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Autore: Fenice e Dregova    04/10/2018    0 recensioni
All'alba dei tempi, la terra era abitata da moltissime creature. Le più potenti erano i draghi che offrivano protezione alle altre razze che stavano crescendo sviluppando la loro propria magia. In un tempo in cui la pace sembrava prosperare, i draghi commisero un errore che risvegliò un male rimasto imprigionato nel baratro del nulla per secoli: donarono la magia agli uomini. I maghi cominciarono a scavare nei segreti cui potevano ora accedere e, spinti dal desiderio di un potere sempre maggiore, finirono col seguire il canto seduttore dei demoni. Li liberarono e cominciò la guerra che terminò, secondo una leggenda, col sacrificio di alcuni rappresentanti dei popoli che abitavano il pianeta. I maghi divennero i nuovi custodi della pace, mentre i draghi si estinsero. Ma c'era qualcosa che si stava muovendo, l'ombra di un'antica minaccia che era riuscita a fare capolino dal buco oscuro in cui era stata richiusa. Cosa ne sarà della giovane Hel, riuscirà a destreggiarsi tra i problemi legati alla sua famiglia e quelli nati dall'avere la magia nelle vene?
Genere: Avventura, Azione, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era una notte di tempesta, il cielo scuro e coperto da pesanti nubi nere coprivano le stelle gettando l’oscurità sulla piccola cittadina che sovrastava, un agglomerato di case e alberi sferzati dal forte vento che ululava e fischiava passando per i piccoli anfratti tra le abitazioni e i rami. I tuoni rombavano e rotolavano come giganti rinoceronti facendo tremare le finestre, i fulmini piovevano verso il terreno col loro terribile sibilare, lame di luce volavano rapide per poi spegnersi di nuovo e gettando la cittadina nella sconvolta oscurità. Il vento freddo correva e ruzzolava, accarezzava gli animali che si erano nascosti nelle tane, disturbando il loro sonno già inquieto, si infiltrava nelle case dalle crepe intorno alle cornici delle finestre, e portava con sé l’odore della tempesta che non accennava a smettere.

Al centro della città si stagliava un parco, e al centro di esso si stagliava un castello dalle mura di pietra e dalle finestre sempre illuminate nelle ore notturne. Si trattava di un mondo nel mondo, una piccola realtà fatta di speranze e di dolore, di sogni e di sorrisi, di creature che si muovevano freneticamente pensando e agendo per il bene delle persone, per il meglio delle persone, che si affidavano a loro. Un ospedale. Un simbolo di pace ricavato dallo scheletro di quello che un tempo era stato il baluardo del potere e del terrore, il castello di un tiranno che aveva dominato le sue terre con il pugno di ferro, facendo soffrire il suo popolo, soffocandolo con imposte al limite della razionale ragione.

In una delle tante stanze dell’ospedale, tra infermieri e medici, tra igienisti dentali e operatori sociosanitari, in una realtà dove la maggior parte dei pazienti cercava di strappare un’ora di sonno al morso dei dolori e alle paure prima degli interventi, una donna stava combattendo con la vita e con la morte per dare alla luce la sua bambina.

Le avevano detto che sarebbe stato un parto difficile, che sarebbe stato meglio se avesse abortito. Ma non aveva voluto dare retta ai medici e al marito che le aveva consigliato più volte di lasciar perdere. Per lui non aveva senso dare alla luce una vita al prezzo di un’altra, lei non era dello stesso parere. Eracle non capiva, ma non gliene faceva una colpa. Non era mai stato bravo a comprendere le emozioni degli altri, ma lei lo aveva amato per i sentimenti che mostrava nei momenti in cui meno se lo aspettava. Quei piccoli frammenti di empatia che gli davano un aspetto del tutto diverso da come gli altri lo conoscevano. Lei lo aveva visto non solo come uomo e lavoratore, ma anche come padre, e come padre aveva dato prova di una sensibilità nei confronti della figlia che non aveva mai mostrato nei suoi confronti.

Contrazione dopo contrazione, il dolore si acuì sempre più fino a scagliarle contro il cervello lancinanti pugnali che la strappavano dalla realtà e la respingevano a forza in un passato che aveva impiegato mesi, non senza insuccessi e rigurgiti, a nascondere dietro nuovi ricordi, molto più felici.

L’ostetrica le disse di spingere. Lei lo fece.

