Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |       
Autore: Koa__    25/09/2018    7 recensioni
Il principe Sherlock vive tutto il giorno tra le quattro mura del suo grande castello, senza mai uscire. Un giorno, però, poiché è troppo annoiato, decide di andare a vedere il mondo. Trascorsi tre giorni e passate tre notti, per nascondersi dai soldati Re Grasso che lo cercano ovunque, il principe annoiato si rifugia in casa di un uomo. Un soldato zoppo di nome John Watson.
Genere: Avventura, Fantasy, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Irene Adler, John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Genere: Fantasy; Favola; Fluff; Avventura
Coppia: Sherlock/John
Rating: Giallo
Avvertimenti: AU; OOC (Lo segnalo per forza perché il contesto è davvero troppo diverso da quello dalla serie)
Note: Vi avverto che stenterete a riconoscere il mio stile, in questo ho fatto un lavoro faticosissimo e devo ringraziare Nirvana_04 anzitutto per averla letta e per avermi dato il suo parere, al solito preciso e approfondito, ma soprattutto per le annotazioni e il betaggio che ha fatto (e che farà per i prossimi due capitoli).







 
Favola di un principe annoiato
 
 
 
 
 
 
Personaggi:
 
Il Principe annoiato
Il soldato zoppo
Il Re Grasso
L’incantatrice
Madama Hudson
 
 
 
 
 
 
 
I.
 
 
 
 
 
          Tanto tempo fa, in un regno molto lontano, un re di nome Mycroft governava sui propri possedimenti con saggezza e giustizia. Nonostante spesso si burlassero di lui, i sudditi lo amavano poiché egli portava prosperità e fortuna. Oltre che per la sua sagacia, Re Mycroft era conosciuto anche per la grande fame che aveva. Fin da quando era ancora in fasce, questa sembrava non finire mai, come un pozzo del quale non si vede il fondo. L’adorato sovrano venerava a tal punto il cibo che aveva fatto arrivare un cuoco da un paese lontano, il quale cucinava per lui ogni sorta di prelibatezza. E più il regno si arricchiva e più lui mangiava, più il cuoco cucinava e più Mycroft ingrassava. Nessuno seppe mai chi fu a iniziare a chiamarlo in quel modo, ma da un certo giorno in avanti, da est a ovest e da nord a sud, tutti i sudditi lo appellarono il Re Grasso.
 

          Questa beneamata maestà aveva un fratello, un giovane del quale si parlava in tutte le terre. Non una persona poteva dire d’averlo mai visto in volto, né servo, né nobile aveva incrociato il suo sguardo almeno una volta. Su di lui si raccontavano tante storie e ognuna di esse era molto fantasiosa. Alcuni credevano che fosse nato durante una tempesta e che, perciò, il suo carattere fosse burrascoso al punto che era necessario tenerlo segregato. Il principe annoiato, lo chiamavano. Aveva cervello fino, lingua lunga e portava il nome di una fanciulla della quale, si diceva, avesse altrettanta grazia e bellezza e che il re ne fosse geloso. Erano sicuri che lo nascondesse agli occhi di tutti proprio per la soddisfazione d’averlo tutto quanto per sé. In paese, orribili maldicenze lo vedevano invece come uno storpio, un mostro che Sua Maestà voleva nascondere per la vergogna d’avere un fratello tanto brutto. “Orribile come il suo carattere” mormoravano alcuni, senza farsi sentire. Neanche questo era esatto, poiché anima viva aveva avuto la fortuna d’averlo mai guardato per davvero.
 

