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Autore: La_Sakura    19/09/2018    6 recensioni
Genzo Wakabayashi non è solo il portiere più acclamato e titolato del momento: è anche l’erede dell’impero della Wakabayashi Corp., una delle multinazionali più importanti sul mercato.
Non se n’è mai preoccupato troppo: con suo padre fisso al comando, e i fratelli già ampiamente attivi in varie filiali, non ha mai dovuto prendere le redini, riuscendo così a posticipare costantemente il suo completo inserimento in azienda. Forte della collaborazione della Personal Assistant di suo padre, ha continuato a concentrarsi sulla sua carriera di portiere paratutto del FC Bayern München, riuscendo pienamente a raggiungere gli obiettivi che si era prefissato.
O, per lo meno, così è stato fino ad ora.
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Serie "Im Sturm des Lebens"
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji, Karl Heinz Schneider, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Im Sturm des Lebens'
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ET - Capitolo 1

Genzo bussò alla porta dell’ufficio di Julia e attese la sua conferma prima di entrare.

«Disturbo?»

«No, assolutamente. Avevi bisogno?»

«Mi puoi confermare le date del viaggio? Mi hanno appena chiamato quelli della Nazionale per la partita di beneficenza e ho paura che le date si sovrappongano.»

«Sì, dunque… – Julia prese l’agenda e iniziò a sfogliarla – partiamo il 31 e rientriamo il 12.»

«Le date andrebbero bene, un po’ una sfacchinata…»

«Il meeting con i soci è il 1° Febbraio non appena arriviamo. Poi tuo padre ne ha fissato un altro per il 10 alle ore 8:30…»

«Merda! Lo sapevo che non poteva tutto coincidere alla perfezione. Quello lì va spostato.»

«Non si può, Genzo. Lo sai che i tuoi connazionali sono abbastanza fiscali su…»

«Il 9 ho la partita, non ho voglia di giocare a Nankatsu alla sera ed essere a Tokyo alla mattina! Non mi va di…»

«Troveremo una soluzione, non è il caso di allarmare Herr Wakabayashi: si tratta di un viaggio di circa 150 km che puoi benissimo affrontare.»

«Vado a parlargli, vediamo di risolvere la situazione.»

Prevedo guai! pensò Julia, e decise di seguirlo.

 

«No no e poi no, Genzo! Non se ne parla neanche! Non posso spostare il meeting solo perché tu devi giocare una stupida partita di calcio!»

«La mia “stupida partita di calcio”, come la chiami tu, è una partita per raccogliere fondi per i terremotati di Haiti! È per una nobile causa! Mamma, digli qualcosa per favore!»

Julia si sentiva tremendamente in imbarazzo: si era ritrovata nel bel mezzo di una diatriba familiare. Genzo e suo padre stavano urlando da quasi mezz’ora e non accennavano a voler smettere. Lei e Ochiyo se ne stavano in disparte: una con lo sguardo abbassato, Frau Wakabayashi con aria insofferente. Quando il figlio la chiamò in causa, lei si limitò a fare spallucce.

«Entrambi avete motivazioni valide, ma non è urlando come dei gorilla selvaggi che risolverete la questione.»

Julia aveva sorriso impercettibilmente pensando al paragone, ma poi aveva continuato a fissarsi la punta delle scarpe, imbarazzata.

«Ah, ma bene! Sei passata dal “diamo contro a mio figlio” al “diamo ragione a entrambi”. In ogni caso mai una volta che tu prenda le mie parti.»

A quelle parole, Herr Wakabayashi si alzò dalla scrivania, rosso in volto, e si avvicinò minacciosamente al figlio, che era rimasto in piedi per tutto il tempo della discussione.

«Non osare parlare così a tua madre, sono stato chiaro?»

«Tu non sei nella condizione di dirmi cosa devo o non devo fare! Te ne sei sempre fregato di me e adesso pretendi di comandare?»