La vecchia signora, madre di due figli maschi, ormai adulti, uno che avrebbe seguito la sua strada, un altro che nell’arte avrebbe trovato la sua vita, bardata nella sua divisa verde e col viso nascosto da una cuffietta rosa con cuori azzurri, da cui uscivano piccole gocce di sudore che si lasciavano dietro sottili scie argentate, una mascherina chirurgica azzurra e un paio di occhiali protettivi, aveva la stessa voce perentoria di sua madre. Sua madre. Da quanto non la vedeva. Dalla stessa sera in cui era scappata dalla villa di famiglia per fuggire dall’uomo che avrebbe dovuto sposare, un uomo che non amava, non avrebbe potuto, perché le era bastato uno sguardo per vedere le tenebre che celava dietro modi affettati e sorrisi falsi. Era scappata dalla volontà della sua famiglia per unirsi a un uomo che di speciale aveva solo l’amore che, seppure sgraziato e spigoloso come un diamante non raffinato, splendeva solo per lei.

Poteva sentire nella voce dell’ostetrica l’eco della voce della madre che le ordinava di smettere di credere nei sogni, di non essere egoista e una bambina. Avrebbe fatto quello che sarebbe stato meglio per la famiglia, e di certo questo avrebbe voluto dire dimenticare l’affetto che provava per l’uomo che l’aveva trattata come qualsiasi donna, che l’aveva amata dopo averla conosciuta, non per il nome che le pendeva dal collo come la medaglietta di un animale, ma per chi fosse in realtà.

Era stato con Eracle che aveva imparato a sperimentare i propri sogni nel mondo reale. Con lui aveva conosciuto il dolore di cadere, ma anche il coraggio di mettersi in piedi. Se non fosse stato per lui, non avrebbe mai provato la gioia di diventare madre. Non una, ma due volte.

Era questo che Eracle non riusciva a capire. Marialuce Focepura aveva sentito la vita della sua seconda creatura sin da subito, era stata la magia a farle vedere che bella bambina sarebbe stata, in quale forte genere di donna si sarebbe trasformata. Aveva finito con l’innamorarsi di lei in un modo così profondo e sviscerale che non le avrebbe mai resto facile prendere la decisione di abortire, di spezzare la vita che voleva crescesse in lei. Così l’aveva tenuta, nonostante i mal di testa, nonostante le notti passate a vomitare, nonostante la debolezza e le ossa che sembravano fragili a ogni giorno che passava. Marialuce voleva quella creatura con ogni fibra del suo essere, con ogni fibra della sua energia, e questo era voleva dire tanto.

Ora doveva respirare, le fu difficile ricordare come si facesse, ma alla fine, dopo qualche sforzo, ci riuscì. L’aria le entrò nei polmoni bruciandoglieli e il dolore le fece lacrimare gli occhi.

Lo vedeva dai volti degli infermieri. La situazione non era delle migliori. Le stavano accanto, le parlavano, ma nelle loro parole si vedeva l’emozione data dalla preoccupazione.

Sentiva il sangue fluire rapido fuori dal suo corpo, più di quanto avrebbe dovuto, e nel frattempo usava la magia. Avrebbe potuto usare la scintilla che le pulsava nel cuore per curarsi, non sarebbe stato affatto difficile, ma avrebbe tolto l’energia vitale alla creatura che stava per nascere. Quindi, con gioia, prese la decisione di sostenere la figlia, le sussurrava parole dolci e di incoraggiamento. Il mondo non era una favola, e vivere con le sue regole, con i suoi difetti, non sarebbe stata una passeggiata, ma ce l’avrebbe fatta. Sarebbe cresciuta forte, avrebbe mostrato coraggio e forza, molto più di quanto avrebbe potuto fare lei stessa. La figlia avrebbe superato la madre, ed era così fiera di questo.

Sentì il cuore perdere un battito, e i polmoni si strinsero dolorosamente.

Sospirò e si sentì dilaniare il torace da artigli invisibili.

Paura e gioia. Che miscellanea inusuale da provare.

Era consapevole di quello che le sarebbe accaduto, ormai mancava poco, ma non riusciva a pensarci. Non avrebbe avuto il tempo di vederla, non avrebbe sentito il calore del suo corpicino contro la pelle, tantomeno il suo dolce odore da neonata. Non avrebbe avuto la possibilità di descriverla come la più bella ranocchia rugosa e spelacchiata che avesse mai visto. La seconda ranocchia rugosa e spelacchiata che avesse mai visto.

