Capitolo 2
Mai rimase muta a osservare Elisabeth servire in
modo
impeccabile il tè, come aveva visto solo alle cerimonie e
come a casa loro
facevano soltanto quando venivano i genitori di suo padre da Kyoto.
“Mia nonna è
un’appassionata di tè. Suo padre lo
coltivava e vendeva e, dopo la guerra, hanno viaggiato per tutto il
mondo per
cercare vari sapori. Poi, è tornata in Giappone e ha
conosciuto mio nonno. Mi
ha insegnato a servire il tè da quando avevo quattro
anni.”
La Guerriera Viola annuì meccanicamente,
lasciando che
lo sguardo vagasse sul giardino. Da un lato era il tipico giardino
giapponese,
con lo stagno e i cespugli curati alla perfezione. Ma
dall’altro lato, quello
in cui c’era il delicato bungalow di legno sotto cui erano
sedute, era un tripudio
di fiori colorati, tra cui spiccavano due roseti, uno bianco e uno
giallo.
“Tieni.”
Mai afferrò la tazzina, chinando
leggermente il capo.
Afferrò la tazza, ma non l’avvicinò
alla bocca. Elisabeth stava invece bevendo
e aveva già mangiato uno dei dolcetti che la cuoca, la
signora Yoshida, le aveva dato
in mano mentre uscivano.
Alla fine, bevve uno sorso, perlomeno per non
insultare la sua ospite, che si era impegnata per lei. Ma i dubbi e le
domande si
fecero fin troppo forti per ignorarli ancora e Mai posò la
tazza alzando lo
sguardo su Elisabeth.
“Come? Come fa Yuuki a essere qui? Era
morto. Dovrebbe
essere morto. E perché lo hai aiutato? Con tutto quello che
hanno detto di noi.
Perché?”
Elisabeth sospirò e posò a
sua volta la tazza. Le
sorrise, giocherellando con il tovagliolo.
“È stato un caso, un paio di
giorni dopo che avevano
dato la notizia. Ricordo che avevano dedicato molto spazio
all’omicidio del
Guerriero Bianco.”
Mai trasalì e abbassò lo
sguardo. Ricordava quei
giorni, il dolore e la paura di uscire di casa. La sua famiglia aveva
guardato
il telegiornale solo quando lei dormiva.
“Sono iscritta a
un’associazione di volontariato, come
lo era stata mia madre. Aiutiamo i senzatetto, diamo qualche coperta,
un piatto
di riso caldo, un po’ di conforto. I miei genitori avrebbero
aiutato tutti, se
solo ne avessero avuto la possibilità.”
Elisabeth zittì e strinse gli occhi,
inspirando ed
espirando un paio di volte. Riaprì gli occhi e
tornò a sorridere.
“Stavo per tornare a casa. Aveva
cominciato a piovere
e Kosuke era appena arrivato. Uno dei senzatetto era un ex-collega di
mio
padre, quando lavorava all’ospedale, finito in strada dopo
aver perso moglie e
figlio in un incidente stradale.”
“È terribile”,
sussurrò Mai.
Elisabeth annuì.
“Già. Si avvicinò bussando al
finestrino e chiedendomi di potermi parlare. Continuava a guardarsi
attorno,
come se avesse paura di essere seguito. Scambiai uno sguardo con Kosuke
e lo
feci salire in macchina.”
“Signor
Matsumoto, che sta succedendo? Non lo
racconterò a nessuno, ma deve dirmi qual è il
problema.”
L’uomo
sospirò, strofinandosi il viso. “Sei una cara
ragazza, assomigli tanto a tuo padre. Se non mi aiuti tu, non ho idea
di cosa
poter fare.”
Elisabeth gli fece
cenno di proseguire, sempre più
perplessa e incuriosita.
“C’è
un ragazzo, dove vivo. Ha urgente bisogno di cure
mediche.”
“Vuoi che lo
portiamo in ospedale?”
L’anziano
sgranò gli occhi e scosse la testa,
afferrandole convulsamente un braccio. Kosuke si mosse sul sedile
anteriore.
“Lo
ammazzano. Non puoi portarlo lì. Lo scoprono e
finiscono il lavoro. Lo fanno fuori in quattro e
quattr’otto.”
La ragazza
scambiò uno sguardo allarmato con Kosuke,
che sembrava più che pronto a chiamare la polizia. Con un
gesto, gli fece
capire di aspettare e poi tornò a prestare attenzione
all’anziano. Sperava
veramente veramente che non c’entrasse la Yakuza.
“Di chi state
parlando? Chi sono loro? Chi è questo
ragazzo? Se è qualcosa di criminale, io-”
“Ti prego.
Non ho potuto salvare mio figlio, aiutami
almeno a salvare questo ragazzo.”
Sua nonna diceva sempre
che aveva il cuore fin troppo
grande: durante l’infanzia aveva tentato di adottare quattro
cani, sei gatti,
un pappagallo, due macachi, una volpe e una bambina con cui aveva fatto
amicizia al parco. A posteriori, sua nonna aveva un sacco ragione.
“D’accordo.
Io e Kosuke ti seguiamo, ma al primo
sentore di pericolo ce ne andiamo.”
L’uomo
annuì e scese. Lei e Kosuke lo imitarono,
sollevando i cappucci per ripararsi dalla pioggia e iniziando a
seguirlo.
Facendo slalom tra pozzanghere e spazzatura, con Elisabeth che sperava
che
Kosuke avesse un senso dell’orientamento migliore del suo,
raggiunsero
finalmente la loro metà. Era una casa semidiroccata, una di
quelle che rimanevano
lì senza venir mai abbattute. Forse un tempo era stato un
magazzino.
