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Autore: reggina    14/09/2018    3 recensioni
Una malattia che ha cambiato la vita di Philip.
Adesso è un sopravvissuto: una garanzia che, anche se gli è scampato, la leucemia non se la scorderà più.
Prima di ricevere la medaglia di guarito però dovrà capire che Superman non esiste. Mentre cerca di ricostruirsi dovrà accettare le sue fragilità, le sue insicurezze, il suo essere..."umano".
Sequel de: "Sulla collina rosa"
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hikaru Matsuyama/Philip Callaghan, Yoshiko Fujisawa/Jenny
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Jenny aveva sempre pensato all’aula come ad una seconda casa.

Era stato desolante, il primo giorno dopo le vacanze, rientrare in un ambiente dalle pareti spoglie, senza traccia tangibile della presenza dei bambini e alla giovane maestra era bastato davvero poco per rendere il tutto accogliente: una piccola biblioteca, del verde sui davanzali delle finestre, un angolo dedicato alla lettura, alla musica e alla pittura.

Aveva disposto i banchi a semicerchio e aveva coinvolto i suoi piccoli allievi che, con i loro disegni, avevano dato un tocco di colore alle pareti.

Quelle Coccinelle , che si fidavano di lei, della sua presenza e dei suoi insegnamenti, le allargavano il cuore quando si guardavano intorno curiosi e chiedevano il perché delle cose.

Quella mattina aveva deciso di giocare con la classe a descrivere le emozioni attraverso i colori: c’era il giallo dalle sembianze di una stella, il verde che vagheggiava una foglia, ma, quando era toccato a lei, Jenny aveva scelto il blu che richiamava una lacrima.

Quando l’avevano vista prendere la figura della tristezza i bambini si erano sorpresi come se la loro maestra, a volte severa, a volte dolce, a volte spiritosa, non potesse essere triste.

E a quei perché leciti e insistenti che erano seguiti aveva risposto in modo semplice raccontando di un folletto malefico che si divertiva a far dispetti e a far perdere la pazienza a lei e al suo bel principe.

Finalmente la campanella suonò annunciando la ricreazione.

Vista la bella giornata di sole, anche se un po’ fredda, Jenny aveva dato ai bambini il permesso di correre in cortile e lasciarsi andare ai meritati giochi.

Si era concessa qualche minuto per osservarli e per invidiare quell’età in cui ci si diverte facendo i conti o scrivendo parole e giocando s’impara.

Per i piccoli, con gli occhi ancora pieni di gnomi, fate e magia, l’unico futuro era il minuto successivo che la maestra avrebbe rubato al gioco.

Lei, invece, aveva la testa altrove.

Shirley, la collega dagli occhi, dai capelli, dalla pelle e perfino dall’odore caramellato, l’aveva colta in flagrante. Si era accorta che Jenny non stava bene e non aveva esitato a salvarla.

“Vai nell’ufficio della direttrice e chiedi un permesso! Io ho appena smontato ma non ho problemi a fare qualche ora extra in classe tua!”

L’aveva incoraggiata con un occhiolino complice e la sua esuberante risata da ragazzina.


In attesa, nel reparto di oncologia, Philip si sentiva come nei giorni più neri: come una cavia sotto vetro costretto a respirare un cocktail di aria condizionata e dubbi.

Era ricaduto nel pozzo dell’incertezza: gli occhi bassi e fissi al pavimento, pestando con il piede come per scacciare quei sentimenti tortuosi che gli albergavano dentro.

Si era voltato e se l’era trovata davanti, carica di libri e di fiducia.

Il viso mielato dalla luce che entrava dagli ampi finestroni, gli occhi grandi e cordiali, il sorriso enigmatico: era così bella, giovane. Indossava i sui ventidue anni come le gemme di primavera.

Si era avvicinata a passo sicuro e niente sarebbe stato capace di raccontare, di spiegare, quell’amore che faceva ancora tremare le gambe a Philip ma, allo stesso tempo, lo sosteneva.

Aveva inclinato la testa da una parte e aveva allargato le braccia e Jenny vi si era abbandonata senza remore come se volesse proprio entrarci in quell’abbraccio geometrico.