«Mentre tu correvi dietro a uno stupido pallone io creavo tutto questo! Per la mia famiglia! – la rabbia nelle sue parole era concreta, e si riversava tutta su quel figlio che pareva ingrato di fronte a tutto ciò che gli aveva dato – Credi che mi sia divertito a stare lontano da casa? Credi che mi piacesse lavorare invece di vederti crescere? Ma ho dovuto farlo per te! Per darti un futuro migliore!»

«Avrei preferito qualche Natale in più insieme e meno soldi per il compleanno!»

«Tu mi rinfacci che non c’ero, ma quando ho potuto ho fatto tutto quanto, per te! Persino farti venire in Germania per seguire il tuo sogno! E non ho mai ricevuto un minimo di gratitudine da te, mai!»

«Io il mio posto in squadra me lo sono guadagnato con la tenacia e i miei sforzi! Non ti devo nulla!»

«Non mi devi nulla? NON MI DEVI NULLA?! Io…»

Herr Wakabayashi si bloccò. Il dito indice della mano destra sospeso a mezz’aria. Gli occhi spalancati e fissi sul figlio.

«Papà…?»

«Aah…» l’uomo iniziò a tremare e le gambe gli cedettero. Genzo lo sorresse al volo, con gli occhi sbarrati dalla paura, e lo sdraiò a terra. Ochiyo era come paralizzata, la mano tremante davanti alla bocca, incapace di emettere alcun suono.

Julia reagì in un attimo: si avventò sul telefono e compose il diretto della reception.

«Martha, sono Julia. Chiama immediatamente un’ambulanza. Herr Wakabayashi sta avendo un infarto o qualcosa di simile! Sbrigati!»

Aprì la finestra per far arrivare più aria, poi prese delicatamente Frau Wakabayashi e la fece sedere sul divanetto. Nel frattempo Genzo stringeva la mano del padre che respirava a fatica e lo fissava con terrore.

«Herr Wakabayashi, – Julia si inginocchiò accanto a lui – ho già chiamato l’ambulanza, sarà qui tra pochi minuti. Cerchi di respirare lentamente, andrà tutto bene.»

«Hai detto infarto? Mio padre sta avendo un infarto?» mormorò Genzo, bianco come un cencio.

«Vai da tua madre. – il ragazzo non si mosse – Genzo, va’ da tua madre. – rimase impassibile a fissarla, con lo sguardo perso nel vuoto – Genzo, vai da tua madre, per Dio!»

Il ragazzo si risvegliò e si alzò di scatto, notando solo in quel momento lo stato di shock in cui si trovava Ochiyo: le si sedette accanto e la abbracciò, mentre lei scoppiava a piangere e il suo corpo veniva scosso dai singhiozzi.

I soccorsi arrivarono poco dopo, scortati da Martha. Julia si spostò immediatamente e lasciò che i paramedici compiessero il loro dovere. La situazione era grave, così lo caricarono sulla barella e lo portarono via in ambulanza.

«Lo portiamo al Deutsches Herzzentrum.» disse uno di loro, rivolto a Julia, la quale annuì e si diresse verso Genzo e sua madre.

«Stammi a sentire, adesso tu lo segui in ospedale, queste sono le chiavi della mia auto. Appena arrivi là mi mandi un messaggio con le indicazioni per raggiungervi. Io prendo l’auto di tuo padre e porto a casa tua madre, mi assicuro che prenda qualcosa per calmarsi poi ti raggiungo in taxi. Genzo, hai capito? Hai sentito cosa ti ho detto?»

Il ragazzo riacquistò la lucidità e annuì, prese con decisione le chiavi che gli porgeva la ragazza e corse fuori dall’ufficio. Julia fece un respiro profondo e si avvicinò a Ochiyo: le prese le mani e gliele strinse forte, inginocchiandosi davanti a lei.

«Andrà tutto bene. Genzo sta andando là. Io lo raggiungo tra poco, prima la porto a casa. Va bene?»

