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Autore: veronica85    24/09/2018    7 recensioni
AU No Foresta incantata. Seattle, Settima stagione. Canon Divergence a partire dalla 7x04 inclusa. E se i ricordi che i personaggi hanno acquisito tramite la maledizione non fossero falsi? Se la Foresta Incantata, la magia, i portali non esistessero e Ivy, Jacinda, Victoria fossero davvero i nomi dei personaggi che conosciamo e non semplici coperture? Come sarebbero le loro storie? Henry, Ivy e Jacinda, ognuno coi propri problemi e fantasmi: come le loro strade potrebbero incrociarsi? E come potrebbero, Lucy e Anastasia influenzare le loro scelte?
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anastasia Tremaine, Henry Mills, Ivy Belfrey/Drizella Tremaine, Killian Jones/Capitan Uncino, Lucy
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Dunque, dunque, eccomi qua, finalmente sono tornata xd. So che ci ho messo un’eternità a postare questo capitolo, ma sono stata parecchio incasinata, tra faccende reali, contest (a proposito, avete letto la minilong che ho messo un paio di settimane fa? I protagonisti sono sempre Henry e Ivy e si parla del what if più grande del mondo, ossia: cosa sarebbe successo se, dopo che la maledizione è stata spezzata, Henry e Ella avessero scoperto che il loro non era Vero Amore? Ma lasciamo perdere l’altra storia, e passiamo a questa. Avevamo lasciato Henry e Ivy che dovevano andare a parlare col detective Rogers, dopo aver modificato la foto di Ana ed aver trovato un indizio su come potrebbe essere la bambina a 14 anni. Poi Sabine, ispirata dalla piccola indagine di Lucy sulla zia, aveva parlato col detective Rogers, destando la sua curiosità e promettendogli di portare Jacinda in centrale, per trovare informazioni su Ana. Il capitolo si era concluso con Kelly Miller che sentiva i suoi genitori discutere e cominciava a farsi un po’ di domande.
A questo punto, vi lascio alla lettura, mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!!

 
Ivy non era mai stata tanto nervosa in vita sua: quel giorno lei e Henry sarebbero andati a parlare con il detective Rogers nel tentativo di compiere un ulteriore passo nella ricerca di sua sorella. E tutto all’insaputa di sua madre. Se la cosa fosse arrivata alle sue orecchie, avrebbe dovuto seriamente cominciare a cercarsi un nuovo lavoro…o quantomeno un nuovo appartamento, perché quella volta di certo, Victoria Belfrey l’avrebbe sbattuta fuori di casa senza farsi troppi problemi. Per fortuna, a suo tempo, suo padre aveva aperto, per lei e le sue sorelle, un fondo fiduciario di tutto rispetto. Quello di Ana poi era stato chiuso e la liquidità in esso riversata in un nuovo fondo a favore di Lucy, che sua madre era l’unica in diritto di gestire. Quella era stata, a suo modo di vedere, l’ennesima ingiustizia nei confronti di sua sorella a cui non aveva avuto il potere di ribellarsi. E come avrebbe potuto? Sua madre l’avrebbe fatta letteralmente a pezzi. E in ogni caso, era lei e solo lei ad essere in diritto di gestire quel fondo. Lasciò perdere quel pensiero, tornando a concentrarsi sul suo lavoro: il telefono, che il giorno prima era stato incandescente, quella mattina sembrava aver deciso di darle una tregua. Così si era dedicata a dare un’occhiata alla sua posta elettronica, sia quella personale, sia quella dell’ufficio. Aveva perso un’ora solo a cestinare lo spam: doveva chiedere agli informatici di mettere un qualche filtro, non era pensabile perdere tempo così tutti i santi giorni. E aveva già sprecato un’altra ora, in precedenza, per portare Lucy a scuola. Incredibilmente, quel giorno la bambina non era stata fastidiosa, se ne era rimasta zitta e buona sul sedile posteriore, poi era scesa limitandosi a un saluto distratto: la scoperta dell’esistenza di Ana e della sua storia dovevano averla colpita più di quanto avesse immaginato. Aveva liquidato la cosa con una scrollata di spalle: poco male, ogni tanto anche lei aveva diritto ad una tregua. Ma forse, solo forse, sarebbe stato il caso di riparlare con Lucy dell’argomento, quella sera. O forse avrebbe fatto meglio a stare zitta e ad attendere l’evolversi degli eventi: magari sarebbe stata lei a farle nuove domande, senza costringerla a scervellarsi troppo. Perché avere a che fare coi bambini era così dannatamente complicato? Non che con gli adulti fosse più facile…. I rapporti con sua madre erano tesi ai massimi livelli, lei e sua sorella si ignoravano la maggior parte del tempo e non aveva amici. Anzi, uno l’aveva. Già e la sera precedente aveva ben pensato di metterlo in imbarazzo. Dio, perché era così stupida? L’aveva sentito balbettare mentre lo salutava, di certo era stata inopportuna. Chiuse gli occhi e sospirò, portandosi la mano sinistra alla tempia: come diavolo avrebbe dovuto comportarsi, ora? Doveva scrivergli per andare in commissariato, dovevano mettersi d’accordo su luogo e ora dell’incontro. O forse, avrebbe fatto meglio ad andarci da sola… Sai una cosa, Belfrey, lascia perdere! Sono le 10, hai ancora almeno due ore e mezza prima di doverci pensare. Non hai proprio nient’altro da fare? In effetti, sì, ce l’aveva: visto che quella era una giornata tranquilla, quasi quasi ne avrebbe approfittato per archiviare un po’ di vecchi faldoni, magari facendosi aiutare dai tirocinanti per trasportarli.
«Ma dove…. Eccola!» Senza quella il suo progetto non sarebbe mai andato in porto: il passepartout in dotazione a lei e a sua madre che le concedeva accesso illimitato a tutte le stanze delle imprese. Si alzò, sicura, dirigendosi verso tre ragazzi seduti sui divanetti dell’ingresso, riconoscendoli come gli ultimi arrivati: due ragazzi e una ragazza.
«Voi tre» li chiamò, spingendoli a scattare in piedi «tu, prendi il mio posto alla reception e voi due» continuò rivolta ai maschi «venite con me. E, ragazzina, quando tornerò mi riferirai per filo e per segno quello che è successo in mia assenza. E se mia madre dovesse cercarmi, dille pure che sono al primo piano interrato». Si assicurò di vederla annuire, poi condusse i due ragazzi con sé. La stanza in cui entrarono era stracolma di faldoni, libri e carte di ogni genere. Quando sua madre era di umore particolarmente nero, la confinava lì, costringendola a mettere tutto a posto. Stavolta avrebbe evitato quel supplizio. Si voltò verso i suoi assistenti improvvisati. «Dunque. In quest’ufficio sono conservati tutti i contratti stipulati da Lucas Vidrio e Marcus e Victoria Belfrey, nonché da tutti i dipendenti che si sono succeduti negli anni. Non ha senso tenere qui cose relative a trent’anni fa, per cui voglio che tiriate giù tutti i faldoni relativi al periodo in cui questo posto si chiamava…. Brick’s Dreams» cavolo, si sentiva ridicola ogni volta che doveva pronunciare quelle due parole… cos’aveva avuto in testa il padre di Jacinda per scegliere un nome così stupido? «e tutti quelli delle Belfrey Industries fino al 2008. Appena ne avrete tirati giù a sufficienza, vi farò vedere dove lasciarli». Attese che si mettessero al lavoro, incrociando le braccia. Poi, le venne un dubbio. Si allontanò e prese l’ascensore fino al primo piano interrato. C’erano tre stanze. La prima, come sapeva non era utilizzabile: era riservata ai libri mastri e a tutti i testi di edilizia e affini, probabilmente inutili, ormai, con l’avvento del digitale, ma comunque preziosi e da custodire. Ma le altre due sarebbero state sufficienti. O almeno, ne fu convinta finché non le aprì. La prima stanza, realizzò: era inutilizzabile: straripava di già, non era possibile aggiungerci neanche un coriandolo. La seconda aveva un po’ più di spazio ma sarebbe bastato a malapena per una decina di faldoni piccoli, a voler essere generosi. Fantastico, avrebbe dovuto lasciar perdere…. O forse no. In fondo quel grattacielo aveva altri due piani interrati.,. anche se lei non ci era mai stata fino a quel momento.