          Nonostante considerasse le persone come degli stolti, questi non aveva scelto di vivere in quel modo. Il principe Sherlock desiderava viaggiare e vedere il mondo, fare i suoi esperimenti senza che nessuno gli desse del matto o che provasse a fermarlo. Avrebbe tanto voluto essere ascoltato da tutti, poter parlare in completa libertà senza venire interrotto. Oh, lo desiderava così tanto, perché niente di tutto ciò poteva fare al castello.
«Idioti» sbraitava ai servitori, le volte in cui costoro lo rifocillavano con vivande e buon vino o, più semplicemente, tentavano di allietarlo con danze e giochi. Servitori fedeli, stando alle parole di Mycroft, ma che non avevano il permesso di guardare il principe diritto in volto e che si limitavano a bendarsi o a tenere basso lo sguardo le volte in cui entravano nelle sue stanze. Né più, né meno Sherlock detestava ognuno di loro. Credevano che un principe non desiderasse altro che conoscere belle fanciulle o mangiare quattro volte al giorno, come se gli fosse mai importato dell’una o dell’altra cosa. La sua vita era orribile, pensò un mattino subito dopo essersi svegliato. Nemmeno Mycroft desiderava la sua compagnia. Lo scacciava, mandandolo via e dicendogli di avere di meglio da fare che stare con lui. I servitori non lo guardavano nemmeno negli occhi mentre le guardie fingevano che non esistesse. Questo succedeva tanto spesso, che era arrivato alla conclusione che la sua stessa presenza fosse un fastidio.
«Ma io mi annoio» lamentava spesso, sbraitando da quell’ala del maniero interamente volta per lui. Era stato proprio così, mentre l’eco di quelle parole riverberava ovunque, che era diventato il principe annoiato.
 

          Se ne stava rinchiuso dentro le sue stanze giorno e notte. Aveva una camera con un letto, corridoi tutti per lui, una biblioteca e una sala dedicata alla musica. In effetti non c’era nulla che gli mancasse, aveva quanto chiunque avrebbe mai potuto desiderare, eccetto la libertà. Sì, si ripeteva spesso, la sua prigione aveva ogni comodità possibile. Poteva suonare il violino a ogni ora del giorno o della notte, leggere  libri, scrivere e in effetti tutte queste attività allietavano i suoi pomeriggi. Ma non era felice. Sapeva che quel che riusciva a immaginarsi della vita al di fuori di lì non sarebbe mai divenuto realtà. Non avrebbe mai parlato con le persone, né fatto vedere loro quanto fosse colto e intelligente. Spesse volte gli sembrava di riuscire a figurarsi le lodi che questi avrebbero tessuto sulla sua mente eccelsa o la loro ammirazione per l’immensa cultura che possedeva, ma alla fine in lui non restava niente se non solitudine. E pensare che aveva così tanto da spiegare… Sherlock era da sempre molto curioso, fin da bambino amava fare buffi esperimenti, ma soprattutto gli piaceva andare a caccia d’insetti e piccoli animali. A chi lo sgridava, facendogli presente che si trattava di un passatempo disgustoso, lui ribatteva dicendo che erano degli idioti e che non capivano. Di bestioline ce n’erano moltissime, nel grande giardino del castello ed erano tutte strane e colorate. Un giorno il principe si era deciso a spingersi oltre il suo solito giro fatto di noiosissime aiuole in compagnia dell’istitutrice. A poco più di otto anni, era un vispo e pestifero principino e quel mattino si era deciso ad assaporare un po’ d’indipendenza da abiti femminili. Senza farsi vedere era svicolato tra servitori e porte socchiuse ed era scappato fin dentro nel bosco. In quel luogo del regno non ci andava mai nessuno e ciò gli avrebbe permesso di starsene in pace. Dopo svariati tentativi e alcuni clamorosi fallimenti, con sua somma soddisfazione era riuscito a catturare un’ape. Senza saper bene che cosa farci, il giovane principe si era convinto che sarebbe stato un bel regalo da portare a suo fratello. Tuttavia, aver visto il dono, costui era inorridito e lo aveva scacciato. Magari non gli piacevano le api, aveva detto fra sé ben deciso a farsi valere. Il pomeriggio successivo, Sherlock aveva recato in dono al re una coppia di bellissimi ragni dalle lunghe zampe pelose, ma Mycroft l’aveva mandato via di nuovo. E così era stato per molti mesi a venire, ogni sera il re riceveva un insetto in dono e sempre lo faceva riportare indietro. Finché, a un certo punto, spinto dal desiderio di far felice suo fratello, Sherlock si decise a voler catturare delle uova d’uccello. Avvenne così che il principe cadde dal ramo di un albero e si ferì a una gamba. Il Re Grasso ne fu tanto spaventato, che da quel momento in avanti gli impedì d’uscire. Fu così che il principe annoiato non mise più il naso fuori dalle sue stanze.
 