L’ultimo sforzo.

Sentì la bambina uscire dal proprio corpo, e si sentì improvvisamente vuota e piena allo stesso tempo. Già le mancava non sentire più la piccola creatura muoversi nel suo ventre, e il cuore era pieno di una felicità indescrivibile.

 

Quando Eracle venne raggiunto dall’infermiera, gli bastò guardarla per capire che le cose non erano andate bene. Leggeva nello sguardo di quella che era poco più che una ventenne che sua moglie Marialuce era morta. No. Peggio. Era stata uccisa. Questo pensiero gli scivolò sulla pelle come pioggia, e come veleno fu assorbito dall’organismo inquinando la sua mente, rendendolo cieco e furioso. Gli occhi arcigni brillarono di una luce scura, al suo interno si muovevano schegge di vetro che riflettevano quello che la sua anima provava.

Rabbia.

Marialuce avrebbe dovuto dargli retta. Avrebbe dovuto abortire. Ma lei, no. Testarda come il giorno in cui l’aveva conosciuta. Con il suo modo di convincerlo di avere ragione, anche quando aveva torto.

-Mi dispiace doverla informare che…- ripeté l’infermiera col solito tono dispiaciuto, comunque meccanico.

Eracle versò sulla ragazza tutta la sua rabbia. Si voltò dandole le spalle, strinse i pugni e urlò facendola sobbalzare. Tornò a guardarla, fulminandola sul posto.

Marialuce era morta.

Lo aveva capito.

La notizia gli rimbombava nelle orecchie insinuandosi con insistenza nel cervello, piantando le radici affilate come unghie di un rapace, beccandogli il cuore per strapparglielo.

L’infermiera si avvicinò posandogli una mano sulla spalla, gli parlò con voce calma e dolce. Gli disse che capiva il suo dolore, che però doveva essere forte perché aveva una bambina cui badare. Gli disse che la moglie era stata forte e coraggiosa, che aveva sorriso nel sapere che la loro bambina stesse bene prima di spegnersi. Se ne era andata contenta, felice per quella vita che aveva dato alla luce. E lui avrebbe dovuto prendere il sogno di sua moglie e farlo diventare realtà.

Eracle non ascoltava. Le parole della ragazza risuonavano come rimbombi di tuoni lontano che gli ovattavano le orecchie, il dolore che provava dentro lo dilaniava. Avrebbe pianto se non lo avesse considerato una debolezza, si sarebbe inginocchiato e si sarebbe messo a strapparsi i capelli uno per uno.

Marialuce era morta.

Lo aveva capito fino in fondo? O si stava illudendo? Perché era convinto che da un momento all’altro sarebbe uscita dalle porte verdi che lo separavano dalla sala parto sul suo letto, madida di sudore, stanca, ma col sorriso sulle labbra. Come quando era nata Camilla. Lui le sarebbe andato incontro, avrebbe sorriso all’ostetrica con gentilezza, avrebbe scambiato brevi parole con le infermiere che avrebbero elogiato le falsa bellezza della bambina che per le ore successive sarebbe stata poco simile a una ranocchietta raggrinzita. Poi avrebbe passato del tempo con la moglie parlando della figlia, sognando come sarebbe stata, divertendosi a creare per lei un futuro che molto probabilmente si sarebbe rivelato essere molto diverso. Avrebbero perso tempo a imparare un nome. Sicuramente Marialuce si sarebbe impuntata su qualche stranezza uscita fuori da uno dei tanti libri con cui si drogava la sera prima di andare a dormire o quando aveva una briciola di tempo libero. Magari un nome impronunciabile di cui lei si era innamorata perdutamente. Lui avrebbe invece lottato per un nome più modesto, normale. Avrebbero fatto tutto ciò che i genitori comuni facevano. Avrebbero nutrito lo scricciolo, lo avrebbero accudito e visto crescere, fallire e imparare a risollevarsi. Ma ora che Marialuce non c’era più, le cose non sarebbero state più le stesse. Come avrebbe potuto anche solo guardare in faccia la creatura che l’aveva uccisa. Era la creatura, non certo sua figlia.

Senza dire una parola, seguì l’infermiera nella nursery. Non avrebbe potuto prendere in braccio la bambina quel giorno, dovevano monitorizzarla perché, anche se nata a termine, aveva i parametri vitali non nella norma. Niente di grave però. Probabilmente era dovuto allo stress del parto, alla mancanza della madre, perché i bambini avvertivano queste perdite. Ma non avrebbe dovuto preoccuparsi, presto avrebbe potuto tenerla in braccio e parlarle.