«Avanti, andiamo a vedere com’è la situazione al secondo piano interrato» si incitò. L’ascensore arrivò in un batter d’occhio e, in pochi secondi, le porte si aprirono rivelandole un piano identico a quello che aveva appena lasciato, solo, con cinque porte, anziché tre, ognuna con la sua chiave.  Controllò le varie stanze: ringraziando la sua buona stella, erano tutte vuote. Raggiunse nuovamente il piano dell’ufficio constatando che i due ragazzi la stavano aspettando: ottimo erano già pronti per un primo viaggio e stavano preparando il secondo.
«Venite con me» li invitò, indirizzandoli verso il montacarichi. Poco dopo li aveva portati davanti alla stanza designata.
«Vi ho aperto questa, dovrebbe bastare. Anche perché mancano meno di tre ore alla pausa pranzo. Mi raccomando, mettete i faldoni nello stesso ordine in cui li avete tolti dagli scaffali di sopra. Io mi assento, se ve ne andate prima del mio ritorno accostate la porta che poi ci penso io. Nel caso ci rivediamo alle 3 p.m. qui, per fare il punto della situazione».
I due ragazzi annuirono e Ivy li lasciò lì: ne avrebbero avuto per il resto della mattina. Lei, invece, sarebbe andata a verificare cosa c’era nel terzo piano interrato. Non ci era mai stata e, visto che ne aveva l’opportunità, avrebbe controllato. Anche per rendersi conto degli effettivi spazi a loro disposizione. E poi, voleva approfittare di una volta in cui sua madre non le stava col fiato sul collo. Decisa, chiamò l’ascensore, inserendo la chiave e selezionando il pulsante con su scritto – 3.
La porta si aprì in un batter d’occhio, rivelandole un piano identico a quello superiore.
Anche lì c’era una serie di porte e, provandole una ad una, la giovane constatò che erano, ugualmente, tutte aperte… tranne una. Quell’eccezione la stranì: cos’aveva quella stanza di particolare? Perché era chiusa a chiave, a differenza delle altre? Afferrò il passepartout che aveva usato con le altre porte, ma, contrariamente al solito, la serratura non scattò.
Questa poi! L’aveva inserita dal verso sbagliato? Girò e rigirò la tessera tra le mani, poi riprovò, ma di nuovo ottenne lo stesso risultato.
«Stupida, prova a cambiare verso». Ormai era una questione di principio. Infilò la tessera dall’altro lato, la mise a testa in giù e fece un terzo tentativo, ma niente: ognuno si risolse in un nulla di fatto. Perché sua madre ci teneva tanto che nessuno entrasse in quella particolare stanza? Cosa ci nascondeva? Magari qualche documento che provava affari non troppo puliti? Se così fosse stato, avrebbe potuto passarli ad Henry per le indagini che stava conducendo con il detective Rogers. Ma era inutile anche solo pensarci: se non riusciva ad entrare, come poteva sperare di scoprire qualcosa di più sul contenuto di quel luogo? Sbuffò, scocciata mentre sentiva la suoneria del suo telefono annunciare l’arrivo di un messaggio. Lo aprì: era di Henry. Allora, andiamo in commissariato, poi? Te la senti? Tirò un sospiro di sollievo all’idea che fosse stato lui a cercarla: forse, dopotutto, la sera prima non l’aveva messo così a disagio come credeva. Meglio così, non le andava proprio che si creassero situazioni strane. Inviò immediatamente la risposta: Certo, non vedo l’ora di sapere se il detective Rogers avrà qualche idea. Riesci ad essere alla stazione di polizia per le 13:15? Io finisco di lavorare alle 13:00 e pensavo di togliermi subito il pensiero, se per te va bene.
Non le importava di saltare il pranzo: ritrovare sua sorella aveva la precedenza anche sui suoi bisogni fisiologici. E se qualcuno avesse obiettato che quell’improvviso interesse fosse stato strano… beh, non le sarebbe importato! Aveva sempre desiderato ritrovare sua sorella e se non l’aveva fatto prima era stato solo perché non avrebbe saputo da che parte cominciare. E un detective era una spesa che non sarebbe di certo passata inosservata a sua madre e finché avesse vissuto sotto il suo stesso tetto avrebbe dovuto fare attenzione a come agiva. Ma ora c’era Henry con lei, che la sosteneva e l’aiutava come e più di un poliziotto, senza chiederle nulla in cambio. E presto, forse, ci sarebbe stato anche il detective Rogers. Doveva ringraziare Henry anche per quello, realizzò. Avrebbe dovuto fargli un regalo enorme, a prescindere da come si fosse conclusa quella storia.
Il suo cellulare suonò di nuovo. A dire il vero ho sentito Rogers e mi ha detto che non possiamo andare fino alle 14 quando torna dalla pausa pranzo. Ma possiamo vederci comunque quando esci e andiamo a mangiare qualcosa insieme. Che ne dici?
Ivy si morse il labbro, trattenendo una risposta infantile, tentando di tenere a mente che non tutti erano come lei e che non poteva pretendere che gli altri rinunciassero al cibo solo perché lei aveva fretta. D’accordo, ma non credo che mangerò molto: ammetto di essere un po’ nervosa. Si guardò intorno, rendendosi conto che era ancora immobile lì al terzo sotterraneo senza alcun motivo sensato. Lasciò perdere il telefono e tornò all’ascensore, selezionando il piano dell’ufficio. Riprese il suo posto, mentre la ragazzina che l’aveva sostituita l’aggiornava su ciò che era accaduto in sua assenza: per fortuna sua madre non l’aveva cercata, ma avevano ricevuto due telefonate per chiedere di spostare due diversi appuntamenti. Le comunicò di aver provato a occuparsene, riferendo le domande che aveva posto e le risposte che aveva provato a dare.
«Molto bene. Si vede che cominci a capire come funziona qui. Potrei aver bisogno di essere sostituita spesso in questi giorni, conterò su di te. O il tuo tirocinio era per un’altra mansione?»
«Ecco… ero venuta qui per imparare come funziona la contabilità di una grande impresa, ero con Mr Smith. Ma… a dire il vero, non credo di essere molto portata per questo genere di cose, forse me la cavo meglio con accoglienza e appuntamenti.»
Ivy annuì «Allora resta tu alla reception, io ne approfitterò per occuparmi di altre questioni. Lì ci sono i numeri dei nostri agenti immobiliari e qui» continuò indicando una cartella sul desktop «l’elenco aggiornato dei loro appuntamenti. Sposta i due appuntamenti che ti sono stati chiesti, verifica a chi erano stati assegnati quei clienti e verifica con l’agente la sua disponibilità, poi chiama i due clienti. Se non si riesce a conciliare, qui» disse mostrando una terza icona «ci sono i miei impegni. Puoi dirottarli da me, se il rischio è quello di perdere clienti, ma solo in quel caso, sono stata chiara?»