          Quella notte, Sherlock non riusciva a prendere sonno. Continuava a guardare fuori dalla finestra della sua camera e ammirava il villaggio sottostante, puntellato di luci e fiamme di candela. Sospirava e si sentiva molto triste, avrebbe così tanto voluto vivere in una di quelle case… Avrebbe potuto fare quello che voleva e nel modo che preferiva. Nessuno gli avrebbe ordinato di fare cose stupide come mangiare o scrivere frasi d’amore a una qualche principessa. Puah! Che schifo, diceva mentre appallottolava una delle missive appassionate che aveva ricevuto, per poi darla alle fiamme. Se fosse fuggito non avrebbe più dovuto avere a che fare con queste idiozie. Pertanto, avvenne così che decise che non sarebbe rimasto al castello un attimo di più. Voleva vedere il mondo ed era ciò che avrebbe fatto. Prese allora i pochi indumenti necessari, il suo prezioso violino e uscì in gran segreto. Sgattaiolò tra i corridoi e quindi oltre le porte di servizio, la notte mai sorvegliate, dopodiché s’incamminò verso il paese. Affinché nessuno lo riconoscesse si era coperto con una mantella del colore del cielo e aveva calato il cappuccio fin sopra la testa, di modo che nessuno notasse i suoi bellissimi ricci. Finalmente era libero, pensò allungando il passo.
 

          Passarono quindi tre giorni e tre notti. Durante tutto quel tempo, il principe Sherlock aveva girato il villaggio in lungo e in largo, fatto moltissimi esperimenti, parlato con le persone e raccontato loro quel che sapeva. Aveva messo in mostra tutta la sua intelligenza e il suo sapere, ma facendolo si era reso conto che nessuno sembrava interessato a ciò che aveva da dire. Il più delle volte veniva ignorato o deriso, altrimenti cacciato e preso a male parole. Era proprio arrabbiato, possibile che non riuscisse a trovare anima viva in tutto il regno disposta a starlo a sentire? Gli abitanti del paese erano uomini e donne noiosi che facevano cose altrettanto noiose come lavorare. A Sherlock sembrava incredibile che preferissero impastare il pane o mungere le vacche invece che ascoltare le sagge nozioni che voleva spiegar loro. Il mondo fuori dalla sua stanza, si disse una notte in cui non riusciva a prendere sonno, si stava rivelando molto diverso da come se l’era immaginato. Di certo deludente, aveva anche la libertà di fare quel che desiderava e senza che Mycroft si mettesse in mezzo o inviasse la servitù a spiarlo. Ma a che serviva se non c’era nessuno a cui far vedere ciò che imparava?
 

          La notizia che il principe era scomparso, in breve tempo si era sparsa in tutto il regno. Al limitare del villaggio nel quale aveva preso abitazione, per ora fortunosa e alquanto misera, già correva la voce che il re fosse furibondo. Stava cercando suo fratello in lungo e in largo, aveva anche mandato dei soldati a pattugliare boschi e campi e inviato delle spie nei regni nemici, così da assicurarsi che non fosse stato rapito da qualcuno. Ma dopo molti giorni ancora non c’era traccia. Nella piccola stalla in cui ormai viveva, Sherlock si sentiva al sicuro. Nessuno lo aveva mai visto in volto, non uno degli abitanti del paese lo avrebbe riconosciuto. Si sentiva fiducioso! E poi assaporare la libertà era un gusto delizioso, troppo perché lo abbandonasse per tornare a cose sciocche come ricchezze e morbidi cuscini. E fu proprio con questo spirito in corpo che l’annoiato principe vide l’alba del quarto giorno. Con il levar del sole in lui nacque anche il desiderio di farsi un bel bagno. Ne aveva proprio abbastanza di puzzare di capra. Si era rifugiato nella stalla di un pastore, il quale gli aveva promesso cibo e acqua in cambio di qualche lavoretto stupido, ma il tanfo che aveva addosso era terrificante. Non che amasse particolarmente lo spalare letame, ma era stato costretto ad adattarsi perché a meno di due giorni dalla fuga gli era venuta una gran fame. Doveva essere tutta quella vita all’aria aperta, aveva dedotto. Quel mattino il sole era pallido e faceva piuttosto freddo, l’inverno era alle porte e ben presto sarebbe scesa la neve su tutte le terre. Si chiese come avrebbe fatto a lavarsi nei mesi più freddi, ma non volle pensarci troppo su. Non voleva neppure vivere per sempre in quella stalla, presto avrebbe trovato una casetta e si sarebbe sistemato. In quel momento voleva soltanto rendersi il più presentabile possibile e darsi una ripulita. Pertanto, a passo spedito, si diresse verso il bosco. Nascosto in una radura avrebbe trovato un laghetto nel quale si gettava una cascata. Se ne ricordava perfettamente, da bambino c’era andato spesso. Non aveva avuto la possibilità di tornarci perché quello stupido di Mycroft non gli aveva più permesso di uscire, ma adesso non aveva più nessuno a dirgli quel che doveva fare.