Era stato un abbraccio placido e tenero, circoscritto in uno spazio brillante e rassicurante ma, appena si erano staccati, si era accorta che dietro lo sguardo limpido del suo uomo c’era una maschera.

“Perché ti ostini a volermi tagliare fuori dai tuoi dolori?”

Un tetro, minaccioso silenzio era caduto improvviso e lei ne era rimasta pietrificata. Aveva osservato, preoccupata, quel ragazzo che conosceva quasi meglio di sé stessa cercando di decifrare ogni messaggio non verbale.

“Perché per me ti sei trasformata in una specie di infermiera supplente!”

Era una verità chiara, pungente come mille aghi conficcati nel cervello.

Lo rivedeva, dopo appena un mese dal trapianto, con dieci chili in meno, le mucose secche, l’intestino annodato e un viavai di nausee, febbre e capogiri.

Piano, piano, aveva iniziato a sentirsi meglio, e una mattina lei si era presentata in tuta e scarpe da tennis proponendogli di fare ginnastica insieme…E da allora era diventato un rito, un’abitudine .

Quei ricordi tristi erano stati spazzati via da un espressione dolcissima e determinata, decisamente irresistibile.

“Sei un puro, semplice, meraviglioso egoista!”

C’era un legame profondo a legarli da sempre; non era fatto di corde o di nodi eppure era impossibile scioglierlo.

Si erano lasciati cadere sulle poltroncine del corridoio abbandonandosi a due sorrisi invalicabili da chiunque.

Si erano chiusi nel silenzio e, come si fa con il pedale della sordina di un pianoforte, avevano cercato di abbassare il tono delle loro emozioni, come per nasconderle e per non far rumore.

Quando l’infermiera, una donna dal viso rotondo e dai capelli bianchi, li aveva fatti passare i loro cuori avevano iniziato però a fare più rumore e a battere velocemente.


Il Dottor Wright era un uomo robusto, con un po’ di pancetta, gli occhi marroni un po’ a mandorla e una voce rumorosa. Però aveva un’espressione buona e simpatica.

“Venite avanti. Da seduti si parla meglio!”

Philip era scosso e nemmeno la mano calda e morbida di Jenny riusciva a calmarlo.

Aveva così tante domande che non riusciva a concentrarsi nemmeno su una. Ma forse il dottore sapeva già.

Forse le aveva lui, tutte le risposte che cercava.

E quell’uomo con il camice bianco, in passato più volte si era dovuto girare dall’altra parte per scrivere i referti e per evitare di commuoversi davanti a quell’amore che vinceva su tutto, a quei due ragazzi che avevano imparato a vivere sul filo del rasoio, a stare sempre all’erta anche quando avrebbero avuto bisogno solo di un grande sospiro di sollievo.

“Philip, è solo un problema di piastrine basse! L’esame è risultato negativo, quella cosa sospetta era solo una piccola infezione quindi niente di recidivo!”

Anche le parole curano ma Philip ci aveva messo un po’ ad assimilare la notizia e, anche a quel punto, sembrava poco convinto.

Prima incredulità, poi gioia e infine lacrime.

Piangevano di gioia entrambi, sia lui che Jenny, sapendo che il peggio era stato sconfitto strofinandosi a vicenda le gote umide.


Era rinato!

Gli occhi che brillavano di un senso liberatorio di sollievo e gratitudine e così felice che Jenny fosse con lui, con lui in tutti i sensi.

L’aveva sentita che tirava su con il naso.

E anche a Jenny lì, fuori dal padiglione dall’ospedale, sembrava adesso di vivere dentro un sogno. Gli sembrava di volare e che tutto fosse possibile, come in una favola.

Così sopra le nuvole, sopra le righe, con un briciolo di follia lo aveva fatto.

Circondata da crisantemi dai caldi colori autunnali e da ingialliti platani secolari, si era fermata al termine del vialetto in ghiaia e lo aveva guardato dritto negli occhi.

“Adesso non hai più scuse per non sposarmi, Philip Callaghan!”

   
 
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