«Sì, miss Belfrey» annuì sicura la giovane.
«Molto bene. Vado a vedere a che punto sono i tuoi colleghi, poi andrò a pranzo fuori. Sarò di ritorno per le 15. Se mia madre dovesse cercarmi, dille pure di chiamarmi al cellulare. Buon lavoro». Con quest’ultima uscita, Ivy si allontanò, diretta all’archivio. La situazione sembrava sotto controllo: uno dei ragazzi era lì, mentre l’altro no. Ma mancava anche un carrello, probabilmente stava scaricando i faldoni nelle stanze che aveva loro indicato. Soddisfatta, si diresse al piano interrato per controllare e le sue supposizioni si rivelarono corrette. Non aveva nient’altro da fare. Avrebbe svuotato un po’ la posta da remoto in attesa che arrivasse l’ora dell’incontro con Henry.
 
«Ricordami di nuovo perché lo sto facendo»
«Perché se c’è anche solo una minima possibilità che tua sorella abbia ragione, è giusto considerarla. Perché stiamo parlando di una ragazzina di quattordici anni che potrebbe essere tenuta lontana da voi contro la sua volontà e voi avete smesso di preoccuparvene credendo che sia morta»
Jacinda si morse il labbro inferiore, a disagio: messa così suonava davvero terribile e tutti loro apparivano come dei mostri senza cuore. Come forse erano stati scegliendo di bollare le teorie di Ivy come le farneticazioni di una ragazzina disperata. Sospirò, varcando la soglia della stazione di polizia: avanti, fallo: via il dente, via il dolore.
La situazione sembrava tranquilla, agenti entravano e uscivano da vari uffici senza troppa fretta: probabilmente quel giorno non c’erano emergenze. Sabine si diresse sicura alla reception, dov’era seduto l’agente Ryce, intento a smanettare al computer.
La donna si schiarì la voce. «Buongiorno agente. Siamo Sabine Howard e Jacinda Vidrio. Vorremmo vedere il detective Rogers, credo ci sita aspettando, sa per caso dove….»
«Ah, davvero? Ma guarda un po’. E chi credete che sia, io, il vostro maggiordomo?» Prego? Le due donne gli rivolsero un’occhiata sconvolta: certo che, se erano tutti così, non stupiva che le ricerche della piccola Anastasia si fossero arenate. Jacinda strinse i pugni, innervosita dall’idea: era per questo che avevano smesso di cercare la sua sorellastra? Se lei si fosse permessa di non servire un cliente o di trovare scuse, Luis l’avrebbe, giustamente, licenziata in tronco. E invece quella gente poteva tranquillamente fregarsene di ciò che accadeva intorno a loro, della sofferenza di intere famiglie e contare su uno stipendio fisso sicuro. Era profondamente ingiusto.
«Un maggiordomo farebbe meno storie e sarebbe più efficiente di lei. E avrebbe anche un aspetto migliore.» Jacinda non era proprio riuscita a tenere a bada la lingua: cavolo! Ma chi si credeva di essere quel tipo? Se avesse osato rispondere così a Victoria si sarebbe ritrovato a pulire i bagni pubblici con la lingua. E, per una volta nella sua vita, lei non avrebbe avuto nulla da ridire.
«Ma come si permette?! Potrei farla arrestare per oltraggio a pubblico ufficiale!»
Jacinda strinse i pugni: era a un soffio dallo sputare in faccia a quell’essere spregevole. Per fortuna, prima che potesse fare qualsiasi cosa, arrivò qualcuno a trarla d’impaccio.
«Che succede qui, collega? Le signore hanno bisogno? Oh… ciao Sabine! Jacinda, sono contento che tu abbia accettato di venire!» esclamò Michael Rogers, sopraggiungendo proprio in quel momento. «Venite con me, andiamo a parlare da un’altra parte».
Le due donne seguirono il detective senza protestare. Michael le condusse in una stanza vuota poco distante e chiuse la porta.
«Vi chiedo scusa per il mio collega, ha battuto la testa da bambino, non è molto intelligente»
«Spero che non siano tutti così» borbottò Jacinda. Cominciava a non essere più molto sicura che andare lì fosse stata una buona idea.
«Beh, non posso parlare per gli altri… ma spero di non sembrare come lui. Vi assicuro che cerco di fare il mio dovere. E devo ammettere di esserci rimasto davvero male quando Sabine mi ha raccontato le teorie sulla tua sorellastra: com’è possibile che nessuno abbia minimamente considerato la possibilità che possa essere ancora viva? Che magari tua sorella avesse ragione e la giacca che è stata ritrovata non fosse di Anastasia?» Scosse la testa, incredulo: ci aveva rimuginato per ore e non era riuscito proprio a farsene una ragione. «Per favore, aiutami a capire, perché, davvero, non riesco ad arrivarci»
Jacinda rimase in silenzio per un po’, riflettendo: quella non era una domanda semplice, non era nemmeno sicura di avere la risposta, le sue erano solo supposizioni. «Suppongo perché… la mia matrigna era sua madre. Voglio dire… già all’epoca il nome di Victoria Belfrey era conosciuto e rispettato. E Ivy è stata aggredita e ha avuto una commozione cerebrale, dicevano che erano il trauma e il senso di colpa a farla parlare quindi non l’hanno considerata attendibile.»
Michael annuì: aveva senso. «Mentre tua madre era più lucida, in un certo senso. Capisco perché non hanno ascoltato Ivy, probabilmente in quelle condizioni non l’avrei fatto nemmeno io.  Ma se avesse continuato ad insistere, come Sabine mi ha detto che sta facendo, l’avrei interrogata e magari, solo per farla stare più tranquilla, avrei fatto qualche ricerca. Anche perché, da quanto ho capito, non c’è nessuno che possa avvallare questa teoria, no?»
Jacinda fu sul punto di rispondere negativamente, poi si bloccò. «Beh… c’era qualcuno che le credeva, in effetti. La governante di Anastasia: l’ho sentita sostenere con Victoria che doveva ascoltare Ivy perché a suo dire mia sorella aveva ragione. Ma la mia matrigna le ha risposto di tacere, che lei era solo una domestica e non doveva intromettersi in certe questioni.»
Michael rimase interdetto: «Aspetta… mi stai dicendo che… un’altra persona appoggiava tua sorella e che è stata…costretta a tacere?» Jacinda annuì. «Ma questo cambia tutto!» esclamò. «Voglio dire… se c’è un’altra persona che sostiene questa teoria... ma se ne era convinta, perché non ha parlato con la polizia?»
Jacinda scoppiò a ridere «Davvero me lo sta chiedendo, detective? La mia matrigna deve averla minacciata di una denuncia o di qualcos’altro. Aveva confermato pubblicamente che la giacca ritrovata era di Anastasia, smentire l’affermazione l’avrebbe fatta apparire maggiormente come una madre disattenta, che non riconosceva neanche i vestiti della sua stessa figlia. E aveva già fatto una pubblica figuraccia a causa del rapimento, non poteva permettersene una seconda. Chissà, magari le ha dato una somma sostanziosa per farla stare zitta. Ma» continuò
cambiando leggermente tono «quest’ultima è solo una mia supposizione»
Il detective Rogers era allibito. «Fammi capire… hai appena sostenuto che tua madre tenesse più alla sua immagine pubblica che all’incolumità di una bambina? Sua figlia? Ho capito bene?»