          Il tragitto che usciva dal villaggio, consisteva in una stradicciola piuttosto stretta che si snodava tra campi coltivati. Sherlock la percorse fino a quasi mezzogiorno, ma giunto a un certo punto, vide un drappello di soldati che pattugliavano il limitare della foresta. Rapido, si acquattò dietro al grosso tronco di un albero di modo che non lo vedessero e, paziente, si mise in attesa che questi se ne andassero. Di sicuro lo stavano cercando, ma non sembravano essere intenzionati a fare neanche un passo in avanti. Restavano sul limitare e guardavano oltre la fitta schiera di alberi. Che stupidi, penso ridendo. Temevano ad entrare perché pensavano che sarebbero stati colpiti da una strana magia o che potesse spuntare un orribile mostro da dietro a un cespuglio. Molte storie giravano su quel luogo e Sherlock ben lo sapeva, dato che suo fratello gliene aveva raccontate parecchie quando era ancora molto piccolo.
«Non si va nel bosco, Sherly» sussurrò, imitando le espressioni arcigne di Mycroft. Quel ciccione ne aveva una diversa per ogni sera, tutte sulla foresta e ognuna parlava di mostri o esseri spaventosi. Altre volte c’erano lupi dalle sembianze di uomini, bestie enormi e senza nome o altre creature che avrebbero mangiato chiunque si addentrasse oltre il limitare. * Soltanto crescendo aveva capito che non esisteva alcun mostro, né lupo e che le persone del villaggio non era delle belve feroci, che avevano paura. A essere temuta, più di qualsiasi altra famigerata creatura, era l’Incantatrice. Era proprio lei a fermare il passo coraggioso dei soldati, a far tremare le lance tenute poco saldamente tra le mani e a far indietreggiare il più temerario dei comandanti. Dell’Incantatrice, nessuno sapeva niente, ma quel poco bastava a far impallidire tutti quanti di terrore. Alcuni dicevano fosse una donna dalle sembianze di una principessa, che fosse bellissima e molto intelligente. Generosa con chi domandava il suo aiuto, ma anche furba e approfittatrice se vedeva la prospettiva di un guadagno. Tenersi lontano dal luogo in cui viveva era certamente l’idea migliore e i soldati del re lo sapevano bene. Sherlock Holmes invece non era mai stato un uomo dallo spiccato buonsenso. Pertanto, dopo aver indugiato per un misero istante, vi si addentrò a passo svelto.
 