Eracle non aveva la minima intenzione di tenere fra le braccia quel mostriciattolo testa e addome che non sentiva appartenergli.

Davanti all’immenso vetro trasparente, fece scorrere lo sguardo sui nuovi nati, uno a uno, osservandoli attentamente, rabbrividendo per i loro pianti, gioendo del silenzio di altri. Venti maschi. L’unica femmina. La bambina, sua figlia, stava dormendo. Le piccole manine chiuse e pugno e alte sulla testa, il pigiamino rosa che le fasciava il corpo e sottili sonde che entravano dentro di esso.

Fosse stato per lui l’avrebbe abbandonata nella teca di vetro che la proteggeva dal mondo esterno. Ma, alla fine, l’avrebbe presa con sé. Era una promessa che aveva fatto alla moglie. Non avrebbe tradito le sue ultime parole.

-Signore, dovrebbe darmi un nome per sua figlia. Per i documenti.-

Con gli occhi ancora bagnati dalle lacrime, con le guance rosse contro il viso scavato e pallido, l’uomo disse solo una parola: Hel.

Hel. La dea norrena dei morti. La bambina che gli aveva tolto sua moglie e che aveva privato sua sorella della madre. Avrebbe portato quel nome per ricordarsi del peccato che aveva commesso. Un biglietto da visita perfetto per quando avrebbe incontrato il re degli inferi.

L’infermiera prese per un braccio l’uomo, con una delicatezza che gli ricordò molto quella della moglie. Fu questo a fargli salire la rabbia.

Si lanciò sulla porta entrando nella stanza dove c’erano i neonati che per il boato si svegliarono e si misero a strillare. Le urla lo aizzarono come una bestia messa all’angolo. Dal soprabito lungo estrasse un coltello a serramanico, la mano che calava sulla bambina con un tetro bagliore. L’infermiera che urlava e la piccola che apriva gli occhi, giusto in tempo per salutare la morte.

 

 

Hel si svegliò di soprassalto col cuore che le pulsava violento e dolorosamente contro il torace, sentiva il sangue fischiarle nelle orecchie e il corpo che tremava sotto il piumino pesante di una morbida tonalità panna.

Si era addormentata con la lucetta sul comodino accesa e il libro di storia dell’arte sullo stomaco. Doveva smetterla di studiare fino a tardi, soprattutto poi con una luce che non illuminava niente della stanza che non fosse a una cinquantina di centimetri dalla sua fonte, e nemmeno bene. Si ciecava a leggere i capitoli dei libri, e faceva fatica a leggere le didascalie scritte con dimensioni di caratteri come formiche. Però non aveva molto altro da fare. Nella sua stanza i passatempi erano limitati, leggere o disegnare, ma visto che entro pochi giorni avrebbe dovuto dare la sua ultima prova di storia dell’arte, preferiva finire il programma per avere poi più tempo per ripetere.

Studiare le era sempre piaciuto, trovava magico perdersi nei libri assaporando e assimilando le informazioni che nascondevano tra le pagine. Le piaceva imparare cose nuove, sperimentare la sua conoscenza giocando con le domande che trovava alla fine di ogni capitolo.

Si massaggiò le tempie che sembravano voler esplodere da un momento all’altro, si scostò i capelli neri incollati sul viso e li sentì accarezzarle il collo.

Non era la prima volta che faceva questo sogno, ormai era diventato ricorrente come il tacchino a Natale. Solo che non sapeva se considerarlo come un vecchio ricordo o la sua più grande paura che diventava realtà, anche se solo in sogno. Storse il naso e fece per alzarsi, ma si accorse che qualcosa non andava. La stanza le sussultò attorto e l’ansia la colse con uno spasmo svegliandola completamente.