«Volendo essere precisi, è la mia matrigna… ma sì, detective, è esattamente quello che ho appena detto» affermò la donna sicura. «La vera madre di Anastasia era Ivy: non biologicamente, certo, ma… le voleva molto bene e Ana le era attaccatissima, era la sua ombra. Per andare a scuola Ivy doveva uscire di nascosto, altrimenti ogni volta erano strilli e pianti inconsolabili. Lo so che sembra impossibile» continuò, guardando il suo interlocutore negli occhi «ma le assicuro che è la verità»
«Posso crederci. Mi è capitato di vedere certe scene tra madri e figli, ma anche tra zii e nipoti, o nonni e nipoti, quindi ho ben presente di cosa stai parlando. Se hai tempo, vorrei farti qualche altra domanda, poi prometto che vi lascio andare. anzi, vi offro il pranzo qui vicino: ci stavo per andare, ormai è quasi ora. Venite con me?»
Le due ragazze non ebbero bisogno di parlare per decidere: uno sguardo e la decisione era presa: «D’accordo, detective, faccia strada» acconsentì Jacinda. Ormai era in ballo e sarebbe andata fino in fondo a quella storia. E finalmente avrebbe avuto la coscienza a posto e la consapevolezza di aver davvero fatto tutto quanto era in suo potere perché la sua sorellastra potesse tornare nel luogo cui apparteneva di diritto.
 
Finalmente era arrivata l’ora di disegno! Lucy esultò tra sé: l’aveva aspettata per tutto il giorno, le mani le prudevano dalla voglia di disegnare e mettere su carta quello che aveva visto la sera precedente. Aveva voglia di fare un ritratto di zia Anastasia.Aveva visto una foto delle sue zie da piccole, sua madre le aveva parlato di zia Anastasia e aveva cominciato a farsi un’idea di come avrebbe potuto essere e a desiderare di averla conosciuta. Ovviamente, quello non era possibile e forse non lo sarebbe stato mai, visto l’atteggiamento della nonna. La sera prima aveva visto zia Ivy chiudersi nella sua camera e cercare tra vari album: forse raccontare di sua sorella le aveva fatto venire nostalgia. Lucy aveva provato a riflettere: come sarebbe stata se, senza un motivo, le fosse stato impedito di vedere sua madre? Avrebbe pianto e strepitato e fatto i capricci come una mocciosa di tre anni, ne era sicura. Come doveva sentirsi sua zia tenuta chissà dove, con chissà chi, senza poter vedere una sorella a cui, sembrava evidente, voleva molto bene? E la cosa incredibile era che zia Ivy sembrava ricambiarla e volergliene altrettanto! Lei aveva sempre creduto che zia Ivy non volesse bene a nessuno, che le importasse soltanto far contenta la nonna e non sentirla lamentarsi. Invece aveva scoperto che aveva voluto bene (e probabilmente ne voleva ancora) ad una bambina più piccola di lei, che se ne era occupata come se fosse stata sua figlia, anziché sua sorella e che aveva sofferto come e più degli altri quando le era stata portata via. Però, c’era una cosa che continuava a non capire: se davvero zia Ivy aveva voluto così bene a sua sorella, se aveva passato volentieri tutto il suo tempo libero con lei… perché con lei stessa (sua nipote, in fondo, non esattamente un’estranea) era sempre così sgradevole? Ok, forse Henry non aveva tutti i torti quando diceva che lei non era esattamente disponibile ad un confronto civile, però… Sbuffò: era una domanda troppo difficile, ci avrebbe pensato un altro giorno. Per il momento sarebbe stato meglio concentrarsi sul disegno e cercare di farlo venire meglio possibile. Dunque… le sarebbe servito il marrone, sicuramente, per i capelli e gli occhi. E il rosa chiaro per il viso. E poi…vabbé, al vestito ci avrebbe pensato dopo. Si concentrò: afferrò la matita e cominciò a tracciare alcune linee: prima il viso, gli occhi, il naso, la bocca, il collo, le spalle, le braccia… no che schifo, cos’era quella roba? Cancellò irritata, ricominciando. Si sentì toccare un braccio e vide un bigliettino rotolare sul banco. Lo aprì: Cosa disegni? Io mamma e papà. Guardò Winifred, poi tornò ad abbassare gli occhi sul suo disegno. Sarebbe davvero venuto bene? Ci sperava. Scrisse sul bigliettino una risposta veloce: È mia zia, l’altra sorella di mia madre, si chiama Anastasia.Poi passò il bigliettino all’amica e tornò a concentrarsi sul suo lavoro: voleva che venisse perfetto. Magari poi l’avrebbe fatto vedere a zia Ivy o alla mamma: loro avrebbero potuto dirle se le somigliava. Poco dopo, il bigliettino tornò a rotolare sul suo banco. Posò la matita e lo aprì di nuovo: l’altra sorella? Ma tua madre non ne ha una sola? Lucy strinse le labbra, riflettendo, cominciando a scrivere la spiegazione… per poi cancellare tutto e buttare il bigliettino. Ne prese un altro: È troppo lungo da spiegare, ti dico dopo. L’aveva appena tirato alla compagna quando un’ombra le oscurò la visuale. Sollevò lentamente il viso: oh-oh… la maestra le stava rivolgendo uno sguardo torvo, mani sui fianchi.
«Belfrey, quale parte del “questa è l’ora d’arte” non hai inteso? Mi aspetto che facciate un disegno, non che scriviate bigliettini. Fammi vedere a che punto sei!» ordinò, prendendole il foglio da sotto le braccia. Lo esaminò, girandolo prima in orizzontale, poi in verticale, osservando il viso e i primi accenni del corpo della bambina rappresentata. Il compito che aveva dato era semplice: rappresentare uno o più membri della propria famiglia, cercando di renderli il più realistici possibile. E quella bambina era un errore: non le risultava che nella famiglia Belfrey ci fosse una bambina, a parte la stessa Lucy ovviamente.
Si produsse in un’espressione accigliata: «Esattamente, chi dovrebbe essere? Mi sembra di ricordare che tua zia non abbia figli e che tu sia figlia unica, sbaglio?»
«Ecco, miss Brown… è vero, ma…» Lucy esitò: doveva spiegarlo? Probabilmente era meglio farlo «…quella è un’altra zia. Si chiama Anastasia e non la vediamo da nove anni. Però… In fondo, anche se non sappiamo dov’è, anche lei fa parte della famiglia… così ho pensato di disegnare lei… non va bene?»
La donna tornò a osservare il foglio, perplessa, poi lo riconsegnò alla ragazzina: «Sei…. Sei proprio sicura di non voler disegnare qualcun altro? Non so, la mamma… o la nonna, ad esempio… o magari il tuo papà» provò a proporle.
«Io non ho un papà, miss Brown. Non l’ho mai visto, neanche in foto. Ma… perché, disegnare zia Ana non va bene?»
Eleanor Brown annui, riluttante, riconsegnando il foglio alla bambina. «Sì… sì certo, suppongo che vada bene…. Vai avanti, finiscilo e non distrarti ancora, mi sono spiegata?» Voleva vederci chiaro in quella storia, era tutto troppo strano. Ma per il momento avrebbe lasciato che la lezione terminasse poi avrebbe valutato come agire.