Ochiyo annuì e si alzò pian piano. Rifiutò l’acqua che Julia le voleva offrire e si appoggiò a lei mentre uscivano. I dipendenti le guardarono, ma nessuno si azzardò a dire niente. Martha fece un cenno a Julia, portandosi la mano destra al volto e mimando la cornetta del telefono: la ragazza annuì. Fece accomodare Ochiyo nell’auto di Herr Wakabayashi e la portò a casa.

 

Trovò Genzo seduto sulle sedie della sala d’aspetto, curvo, con la testa tra le mani. Quell’immagine le toccò profondamente il cuore: in tanti anni non l’aveva mai visto in tali condizioni, anche perché non si erano mai presentate occasioni simili.

Si avvicinò a lui e gli posò una mano sulla spalla: il ragazzo sussultò al contatto e alzò di scatto la testa.

«Sei tu!»

Si alzò e la abbracciò forte, come se quel contatto lo aiutasse a dissipare le nubi che avvolgevano la sua mente. Julia ricambiò cercando di essere il meno distaccata possibile.

«Che ti hanno detto?» gli chiese poi, quando lui si decise a sciogliere l’abbraccio.

«Lo stanno operando d’urgenza. A quanto pare aveva la carotide occlusa al 90%, o che ne so io… – lei annuì – Mi hanno detto che… faranno il possibile…»

«Ne sono certa, adesso stiamo qui e aspettiamo che finiscano. Tua mamma è a casa, ho parlato con la cameriera e le ho lasciato anche il mio numero di cellulare. Le abbiamo dato del valium per farla riposare.»

«Ma tu… non hai da fare?» Genzo si accorse in quel momento che non sapeva nulla della vita privata della ragazza. Poteva avere un ragazzo a casa che la aspettava, o i genitori. Magari un fratello o una sorella. O semplicemente degli impegni.

«Niente che non possa essere rimandato, quindi stai tranquillo. Andrò a casa quando saprò qualcosa di concreto sulle condizioni di salute di tuo padre.»

«Grazie…»

 

Il tempo sembrava non scorrere mai in quella sala d’attesa; Julia aveva sfogliato tutte le riviste che aveva trovato, Genzo non si era mosso dalla sedia e continuava a fissare il vuoto davanti a sé. Gli pareva impossibile che stesse accadendo veramente. Era lui la causa del malessere di suo padre? Sarebbe sopravvissuto? E se ce l’avesse fatta, l’avrebbe perdonato? E se non avesse superato l’intervento…

Le porte scorrevole si aprirono e ne uscì un medico in camice bianco.

«Wakabayashi?»

Genzo e Julia si alzarono e si avvicinarono a lui, trepidanti.

«Sono il figlio…» mormorò Genzo.

«L’intervento si è presentato subito difficile, Herr Wakabayashi aveva la carotide quasi completamente occlusa. Suo padre non aveva mai fatto dei controlli? Mi sembra strano che con un’occlusione di questo tipo non avesse sintomi… – Genzo scosse la testa in segno di diniego e il medico continuò – Ad ogni modo, pare che sia andato tutto bene, anche se è difficile stabilire ora il quadro clinico del paziente. Vi consiglio di andare a casa a riposarvi. Possiamo vederci domattina, direi intorno alle nove, se per voi va bene.»

«Posso vederlo?» chiese Genzo. Il medico rifletté per qualche istante, fissando il ragazzo negli occhi. Poteva percepire la sua angoscia, era lì davanti a lui, impregnava le iridi color ebano.

«Herr Wakabayashi non è cosciente, ed è in terapia intensiva. C’è un vetro che separa le due sale, è il massimo che posso fare.»

«Grazie, dottore.»

«Vai, – gli disse Julia, appoggiandogli la mano sulla spalla – io ti aspetto qui.»