          Una volta giunto alla radura, il sole era già ben alto nel cielo. Faceva molto più caldo rispetto all’alba e un venticello fresco soffiava appena. Senza voler aspettare neanche per un attimo, si tolse tutti quanti i vestiti e si immerse nell’acqua fino al collo. Non ricordavo che lavarsi fosse tanto piacevole, si disse. Ed era certamente un’intera vita che non faceva un bagno come quello. Non che gli piacesse particolarmente nuotare nell’acqua gelida ed era certamente diverso dal bagno caldo che a palazzo faceva ogni mattino, però era tutto così affascinante. Dalla piccola cascata che gorgogliava, agli alberi che si piegavano fin sul pelo dell’acqua, finanche agli animali che lo popolavano. Il tutto, come spesso capita nelle buone storie, accadde per via della mano guantata del fato. Successe che, proprio per merito di un piccolo ranocchio verde zompato su di una roccia, nel principe annoiato crebbe il desiderio di divertirsi. Quel ranocchio se ne stava là e gracchiava placido. Appena lo vide, a Sherlock si illuminò lo sguardo e come un bambino prese a saltellare dalla gioia. Erano anni che non ne vedeva uno da vicino, ah, però sapeva tutto quel che c’era da sapere attraverso i suoi libri. Sarebbe stato bellissimo sezionare il suo ventre ed estrarne gli organi per vedere se le illustrazioni che aveva studiato con cura, erano più o meno esatte. Ben deciso a catturarlo, quindi fece un balzo in avanti a mani ben tese e… purtroppo quello fuggì via, immergendosi nell’acqua.
«Ti prenderò!» esclamò, ben deciso a farsi valere e lasciandosi scappare un’imprecazione o due. A quel punto, però, un fruscio attirò la sua attenzione e il ranocchio non fu più così tanto importante. Dopo aver sollevato il viso e allungato lo sguardo di modo da riuscire a scorgere oltre il fitto sottobosco fatto di cespugli e funghi, notò il volto di un giovane uomo sbucare tra i rovi. Un bellissimo giovane uomo, pensò il principe annoiato, la cui bocca era spalancata per la sorpresa.
«Chi è là?» domandò, appena un poco timoroso. Non poteva essere un soldato, possibile che uno degli abitanti del villaggio si fosse spinto fin lì? Gli pareva impossibile considerato quanto stolti fossero. Facendosi coraggio, Sherlock fece un passo o due in avanti, lui non temeva niente e nessuno e certamente avrebbe saputo affrontare quelle guardie sciocche.
 