Lucy riafferrò il foglio, annuendo e riprendendo a disegnare, concentrata: quando fosse tornata a casa, avrebbe chiesto a zia Ivy di poter vedere un’altra foto, per essere certa che il suo disegno fosse minimamente somigliante.
Pochi minuti dopo, giunse finalmente l’ora della pausa pranzo: Lucy ripose delicatamente il foglio dentro l’album. Winifred la stava aspettando per mangiare insieme a mensa.
«Allora? Mi racconti? Chi è la nuova zia?»
«Va bene, ora ti racconto… però non dirlo a nessun altro, va bene? È un segreto»
Winifred assunse un’espressione serissima: «Lo giuro, croce sul cuore»
Lucy approvò, quindi prese per mano l’amica, incamminandosi verso la mensa. «In pratica…»
 
«Patti chiari, amicizia lunga, Mills: tu mangia, io ti faccio compagnia. Ho lo stomaco chiuso, oggi, non riuscirei a mandare giù neanche una briciola di pane. E non sto esagerando». Ivy aveva esordito in quel modo, non appena aveva raggiunto Henry al portone delle Belfrey Industries, strappando una smorfia scontenta all’amico.
«Non dire sciocchezze. Devi mangiare, devi essere lucida e in forze per parlare con il detective Rogers. Se vogliamo che ci dia una mano dobbiamo essere chiari e non dargli alcun motivo per dubitare delle nostre supposizioni. E vederti incerta potrebbe essere uno di questi. Se avrai fame, qualsiasi cosa rischierà di distrarti. Quindi mangerai. Ti concedo porzioni piccole, ma devi mangiare o non usciamo dal locale, a costo di far tardi all’appuntamento»
Ivy sbuffò: certo che, quando ci si metteva, Henry sapeva essere proprio testardo! E ormai aveva imparato che insistere non sarebbe servito a niente, se non a farlo insistere a sua volta. Borbottò un assenso poco convinto, mentre si lasciava scortare fino alla macchina di lui: quel giorno stava cedendo proprio su tutto, aveva anche accettato un passaggio. Ma quell’ultimo punto l’aveva accolto più che volentieri: aveva troppe cose per la testa e non sarebbe stata sufficientemente concentrata per strada, col rischio di mettere anche in pericolo altri. Sperò ardentemente che la visita in commissariato le svuotasse un po’ il cervello: una volta uscita di lì avrebbe dovuto recarsi a prendere Lucy a scuola ed era necessario che la sua soglia di attenzione fosse al massimo, non poteva rischiare di sbagliare strada o peggio, fare un incidente. Si immisero nel traffico e si rivolse immediatamente ad Henry: aveva bisogno di distrarsi un po’, aveva troppe cose in testa. «Non ti viene la nausea a guidare continuamente? Ho sempre creduto che chi fa l’autista per lavoro approfittasse di ogni occasione buona per farne a meno. Non che mi dispiaccia, sia chiaro» si affrettò ad aggiungere, temendo di essere fraintesa «oggi ho troppe cose per la testa, se guidassi io probabilmente finiremmo fuori strada o andremmo a sbattere con qualcuno. Era così… solo curiosità» Giusto per parlare di un argomento neutro e placare, almeno per il momento, tutti i pensieri che le turbinavano nella mente. Sapeva che avrebbe dovuto metterlo al corrente, prima o poi, ma intendeva farlo a pranzo, quando la sua attenzione sarebbe stata tutta per lei e non avrebbe dovuto dividerla con la strada. Le aveva già dimostrato di essere dotato di una notevole capacità di analisi, sicuramente sarebbe stato in grado di aiutarla a sciogliere anche quel nuovo nodo.
«A volte capita, in effetti. Anche per questo ho creato H Town. Certe volte lo uso come un blog: mi sfogo e scrivere lì mi libera da tutto lo stress. E se non basta, apro un documento e scrivo tutto in un foglio di computer a caso o su un blocco. Poi il giorno dopo sono nuovamente carico.  E comunque, a volte, mi distraggo anche mentre sto guidando… solo per alcuni secondi, ovviamente.» si affrettò a specificare, notando l’occhiata storta che lei gli aveva rivolto «E allora penso e mi chiedo quale storia possano avere i miei clienti, perché debbano andare proprio in certi posti e certe volte invento delle vere e proprie storie, basandomi solo su alcuni dettagli della loro vita. Eccoci, siamo arrivati.» concluse parcheggiando. «Da qui ci sono cinque minuti a piedi alla centrale di polizia e qui vicino c’è un posto in cui si può mangiare qualcosa. Ma la tua dieta se ne andrà di nuovo a farsi benedire, perché sono soprattutto panini, patatine… snack, insomma.»
Ivy gli rifilò un’occhiata torva, mentre entravano nel locale e cercavano due posti liberi. «Ma tu mangi sempre così? Avrai colesterolo e trigliceridi alle stelle. Anzi, mi stupisco che tu sia ancora così magro.»
Henry le puntò il dito contro, mentre si sedevano «Attenta a quel che dici, potrei mandarti a casa a piedi. E comunque… sono fortunato: ho un metabolismo veloce, non ingrasso. E, prima le educatrici dell’istituto poi Lauren, si sono assicurate che facessi una dieta decente, per cui, tutto sommato, mi è andata bene»
«A casa a piedi? Ma ho perfino i tacchi! Allora non sei un vero cavaliere!» Esclamò, puntandogli il dito contro e scoppiando a ridere. Nel frattempo, un cameriere era venuto a prendere le loro ordinazioni: Henry optò per un piatto di pasta, mentre Ivy scelse una porzione di verdure cotte, la cosa più leggera che aveva trovato sul menù. Il pasto si svolse in silenzio: entrambi erano concentrati su ciò che sarebbe avvenuto di lì a poco, sull’incontro con il detective Rogers e sulle parole più giuste da usare per renderlo partecipe della situazione. A proposito… Ivy posò la forchetta, attirando l’attenzione di Henry, che la guardò.
«Ricordi la promessa che ti ho fatto? Che avrei tenuto d’occhio mia madre e ti avrei parlato di qualsiasi cosa strana avessi notato? Beh, oggi è capitata una cosa…» si interruppe, non sapendo esattamente da dove cominciare e abbassando lo sguardo, quasi cercando ispirazione nel suo piatto. Sollevò di scatto la teta: «Ok, non so da che parte cominciare, perciò te lo dico e basta. Il punto è che oggi sono scesa nei sotterranei delle Belfrey Industries: volevo farci portare un po’ di vecchi documenti e cose del genere. Ci sono tre piani interrati. Nel primo non ci sarebbe entrato neanche un coriandolo, quindi sono passata di sotto. Ho trovato il posto che mi serviva, poi ho deciso di andare a vedere anche il terzo piano. Anche lì c’erano tutte stanze libere. Ma soprattutto erano tutte aperte. Proprio come quelle al piano superiore. Poi ho visto un’altra porta, stavolta chiusa. Mi è parso strano, così ho provato a usare il passepartout che ho in dotazione, ma non ha funzionato. E questo è ancora più strano, che senso ha avere una stanza che non può essere aperta?»
Henry non era certo di aver capito bene. «Aspetta, aspetta… mi stai dicendo che tua madre potrebbe tenere lì dentro qualcosa che rischierebbe di metterla nei guai?»
