bambino, non fare valutazioni.
"Erano queste le complicazioni di cui mi ha parlato?". E lui che, in tutta innocenza, aveva pensato che si trattasse di qualche problema legato al suo intervento.
"Sì. Quando l'abbiamo scoperto le cose si sono fatte un po' più complesse. Ma è andato tutto bene. Per il momento".
Se l'avesse detto ancora una volta le avrebbe gridato contro.
Allison dovette accorgersi che lui era al limite della sopportazione.
"Rick, sua moglie ha una fibra molto resistente. Immagino lo sappia. Il bambino non sembra essere da meno, in base a quello che abbiamo potuto vedere".
Aveva detto "bambino". Era un'immagine in carne e ossa. Si aggrappò a quella piccola speranza.
"Deve riposare adesso. La riporto in camera".
Castle non era ancora disposto ad andarsene.
"Quando la risveglierete?".
"Sono decisioni che prendiamo giorno per giorno".
Il che significava che non lo sapevano. Apri gli occhi, Kate. Dimostraci che stai bene. Prendili a calci.
Per un istante si era quasi aspettato di vederla alzarsi e arrestarli. Non successe, ovviamente.
"Mi promette una cosa, Allison?". Era la prima volta che la chiamava per nome. "Posso essere io a dirglielo, quando verrà il momento?".
Non riusciva a pensare che venisse informata di una cosa così importante, e intima, perché riguardava la loro famiglia, da un'estranea, per quanto cordiale.
"Glielo prometto".
Lasciarono la stanza, dopo un'ultima occhiata, con la quale voleva portarsi via tutta l'essenza di Kate.
Sarebbe stato strano essere lui, il padre, a informare sua moglie che avrebbero avuto un bambino. Del resto non avevano mai vissuto una vita normale, non c'era motivo per cui dovessero iniziare ora.

   
 
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