          Il giovane uomo in questione non era lì per catturarlo. Si chiamava John Watson, era stato un soldato del regno e durante l’ultima guerra combattuta contro Re Moriarty, aveva riportato gravi ferite che lo facevano zoppicare. Quel mattino si era addentrato nel bosco per raccogliere erbe che avrebbe potuto usare come medicamento per le cure che forniva, quando una voce cavernosa e alquanto affascinante aveva attirato la sua attenzione. Si era proprio stupito nel sentire qualcuno parlare, era convinto che nessuno si spingesse fin dentro nel bosco oltre a lui. Sulle prime si era detto che sarebbe stato meglio tirare dritto, non aveva paura dell’Incantatrice però era saggio evitare incontri spiacevoli. Spinto dalla curiosità, aveva preso coraggio e si era fatto largo tra i cespugli. Soltanto a quel punto aveva notato un giovane dall’aspetto avvenente fare il bagno tra le acque placide del lago. Un ragazzo dall’aspetto aggraziato e delicato, la cui visione privata di tutti gli abiti gli aveva fatto arrossire le guance. Era certamente un forestiero, pensò allungando lo sguardo oltre il pelo dell’acqua, perché una tale bellezza non gli sarebbe di certo sfuggita e nessuno aveva un simile aspetto in paese. Costui era alto e aveva la pelle bianca come il latte, sicuramente un nobile o un qualcuno di poco abituato al lavoro. Portava capelli ricci di un nero corvino e teneva un portamento regale anche mentre camminava. Aveva in sé una grazia che pareva innata, leggiadra come quella di un principe. Oh, lo era certamente, si disse John. Non poteva che essere figlio di un re.
«Chi sei tu?» Sherlock parlò di nuovo e questa volta non nascondeva d’essere infastidito dalla sua presenza.
«John» annuì il soldato zoppo facendosi avanti con bastone e cestino per le erbe «John Watson, non volevo disturbare, solo che non viene mai nessuno da queste parti ed ero sorpreso.»
«Se è vero che non viene mai nessuno» giocò Sherlock, «come mai tu sei qui?» gli chiese mentre usciva dalle acque con la leggiadria di un cervo.
«Perché non ho paura dell’Incantatrice, le sue brame non possono farmi nulla e se anche dovessero raggiungermi non passerei niente di più orribile di quanto non abbia già vissuto durante la guerra.»
«Sei un uomo coraggioso, John Watson oppure uno molto sciocco» mormorò questi, prendendo gli abiti che giacevano ancora a terra e iniziando a vestirsi.
«Chissà forse è davvero così, però sono costretto a venirci. Mi servono le erbe medicinali e alcune di queste crescono soltanto tra il fitto degli alberi.»
«Interessante, un soldato che fa il medico. A corte sarai tenuto molto in considerazione.»
«Non sono mai stato a corte, svolgo il mio mestiere al villaggio. Il re non è molto interessato a noi del paese. Tu invece da dove provieni? È la prima volta che ti vedo. Sei un forestiero?» gli domandò invece il soldato zoppo, lasciando a terra il cestino colmo di foglie e radici e sedendosi sulla riva del lago. Che gran male alla gamba, pensò massaggiandola con vigore.
«Il mio nome è Sherlock.»
«Sherlock?» Ma certo! Non poteva essere che lui, pensò il soldato zoppo. Un simile portamento, tanta gentile bellezza e poi quel nome. Si diceva che nessuno avesse mai visto il fratello di sua maestà, ma da ciò che si raccontava non poteva che essere altrimenti. «Quello Sherlock? Il principe?» proseguì sempre più allibito. «Sei quello di cui tutti parlano? Quello che è fuggito da castello tre giorni fa e del quale non si hanno più notizie?»
«Ecco io…» Il bel principe si sentiva un vero stupido, si era ripetuto che avrebbe dovuto usare un nome diverso per non farsi riconoscere ed era quel che aveva fatto fino a quel momento, ma di fronte al sorriso del bel soldato zoppo, se n’era completamente dimenticato. Se gli avesse detto di chiamarsi William non avrebbe mai capito chi era in realtà, ma ora era stato smascherato e cosa sarebbe successo? Lo avrebbe consegnato alle guardie e riportato al castello in cambio di una, di certo generosa, ricompensa? Il principe non poteva dire di saperlo con esattezza, ma ciò che aveva imparato dalle sue letture gli suggeriva che gli uomini non pensavano ad altro che ai rispettivi guadagni. E quel medico zoppo doveva sapere che, come ringraziamento, Mycroft avrebbe potuto introdurlo a corte come medico reale. La sua agognata libertà era già finita, si disse con rassegnazione.
«Non temere» lo rassicurò invece John, tentando di non dare di sé una brutta impressione. È tanto spaventato, pensò John, che neanche riesce a nascondere la paura dal suo splendido viso. Non sapeva per quale motivo fosse fuggito, ma doveva averne avuto uno molto valido. Era chiaramente terrorizzato dall’idea di essere riportato al castello o che qualcuno andasse a dire al re che suo fratello faceva bagni nel bosco. John, però, non avrebbe fatto nulla del genere. «Non ti consegnerò ai soldati, immagino che tu abbia avuto le tue buone ragioni per andartene dal castello e venire qui a giocare con le rane.»
«Non stavo affatto giocando» replicò un indignato principe, portando il naso all’insù e incrociando le braccia al petto. Cielo, si sentiva così offeso! Lui non giocava, il suo era un tentativo alquanto goffo di catturare una bestia per poi ucciderla e smembrarla. Una cosa che avrebbe potuto fare chiunque insomma.
«Stavo tentando di prenderla.»
«Intendi per mangiarla?» replicò John, non capendo davvero che cosa ci si potesse cavar fuori da un essere tanto piccolo. «Oh, non ci farai poi molto con una rana, ma se ti serve del cibo io posso dartene. La mia casa non è molto lontana, se vuoi…»
«E non volevo nemmeno mangiarla» mormorò Sherlock, interrompendolo. «Volevo sezionarla e vedere com’è fatta dentro.»
«E per quale ragione?»
«Per verificare che i libri che ho letto siano corretti, naturalmente» replicò già annoiato da quel discorso frivolo. Possibile che non capisse? Anche questi era un idiota come gli altri, non valeva la pena di stare a discuterci. Stava giusto per riprendere il sentiero, quando John lo interruppe.
«I libri sono corretti, mio principe e dicono sempre la verità. Poiché essi sono libri.»
«I libri sono scritti dagli uomini, John e gli uomini il più delle volte sbagliano. Tranne me ovviamente, io non mi trovo mai in errore.» Sherlock era sicuro che se avesse fatto un discorso del genere a suo fratello o a chiunque altro al villaggio, questi lo avrebbero rimproverato e poi intimato di tacere. Ne sarebbe uscito ignorato e deriso, ma John Watson era imprevedibile. Il principe ancora non lo sapeva, ma lo avrebbe imparato di lì a poco quanto un medico zoppo poteva essere interessante. Invece che arrabbiarsi e andarsene via, il soldato zoppo scoppiò infatti in una grassa risata divertita. Aveva forse detto qualcosa di buffo? Non lo credeva e non pensava d’aver neanche mai sentito qualcuno ridere a quel modo. John lo stava facendo per lui? Per un qualcosa che aveva detto? Gli sembrava davvero incredibile.
«E dimmi, cos’hanno le rane di tanto interessante? Spiegamelo perché io proprio non lo so.» Era tutto reale? John voleva che lui gli raccontasse ciò che sapeva? Era vero o era di nuovo la sua immaginazione a giocare strani scherzi? Cielo, era la prima volta che qualcuno gli chiedeva di spiegargli qualcosa, che voleva sentirlo dire ciò che aveva imparato. Non poteva perdersi quell’occasione, avrebbe detto a John Watson tutto. Tutto quanto e se John avrebbe desiderato conoscere qualcosa che non sapeva, allora Sherlock l’avrebbe imparato. Fu così, dunque, che il principe annoiato si mise a raccontare e che il soldato zoppo restò ad ascoltare.
 