Un’altra volta. Stava fluttuando sul suo letto, il piumino ancora sopra di lei a tenerla al caldo. Ma non era solo lei a ondeggiare a mezz’aria. A farle compagnia c’erano alcuni oggetti. Le tele su cui amava dipingere i tramonti e volti di persone mai conosciute, i suoi pupazzi rattoppati che erano quelli che la sorella non voleva più perché ricordi degli amori che l’avevano lasciata o perché rotti, la sedia della scrivania e lo specchio che normalmente sarebbe stato appeso all’anta dell’armato. E fu proprio nello specchio che vide il suo riflesso. Una ragazza di tredici anni, con i capelli lunghi che le incorniciavano il capo magro, gli occhi azzurri in cui si muovevano schegge di una cremisi luce rossa. A seconda di come la luce sul comodino le colpiva gli occhi, le sembrava di vedere scintille piovere dalle sue iridi. Scostò il piumino che la copriva e si perse nei disegni di luce azzurra e rossa che le si muovevano sotto la pelle, come sbuffi di fuoco che cercavano una via di uscita. Se si concentrava, poteva sentire il calore di quei giochi di luce invaderle il corpo, una sensazione bellissima che la faceva sentire bene.

Stava peggiorando. In passato, altre volte le era capitato di usare la magia, sempre senza avere idea di come facesse ad attivarla. Era sempre riuscita a tenere nascosta alla sua famiglia questa abilità che non avrebbe dovuto avere sino al compimento dei sedici anni. Qualche volta si era persino permesse di giocare con le fiamme che le si accendevano sulle dita. Molte volte quelle piccole e tremule fiammelle si erano spente ancor prima che riuscisse a formulare un desiderio, rare le volte in cui riuscì a creare qualcosa. Come le farfalle con cui giocava con prudenza quanto la noia prendeva il sopravvento e la voglia di sperimentare quel lato di lei veniva a galla con una prepotenza che non la spaventava, ma la eccitava.

Se prima erano poche le volte in cui il suo potere si accendeva senza il suo consenso, due volte l’anno al massimo, negli ultimi anni si era presentata sempre con maggiore frequenza. Negli ultimi mesi già cinque volte. E non sapeva più come tenere segreta quella parte di lei che voleva uscire allo scoperto.

Se prima si divertiva nel vedere come le cose che desiderava, per una manciata di minuti, accadevano davanti ai suoi occhi, come la volta in cui i suoi pupazzi presero a ballare, ora era spaventata perché provava il profondo timore di perdere il controllo su quella magia di cui non conosceva niente.

Sarebbe stato inutile parlarne col padre. C’era una lastra di freddo marmo tra loro. Il loro rapporto non era mai stato dei migliori. E Hel sapeva il perché e non lo biasimava. Se lei non fosse nata, sua madre non sarebbe morta. Eracle avrebbe avuto ancora una moglie con cui parlare, una moglie con cui sorridere e piangere a seconda delle esperienze che la vita gli offriva. Doveva essere una tortura essere costretto a vedere in viso la causa della morte della sua anima gemella, soprattutto se poi la bambina in questione assomigliava in maniera innaturale alla defunta madre. Hel aveva i suoi stessi occhi azzurri, lo stesso sguardo acceso e curioso, gli stessi capelli lisci che la madre era solita raccogliere in una lunga treccia. Avevano la stessa carnagione chiara macchiata da una spruzzata di efelidi sul naso e sulle guance che le rendevano lo sguardo ancora più innocente e da bambina.

Non poteva parlarne nemmeno con Camilla. La sorella l’aveva sempre odiata, accusandola apertamente di aver ucciso sua madre e dicendole che doveva ritenersi fortunata se il loro comune padre non l’avesse abbandonata nell’ospedale in cui era nata. Ma non era solo per questo che non le avrebbe detto che aveva problemi con la magia.

La magia aveva delle leggi specifiche. Al compimento del sedicesimo anno di età, la magia faceva il suo ingresso nella vita del festeggiato e dal quel momento si sarebbe dovuto iscrivere in una delle Accademie che insegnavano come incanalare il potere per creare cose spettacolari, senza essere però un pericolo per gli altri. Soprattutto per gli umani.

Le leggi della magia erano chiare. Ma come ogni legge che si rispetta, anche la magia aveva dei casi speciali. Camilla aveva compiuto sedici anni da due mesi, ma la sua magia non si era ancora palesata.

Con le famiglie miste poteva capitare, soprattutto se uno dei due genitori era un umano. Non era detto che il potere sarebbe stato ereditato dal figlio. C’erano poi casi in cui il nascituro dimostrava di avere in sé le caratteristiche di entrambi i genitori.

Nella sua breve vita ne aveva viste di tutti i colori.