«Beh… è l’unica spiegazione plausibile che ho trovato. Te ne vengono in mente altre? Per quale motivo quella stanza dovrebbe essere diversa dalle altre, se non per il contenuto? Se fosse vuota come le altre, non ci sarebbe motivo di tenerla chiusa»
«No, in effetti no… ma per essere sicuri dovremmo entrarci oppure… non hai detto che avete delle telecamere di sicurezza? Potremmo vedere se arrivano fin lì e cercare di accedere alle registrazioni. Se lo fai tu non è neanche reato; in fondo sei la figlia della proprietaria ed è giusto che voglia assicurarti che sia tutto sotto controllo.»
Ivy sussultò: come aveva fatto a non pensarci? «Hai ragione, che stupida! Non mi è proprio venuto in mente, oggi ho davvero troppi pensieri. Spero che andare alla polizia tra poco serva a qualcosa…»
Henry poggiò una mano sulla sua stupendosi di quanto fosse piccola. Ma non si soffermò su quel pensiero, c’era una questione più importante da chiarire. «Servirà. D’accordo? Devi avere fiducia, non sarà un viaggio a vuoto. Se anche Rogers potesse dirci soltanto ciò che è stato fatto finora, sarebbe un punto di partenza. Ma credo che potrà fare di più: lui si intende di casi come quello di tua sorella, di sicuro avrà qualche idea cui noi non abbiamo pensato. Ma devi esserne convinta o ti porterai sfortuna da sola»
«Hai ragione. Per fortuna ci sei tu, Henry, sei molto più lucido di me. Se dovessi occuparmene da sola non so proprio come farei. Grazie, davvero… per tutto.»
Henry rispose scuotendo la testa «Non devi ringraziarmi. Sai, in realtà… lo faccio anche per me. Per Abby non ho potuto fare niente e non sono mai riuscito a perdonarmelo del tutto.  Se posso fare qualcosa per un’altra bambina, se il mio supporto aiuterà a riportarla a casa… allora farò tutto quanto è in mio potere. Non ti mollerò finché non saremo venuti a capo di questa storia. D’accordo?»
Ivy gli sorrise, grata. «D’accordo, grazie Henry.» Un’occhiata veloce all’orologio le rivelò che mancavano appena dieci minuti all’appuntamento col detective Rogers.
Rapidamente, afferrò la borsa, estraendone una banconota da cinquanta dollari, stoppando le proteste di Henry con un cenno «Stavolta no: l’ultima volta hai pagato tu, hai perfino comprato il succo di frutta a Lucy e ultimamente quando siamo andati insieme da qualche parte abbiamo preso la tua macchina. Quindi, non fare storie Mills, o potrei offendermi. E poi, non mi va di arrivare in ritardo. Andiamo?» concluse, avviandosi verso l’uscita.
Henry sbuffò e la seguì borbottando.
 
Michael era appena tornato dalla pausa pranzo: per la prima volta non l’aveva passata da solo o con qualche collega logorroico ma in compagnia di ben due donne. Gli aveva fatto molto piacere rivedere Sabine e che fosse riuscita a convincere Jacinda ad andare a parlargli: sentiva che era suo dovere occuparsi di quel caso, andare a fondo di quella questione. Se ancora qualcuno era convinto che quella bambina fosse viva da qualche parte, lui avrebbe mosso mari e monti per trovarne le prove, proprio come aveva fatto per il caso di Eloise Gardner. E se quella speranza si fosse rivelata niente più che un buco nell’acqua l’avrebbe abbandonata, ma con la consapevolezza di aver fatto tutto quanto era in suo potere e di non aver lasciato nulla di intentato. Guardò l’orologio attaccato alla parete: le 13:58 a breve sarebbe arrivato Henry con Ivy Belfrey. Si raddrizzò sulla sedia, alla ricerca di una posizione comoda e prendendo in mano un fascicolo a caso, giusto per tenere la mente occupata. Appena cinque minuti dopo, sentì dei passi nella sua direzione: alzò gli occhi e vide Henry e Ivy Belfrey tallonati dal suo collega.
«Ehi, voi due, dove credete di andare?»
Michael si alzò: «Stavano venendo da me, agente Ryce, li aspettavo. Non preoccuparti, è tutto sotto controllo». L’altro uomo sbuffò, poi girò i tacchi, tornando da dov’era venuto. Michael fece segno ai due di accomodarsi. «Perdonate il mio collega, è un idiota. Sono contento che siate qui, stavo appunto valutando di mettermi in contatto con lei, miss Belfrey. Volevo discutere con lei della questione relativa a sua sorella Anastasia».
Ivy trasalì, guardando Henry, poi tornando a rivolgersi al detective. «Ha scoperto qualcosa di nuovo? Noi siamo qui proprio per parlare di questo…»
«No, miss, non ho scoperto nulla. A suo tempo venne presa per buona l’idea che la bambina fosse morta e il caso venne chiuso. Solo ieri ho saputo che lei non crede a questa teoria e che è convinta che sua sorella sia ancora viva, da qualche parte. Ho chiesto a sua sorella Jacinda di rispondere a qualche domanda e lei mi ha confermato che… come ha detto?» Michael andò a riguardare gli appunti che aveva di fronte a sé «Cito parole testuali “la vera madre di Anastasia era Ivy”. Di conseguenza, per quanto mi riguarda, sono disposto a prendere per buona qualsiasi cosa mi dirà. Inoltre ho saputo che lei non è l’unica a sostenere questa teoria, dico bene?»
Ivy era allibita: non avrebbe mai immaginato che Jacinda la sostenesse e fosse disposta ad appoggiarla. Da dove veniva quest’improvvisa solidarietà? Perché non si era schierata prima, quando tutti credevano fosse solo una ragazzina pazza e confusa? Sentì il detective schiarirsi la voce e sussultò nuovamente, rendendosi conto di essersi imbambolata…. Cosa le aveva chiesto? «Sì… sì, è vero, non ero l’unica a pensare che mia sorella fosse ancora viva da qualche parte: anche la sua governante era d’accordo con me, lo fu per giorni. Ma poi, da un giorno all’altro se ne andò, probabilmente fu licenziata perché mia madre non la voleva tra i piedi e non riuscii più a mettermi in
contatto con lei.»
«Capisco» mormorò il poliziotto riflettendo. «Per caso ti ricordi il nome di questa donna e quanti anni dovrebbe avere? Così magari posso cercarla e provare a parlarci»
«Si chiama Addison Moore. Quando si prendeva cura di mia sorella aveva… cinquant’anni, credo, quindi dovrebbe aver superato i sessanta, ormai. Era davvero una brava donna, trattava Ana come fosse la sua nipotina e voleva bene anche a me e Jacinda. Ana la adorava, era l’unica persona con cui accettasse di stare quando io dovevo andare a scuola. Poi a volte non c’era o faceva tardi ed erano urla, strepiti e pianti inconsolabili»
Michael annuì: questo coincideva col racconto di Jacinda. «Partendo dal presupposto che la pista della giacca sia fasulla… c’è qualcosa che puoi dirmi? Ho tutti i dati di tua sorella: nome, cognome, età, data di nascita, aspetto fisico, almeno approssimativo. Aveva qualche segno distintivo? Non so, una cicatrice, una voglia o qualsiasi altra cosa. E sarebbe fantastico se potessi raccontarmi quello che ti ricordi del giorno che è stata portata via.» Istintivamente, afferrò un registratore, inserendoci dentro una cassetta: preferiva avere una testimonianza da poter riascoltare in modo da potersi concentrare sulle espressioni della sua interlocutrice. Fece partire il nastro, cercando di fare meno rumore possibile.