          Trascorsero l’intera giornata in quella radura, John scoprì che il suo nuovo amico era la persona più loquace che avesse mai incontrato in tutta la vita. Non taceva mai, al contrario parlava con foga e diceva cose meravigliose e sempre molto intelligenti. John era sicuro che Sherlock sapesse proprio tutto. Di ogni animale o pianta che vedevano, lui ne conosceva il nome e tutto quanto che c’era da sapere a proposito. Ma non era soltanto la sua conoscenza a essere strabiliante mentre erano intenti a tornare al villaggio, il principe era stato capace di dirgli tutta quella che era stata la vita di John. Aveva dedotto cose che il soldato zoppo non aveva mai rivelato a nessuno, neanche a se stesso. Per un attimo aveva creduto che possedesse una sorta di potere magico, come era per l’Incantatrice, salvo infine ricredersi.
«Tu sei un mago!» esultò.
«L’intelligenza è ciò che è, John: logica e ragionamento. Nessun fenomeno si spiega con la magia, al contrario è sufficiente lo studio. Quindi no, non sono un mago e non posseggo alcun potere.» Già, era semplicemente una persona incredibile e lui sarebbe rimasto ad ascoltarlo per sempre. Tanto che, quando quella stessa sera, aveva capito che Sherlock non aveva altro posto in cui dormire se non una stalla, gli aveva detto che avrebbe potuto seguirlo. Era affamato, bisognoso d’un buon letto e doveva nascondersi dai soldati che lo stavano cercando ovunque. La sua piccola casetta non era certamente maestosa come un castello, ma era accogliente e ben fornita di tutto quanto il necessario.
«Sei sicuro di volermi nella tua dimora?» gli aveva domandato il buon principe una volta giunti sul limitare della foresta.
«E perché non dovrei? Sei una persona stupefacente, conosci tante cose e sei così intelligente... Oh, vorrei che mi spiegassi ancora delle rane e degli alberi e, una volta finito di dire tutto questo, tu mi raccontassi quel che sai d’altro. Io in cambio ti darò buon cibo, un tetto sopra la testa e un riparo dai soldati.» Così aveva detto John Watson, il soldato zoppo dall’animo gentile, prima di avviarsi lungo la stradicciola. Il principe annoiato, invece che seguirlo, era rimasto fermo a guadarlo. Non per molto, ma soltanto per un istante. Finalmente, pensò sorridendo con la gioia di un bambino, aveva qualcuno che amava la sua compagnia.
 
 
 
 

Continua
 
 


*Nella tradizione favolistica russa esistono moltissime favole su lupi e orsi che vivono nel bosco (un esempio banale è Masha e Orso), questo perché si cercava di far desistere i bambini dall’andare nella foresta, nella quale si sarebbero certamente perduti e quindi morti per via del freddo. Mycroft fa la stessa identica cosa.
 

Note: L’idea per scrivere questa storia mi è stata data nel gruppo Il giardino di Efp da Cristina, nel gioco “Obbligo o verità”. Il mio obbligo m’imponeva di scrivere una storia basandomi sul prompt: dialoghi delle scarpe, che io ho interpretato in maniera favolistica.
Appunto importante: la dicitura “favola” per indicare questa storia è tecnicamente sbagliata. Sarebbe infatti più giusto dire che è una fiaba, la quale ha una struttura più articolata rispetto alla favola, che invece è tendenzialmente più breve.
   
 
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Koa__