Rimase pochi minuti lì, a fissare suo padre collegato a una macchina. Poteva sentire il bip regolare attutito dai vetri, osservava il petto che si alzava e abbassava lentamente, quasi con fatica. Non l’aveva mai visto così, incosciente, inerme, alla mercé del destino di cui si era sempre vantato esserne l’artefice. Ognuno si crea il proprio destino, Genzo… era solito ripetergli da piccolo, e adesso era lì, in lotta tra la vita e la morte. Sentì una fitta alla bocca dello stomaco, come se una morsa gliela stesse stringendo; il dolore salì lungo la gola, chiudendogliela, e obbligandolo ad aprire le labbra per poter respirare, alla ricerca di una boccata di ossigeno. Gli occhi iniziarono a pizzicare, cos’è che gli stava scendendo lungo la guancia, una lacrima?

La asciugò con la manica della camicia, scosse il capo per allontanare quella sensazione tanto dolorosa quanto opprimente, e tornò nella sala d’attesa dove Julia, seduta composta su una sedia, stava controllando il cellulare.

La vide alzare lo sguardo quando le porte scorrevoli si aprirono, e, dopo averlo scrutato un attimo, gli sorrise dolcemente.

«Andiamo a casa, sarai stanco… domattina ti accompagno di nuovo qui prima di andare in ufficio.»

«No, io… preferisco rimanere qui.»

La ragazza lo fissò perplessa, alzando il sopracciglio.

«Nella sala d’attesa del reparto di terapia intensiva? Non credo che il tuo allenatore sarà contento di sapere che ti sei spaccato la schiena dormendo su queste seggiole. »

«Non ho… voglia di andare a casa… da solo…»

Julia soppesò mentalmente la situazione: non poteva decisamente lasciarlo lì, ma l’alternativa qual era?

«Va bene. – si sedette accanto a lui – Restiamo qua, allora. »

Genzo la guardò stralunato.

«No, tu vai a casa. »

«Ceeeerto. – gli rispose – Ti lascio qui da solo a logorarti per quello che è successo.»

«Hai già fatto abbastanza, Julia. Vai a casa, per favore.»

«Ho un’idea: andiamo da me, abito più vicino alla clinica rispetto a te. Ho un comodissimo divano-letto in salotto sul quale potrai rimuginare finché vorrai, e se ti verrà voglia di riposarti, potrai farlo.»

Genzo strabuzzò gli occhi, sorpreso.

«A casa tua?»

«Beh, è chiaro che non puoi dormire qui, Genzo, a parte che non so nemmeno se sia possibile. Ho chiamato a casa dei tuoi e tua madre sta ancora riposando.»

«Non voglio occuparti casa: che diranno i tuoi, o…»

Con un sorriso divertito sulle labbra, Julia si accomodò accanto a lui.

«Vivo da sola, Genzo: niente genitori impiccioni, né fidanzati gelosi. Solo un divano letto che ti aspetta, se vuoi… che tu dorma qui è escluso, non è di certo un posto in cui puoi permetterti di rilassarti come si deve.»

«Questo pragmatismo da dove ti salta fuori?»

«Sono… abituata a gestire situazioni difficili…» rispose lei, distogliendo lo sguardo. Finse con noncuranza di cercare qualcosa nella borsa ma Genzo aveva colto un lampo nei suoi occhi e capì di aver toccato un tasto dolente.

«Grazie…» mormorò semplicemente, e si accorse che era la seconda volta nel giro di poco che la ringraziava di cuore.

 

 

Ben trovate, mie care fanreader! Eccoci arrivate al primo momento clou della storia, il malore di Herr Wakabayashi. Questo apre a nuove possibilità, nuovi mondi, nuove concezioni de… ok, la smetto, in realtà vorrei trovare qualcosa da scrivere ma non ho ancora preso il caffè XD Vi abbraccio forte e rimango in attesa delle vostre impressioni, se vorrete. Un bacione Sakura chan

   
 
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