Ivy si prese un momento: quel poliziotto le aveva fatto molte domande. Lei era in grado di rispondere, ne era sicura, ma avrebbe dovuto scegliere accuratamente le parole e l’ordine in cui dare le informazioni.«Sinceramente, non ci ho mai pensato. Forse però…. Sì, eco: aveva tre nei lungo la colonna vertebrale, al centro della schiena. Il dottore disse che erano innocui, ma ci ridevamo tanto perché erano disposti a triangolo, quasi a formare una A, l’iniziale del suo nome. Le dicevo sempre che quello era stato un motivo in più per il quale avevamo scelto di chiamarla Anastasia. Ogni volta che finiva di fare il bagno, si piazzava davanti allo specchio e provava a toccarli, ma aveva sempre le braccia troppo corte per arrivarci… mi scusi, detective, sto divagando» mormorò, chiudendo gli occhi e stringendo l’attaccatura del naso tra pollice e indice: faceva ancora maledettamente male raccontare certe cose. Ad un perfetto estraneo, per di più. Ma doveva andare avanti, lei era l’unica in possesso di un numero di informazioni sufficiente ad agevolare le indagini. «Il giorno in cui me la portarono via era una caldissima giornata di luglio, esattamente il 13. Eravamo andate al parco: lei era stata malata per le due settimane precedenti, aveva avuto la varicella e nessuna delle due era più uscita di casa. Non vedevamo l’ora di prendere un po’ d’aria. Così siamo andate al parco giochi che era lì vicino: lei passava da un gioco all’altro e io le gridavo di non correre o si sarebbe ammalata di nuovo. C’erano pochissime altre persone, ognuno si faceva gli affari suoi. Ad un certo punto è voluta salire su un gioco impossibile: ero terrorizzata che si spaccasse la testa ma lei rideva fortissimo… ed è l’ultima cosa che ricordo. Mi sono risvegliata con un grande dolore alla testa, ma ormai era passata una settimana e Ana non c’era più».
Un pesante silenzio cadde nella stanza, mentre ognuno dei presenti tentava di prendere atto delle informazioni appena ricevute. Michael spense il registratore, riavvolgendo la cassetta: l’avrebbe riascoltata quanto prima. «Ho registrato quest’ultima parte, se per te non è un problema, così non sarai costretta a ripeterla. È la più importante e quella da cui dobbiamo ripartire per le ricerche. Per il momento, non possiamo fare di più, ma siamo comunque molto più avanti dei miei colleghi. Sono fiducioso: se tua sorella è ancora viva, la troveremo».
Ivy trattenne un singhiozzò: di nuovo quell’ipotesi, era… Prima che potesse dire qualsiasi cosa, la voce di Henry si impose sulla sua, mentre il suo proprietario poggiava una pen drive sulla scrivania del detective. «In realtà, possiamo aggiungere una cosa. Come sai, io sono un cavolo di nerd e so usare certi programmi. Ieri sera mi sono fatto dare una foto di Ivy a cinque anni e una a quattordici. Poi ho confrontato la foto di lei bambina con quella di Anastasia alla stessa età, usando un programma che si chiama Twins or Not: sono sorelle, figlie degli stessi genitori e il computer ha rilevato che tra loro c’era il 75% di somiglianza. Poi ho usato un altro programma, che di sicuro conoscete anche voi: quello elaborato dai ricercatori dell’università di Washington che permette, partendo dalla foto di un bambino di almeno tre anni, di vedere l’evoluzione del suo aspetto fisico in varie fasce d’età. Ho fatto una prova con foto di persone che conosco, comprese le mie ed è affidabilissimo. Ieri l’ho usato su una foto di Anastasia ed è venuto fuori l’aspetto che dovrebbe avere attualmente. Scarica il file e usatelo, è dentro la pen drive che ti ho messo qui sopra».
Michael afferrò la chiave, infilandola nel computer e aprendo la cartella. Trovò subito il file e lo spostò nel suo computer. «Conosco il programma di cui parli, ma solo per sentito dire. Io non saprei usarlo e, dato che preferirei non coinvolgere i miei colleghi in questa storia, è un bene che ti sia occupato tu di questa parte. Direi che ci siamo detti tutto, vi farò sapere se scopro qualcosa e voi, ovviamente farete altrettanto con me»
Henry e Ivy si alzarono: non c’era altro da dire. Stavano per andarsene, quando Henry si bloccò: «Ah… noi, ovviamente, la cercheremo alla vecchia maniera. Pensavo di usare la foto che ti ho passato e di mettere un annuncio sul web: sai, i social network, i motori di ricerca… in modo che lo veda più gente possibile. Prima o poi qualcuno dirà di averla vista»
«Henry… sinceramente ve lo sconsiglio: queste cose attirano sempre un sacco di mitomani.  Vi arriverebbero tante segnalazioni fasulle solo perché la gente spera in una ricompensa. Affidiamoci ai classici metodi di ricerca, d’accordo? La troveremo, ragazzi, ve lo prometto.»
«Come ti pare» borbottò Henry poco convinto. Ivy, dal canto suo, non disse una parola, persa nei suoi pensieri. Henry dovette toccarle un braccio per attirare la sua attenzione. «Andiamo? Per il momento non possiamo fare più niente»
«Sì, d’accordo… tra poco devo essere di nuovo a lavoro e poi devo andare a prendere Lucy a scuola…» mormorò, seguendo meccanicamente Henry fuori dalla stazione di polizia. Un primo passo era stato compiuto nella giusta direzione, ma entrambi ancora, non potevano rendersene conto.
 
«…Naturalmente, in occasione del Ballo del Ceppo tutti noi potremmo – ehm- lasciarci un po’ andare disse in tono di disapprovazione. Amo la Mc in questo punto! Come vorrei partecipare anch’io ad un ballo del genere!» Kelly sospirò: chi voleva prendere in giro? Lei non poteva andare neanche a scuola, neanche in una stupida edicola da sola, figurarsi se i suoi genitori le avrebbero concesso di partecipare ad un ballo! Quando arrivava a quel punto del libro le veniva sempre il nervoso. E la scena del ballo ormai la saltava direttamente, per non farsi venire il magone. Tanto poteva permetterselo, lo conosceva praticamente a memoria e poi aveva visto il film. Si sentì toccare una spalla e si voltò, incontrando il volto sorridente di sua madre.
«Kelly, tesoro, vieni a tavola? È pronto». La ragazzina annuì, alzandosi dal letto su cui era distesa e seguendo la madre al piano inferiore. Adorava la sua casa: era grandissima, con un giardino fantastico e disposta su due piani. La sua camera era al piano superiore ed era veramente enorme: aveva una scrivania con annessi computer e stampante scanner/fotocopiatrice, collegamento a internet, un letto a una piazza e mezza tutto per lei, un comodino in cui teneva di tutto, una libreria stracolma di libri, alcuni letti decine di volte, fino a saperli a memoria. E soprattutto, una fantastica cabina armadio con vestiti di ogni genere e di ogni tonalità possibile di rosa. Ovviamente non era così monocromatica, ammetteva anche altri colori, purché fossero chiari: quindi bianco, giallo, celeste, verde chiaro… erano tutti bene accetti. Ma erano assolutamente banditi il marrone e il viola scuro (mentre amava il lilla), per non parlare poi del verde militare! Quello lo detestava con tutte le sue forze! Una volta sua madre le aveva acquistato una maglia di quella tonalità sostenendo che fosse bellissima e “assolutamente perfetta per lei” e si era rifiutata categoricamente di indossarla. Due anni dopo era ancora a prendere polvere nell’armadio, col cartellino del prezzo ancora perfettamente intatto. Avrebbe potuto rivenderla, volendo, almeno sarebbe stata utile per qualcosa e magari sarebbe andata a un’altra ragazza che l’avrebbe apprezzata di più. Si sedette a tavola, dopo aver dato un bacio a suo padre.