Irina, un’amica di Camilla, era figlia di un mago e di una umana. Era una ragazza simpatica, con i capelli rossi e voluminosi che erano un intricato nido di ricci e con due occhi verdi che sembravano due smeraldi incastonati nel suo cranio. Hel non capiva come facesse una ragazza dall’animo gentile e altruista come lo era Irina a essere amica di sua sorella. Non c’entravano niente l’una con l’altra. Eppure erano inseparabili e si sostenevano sempre. Irina non aveva poteri. Era stata sottoposta al giudizio di un’elfa e il responso era stato che non avrebbe mai sviluppato poteri. Però non sembrava importarle molto.

Poi c’era Ares. Camilla non lo avrebbe mai ammesso, ma provava determinati sentimenti quando si trovava accanto a lui. Erano amici d’infanzia, ma lei non gli aveva mai dato una sola possibilità, troppo impegnata a farsela con chiunque avesse a che fare con i club sportivi. Ares, per un po’, le aveva sbavato dietro, ed Hel aveva provato pena per lui. Essere trattato come una pezza senza vedere i suoi sentimenti riconosciuti. Eppure Camilla sentiva qualcosa per lui, e Hel non capiva come mai non lo ammettesse. Ares era il figlio di un’elfa e di un licantropo. Uno strana coppia che aveva dato alla luce un figli esplosivo. Dalla parte del padre, dalla famiglia dei licantropi, aveva ereditato i sensi sviluppati del lupo, la sua forza e la sua velocità. Da parte di madre, aveva ereditato un briciolo di magia che gli permetteva di usare incantesimi che manipolavano la crescita delle piante e che, in certa misura, lo rendevano capace di comunicare con loro. A Hel stava simpatico Ares. Tra tutti gli amici di Camilla, lui era quello che non rispettava il divieto di parlarle e la salutava ogni volta che la incontrava per strada o veniva a trovare Camilla.

Ora che cominciava a capire qualcosa di più in materia di ragazzi, Hel doveva ammettere che il ragazzo non era male. Occhi nocciola e una soda muscolatura sotto una liscia pelle nera dall’aroma di muschio. Forse l’unico difetto era rappresentato dalla peluria scura e riccia che cresceva indomita sulla sua pelle. Ma era per metà licantropo e, anche se non si trasformava in lupo, metà dei suoi geni lo portavano ad assomigliare a quel ramo della famiglia.

Se Hel avesse detto a Camilla che era in grado di usare la magia, era abbastanza certa che la sorella l’avrebbe odiata ancora di più. Non solo l’aveva privata dell’affetto materno, ma le aveva rubato il primato sulla magia.

L’unica soluzione che la ragazza trovava per non inasprire la situazione era mantenere il segreto. Doveva resistere per altri tre anni, poi avrebbe usato i suoi poteri e sarebbe stata iscritta a un’Accademia e, dopo i suoi cinque anni, si sarebbe allontanata dalla famiglia che non l’aveva mai accettata e avrebbe viaggiato. Sì. Avrebbe viaggiato, visitato il mondo e appreso quanto i libri non potevano offrirle. Oppure, se si fosse dimostrata particolarmente brava nell’uso della magia, veramente brava, nel senso che avrebbe usato la magia e gli incantesimi come fossero stati l’aria che respirava e l’acqua che costituiva per il novanta percento il suo corpo, magari le avrebbero offerto un lavoro in qualche organizzazione presieduta dal Comitato per il Controllo della Magia, oppure le avrebbero offerto di insegnare.

Che bello sognare. Quello nessuno glielo avrebbe tolto.

Hel calmò i pensieri e respirò a fondo. Contò. Uno. Due. Tre. Il cuore lentamente tornò al suo ritmo.

Gli oggetti tornarono a occupare il loro posto e lei incontrò il rassicurante calore del materasso.

Si specchiò nella lastra di vetro posata all’anta dell’armadio. Gli occhi azzurri erano tornati normali, come la sua pelle. La magia si era spenta.

Hel aveva svolto delle ricerche e sapeva di essere una Prematura, una dei pochi bambini che sviluppavano la magia prima del tempo, una dei pochi che rappresentava una reale minaccia perché naturalmente impreparata a sopportare fisicamente il peso della magia. Anche se niente le era sembrato così normale come quei momenti in cui la magia faceva capolino nella sua vita.

Tre anni. Solo tre anni.

Nel frattempo, aveva ancora qualche giorno di pace prima che suo padre e sua sorella tornassero dalla piccola vacanza che si erano concessi a Venezia. Nel frattempo, aveva qualche altro capitolo da studiare.

   
 
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