«Ciao tesoro. Quando hai finito di pranzare, ho una cosa per te».
Gli occhi di Kelly si illuminarono: non era più una bambina, ma un regalo inaspettato faceva sempre piacere.
«Davvero, papà? Cos’è?» scalpitò.
Suo padre le sorrise. «Abbi pazienza, principessa, lo vedrai presto. Finiamo di pranzare, prima.» Kelly assentì, tornando a concentrarsi sul suo piatto, infilzando il cibo e trangugiandolo il più velocemente possibile, impaziente.
«Mangia piano tesoro, ti strozzerai» la ammonì sua madre.
La ragazzina annuì e prese a masticare lentamente mentre il suo cervello lavorava: che strano, però, perché suo padre le aveva portato un regalo? Non era il suo compleanno, né Natale o un’altra qualsiasi festa. I suoi genitori ogni tanto avevano di questi slanci, ma capitava, di solito, dopo uno scontro di qualsiasi genere. Ma non le sembrava che fosse quello il caso, la sera prima avevano litigato tra loro e….che fosse quello il motivo? Suo padre temeva che li avesse sentiti e avesse capito di essere stata adottata? Sbuffò, trangugiando di malavoglia il resto del contenuto del suo piatto. Aveva già deciso la sera prima che non le interessava, che essere stata adottata sarebbe stata una cosa bella… ma i suoi genitori non sembravano intenzionati a parlarne con lei. E aveva ormai imparato, dopo quattordici anni, che insistere non sarebbe servito a nulla: quando prendevano una decisione non cambiavano idea. Il pasto era quasi finito, per fortuna: sua madre portò in tavola una meravigliosa crostata alla crema poi, dopo aver sparecchiato, suo padre le fece cenno di raggiungerlo in salotto. Guardò implorante sua madre che le sorrise e le diede silenziosamente il permesso: non aveva bisogno di altro per essere, nel giro di due secondi, nella stanza dove suo padre l’aspettava. Lui aveva un pacco rettangolare tra le mani.
«Stamattina avevo un po’ di tempo tra un impegno e l’altro e sono passato davanti ad una libreria. Ho visto questo e mi sei venuta subito in mente, tesoro: dovrebbe essere il tuo genere.»
Kelly afferrò il pacco ammirandolo: la forma inconfondibile lo classificava immediatamente come un libro… ma uno di quelli importanti… sembrava parecchio alto. Eccitata, saltò al collo di suo padre schioccandogli un bacio sulla guancia: «Grazie, grazie papà! Posso andare ad aprirlo in camera mia?»
Jacob le sorrise: «Ma certo, tesoro, vai pure. Ci vediamo stasera»
Senza farselo dire due volte, Kelly schizzò in camera sua e sedette sul letto. La carta che avvolgeva il pacco venne stracciata in pochi secondi e ai suoi occhi si rivelò un libro con la copertina bianca, una cornice dorata e una scritta rossa in eleganti lettere corsive Once Upon A Time. Il titolo era molto… evocativo, le ricordava le favole che sua madre le leggeva da bambina. Ancora più curiosa, lo aprì: il frontespizio conteneva solo poche parole Alla mia piccola Abigail, la luce della mia vita. Ti vorrò bene per sempre. Oh… chissà chi era quella Abigail. Magari avrebbe fatto una ricerca sull’autore, che si chiamava…. Ecco, Henry Mills. Ma adesso non aveva tempo, era troppo curiosa: cosa mai aveva potuto trovare di nuovo, quell’uomo, nelle classiche storie delle favole? Aprì il libro alla prima pagina, intitolata Snow White and the others e cominciò a leggere… finché non fu costretta a fermarsi. Una serie di immagini comparvero rapidissime nella sua memoria, lasciandola senza fiato: di nuovo lei bambina, in una camera molto diversa da quella, con due ragazze profondamente differenti l’una dall’altra, ma che le sorridevano. Poi una, quella con la pelle più scura, le dava un bacio e usciva, mentre l’altra si sedeva sul letto con lei, tirandosela vicina e cominciando a parlarle sommessamente… raccontando proprio la storia di Snow White e Prince Charming come la conosceva lei. Allentò la presa sul libro, lasciandolo scivolare sul copriletto. Quella ragazza era la stessa che continuava a sognare, ne era sicura: aveva la stessa voce e la stessa corporatura e...finalmente aveva visto il suo volto! Scattò a sedere, intenzionata ad aggiornare il suo documento, ma un cerchio alla testa la costrinse a ricadere sui cuscini e a cambiare idea.
«Ok… ok, Kelly, calma. Va tutto bene, non te lo dimenticherai, è troppo importante. Chi è quella ragazza? Perché mi racconta la favole e mi abbraccia? E perché sembra tutto così normale? Dov’era la mamma? Era uscita e lei mi faceva da babysitter?» Si rannicchiò in posizione fetale, cercando di calmarsi e di farsi passare il mal di testa. Sarebbe potuta scendere al piano inferiore a prendere un analgesico: dopo l’incidente che aveva avuto da bambina, sapeva che quelle emicranie erano normali e, anzi, sua madre era sollevata che fosse ancora sufficiente un medicinale relativamente blando per tenerle a bada. Tuttavia, quella sera si sentiva troppo malferma per riuscirci. Piuttosto aveva un altro grande obiettivo: non vomitare. Le capitava spesso e anche in quel momento, sentiva la nausea salire prepotente. Ma quello era un attacco tutto sommato semplice da gestire e ci sarebbe riuscita. Doveva solo chiudere gli occhi e cercare di rilassarsi un po’. Anzi, probabilmente la scelta migliore era cambiarsi e mettersi a dormire. Poi, sicuramente, avrebbe visto la cosa in maniera più lucida. Forse avrebbe dovuto parlarne con la mamma, magari lei avrebbe potuto aiutarla a fare chiarezza. Ma una domanda specifica non avrebbe ottenuto risposta, ne era certa. Doveva girarci intorno. Chiuse gli occhi, respirando profondamente: appena le fosse passato il mal di testa ci avrebbe riflettuto meglio e di certo ne sarebbe venuta a capo.
 
Dunque, il libro che sta leggendo Kelly è Harry Potter e il Calice di Fuoco, ovviamente con le parole dell’ultima traduzione italiana… non sono così ferrata in inglese da potermi permettere di tradurre le frasi. E non sono sicura che corrisponderebbero all’originale, quindi lascio stare. Per il resto… che mi dite? Sì, aveva ragione chi ci aveva provato e a voi posso confessarlo, perché il problema fondamentale non sarà questo ma arrivare al ricongiungimento.  Non l’ho detto prima perché… è triste pensare di essere così ovvia xd. Spero di non metterci più così tanto a pubblicare, prometto che cercherò di essere più rapida. Ma forse potrei passare il tempo scrivendo per una challenge che ho trovato sul forum. Fandom e protagonisti sarebbero sempre gli stessi, ovviamente. Tenete d’occhio la pagina FB, vi terrò aggiornati!
   
 
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