Entrarono e i due si
abbassarono il cappuccio. La
ragazza notò che la pioggia sgocciolava da più
punti e si augurò che il
soffitto non crollasse loro sulla testa. Il senzatetto
avanzò verso una piccola
costruzione di legno, addossata contro un muro. A terra
c’erano vecchi giornali
e un paio di scarpe rovinate. Le fece cenno di seguirlo e scomparve
all’interno.
Elisabeth
inspirò e, confortata dalla presenza di
Kosuke alle sue spalle, si infilò dentro la struttura. Un
odore pungente saliva
da alcuni piatti incrostati, impilati disordinatamente vicino alcuni
barattoli
di conserve. In un angolo c’era una pila di abiti piuttosto
logori e altri
giornali.
L’anziano si
era accucciato vicino a un vecchio
materasso su cui, riparato da una coperta consunta e sbiadita,
c’era qualcuno.
“È
lui il ragazzo di cui ti parlavo.”
Elisabeth si
avvicinò di alcuni passi, cercando di non
cedere all’istinto che le diceva di correre dalla parte
opposta. Il ragazzo era
sofferente, il respiro laborioso e il volto contratto in una smorfia di
dolore.
L’anziano sospirò e abbassò leggermente
la coperta. La ragazza emise un verso
strozzato e serrò le mani attorno al braccio di Kosuke,
sentendosi girare la
testa. La maglietta bianca del ragazzo era pregna e rosso cupo, proprio
all’altezza
dell’addome. Una benda improvvisata bastava a malapena a
fermare l’uscita del
sangue. Sangue. Se finiva nelle mire della Yakuza, i suoi nonni non
glielo
avrebbero mai perdonato.
“Che cosa
è successo?”, domandò infine Kosuke.
La ragazza gli fu
grata: non era sicura di poter
trovare la voce. Non ancora, almeno.
“Arma da
fuoco. Ero lì vicino, quando gli hanno
sparato. Gli assalitori sono scappati sentendo la sirena della polizia.
Poi è
arrivato un ragazzino. Si è avvicinato qualche istante ed
è corso via
sconvolto. Poi mi sono avvicinato io. Era ancora vivo. L’ho
portato qui e ho
cercato di fermare il sangue. Ha bisogno di aiuto.”
Ma come aiutarlo, se
non potevano portarlo
all’ospedale?
“Elisabeth,
è il Maestro della Luce! Quello del
telegiornale.”
Lei trasalì
e lo osservò meglio: Yuuki Momose, il
Maestro della Luce dato per morto due giorni prima. Strinse gli occhi e
inspirò: forse sarebbe stata meglio la Yakuza.
Preso coraggio,
raggiunse il letto e vi si inginocchiò
accanto. Delicatamente, gli sfiorò la fronte con la punta
delle dita. Era
bollente. Quando le allontanò, Yuuki gemette e
mormorò qualcosa con un filo di
voce.
“Ka…
jistu…”
“Kajitsu?”,
ripeté Elisabeth ad alta voce, la fronte
aggrottata. “Chi è?”
“Sta
delirando. È così da quando l’ho
portato qui.
Continua a ripetere frasi sconclusionate. Nomina questa Kajitsu, i
Maestri
della Luce e parla di una rosa sotto il temporale. Non
resisterà a lungo in
questo stato.”
Elisabeth rimase a
fissarlo, sforzandosi di ricordare
tutti i servizi sui Maestri della Luce. Dopo qualche istante le
tornò in mente:
il mostro fermato
dal Re del Mondo Altrove. Momose Kajitsu era sua sorella.
“Cosa
facciamo? Vuoi davvero aiutarlo?”
Si voltò
verso Kosuke, l’espressione incerta,
rimettendosi in piedi. “Non lo so. Ma è una
persona. Non possiamo lasciarlo qui
così. E non possiamo portarlo in ospedale.”
“L’amico
di suo nonno”, propose l’uomo. “Quello
della
clinica privata. Il signor Nakano non parla sempre di come gli debba un
favore?”
“Il dottor
Aosawa!”, esclamò con entusiasmo la
ragazza. “Certo. Sono sicura che mio nonno può
convincerlo ad aiutarci.”
Perché
neppure suo nonno, nonostante la sua severità,
avrebbe lasciato lì il Guerriero Bianco, indipendentemente
da quello che tutti
potevano pensare dei Maestri della Luce. Una vita umana era una vita
umana.
Kosuke e il senzatetto
sollevarono il ragazzo e
Elisabeth raggiunse l’uscita per controllare che non ci fosse
nessuno. In
silenzio e con la tensione a mille, raggiunsero l’automobile
e posarono il
ragazzo sul sedile posteriore. L’uomo raggiunse velocemente
il posto di guida.
Elisabeth venne fermata dall’anziano un attimo prima di
salire.
“Stai
attenta. Nessuno, nessuno deve sapere di lui.
Non fidarti alla leggera. Per il suo bene e il tuo.”
La ragazza
annuì e salì in macchina. Kosuke partì
subito.
Una volta lontani,
Elisabeth prese un fazzoletto e
delicatamente iniziò ad asciugare la pioggia dal viso di
Yuuki.
“Andrà
tutto bene.”
Yuuki gemette e i suoi
muscoli si contrassero in uno
spasmo. Elisabeth faticò a trattenere le lacrime. Era come
con suo fratello, di
nuovo. E quella volta era stata davvero la Yakuza, con lui che si era
trovato
al momento sbagliato nel posto sbagliato.
Come potevano esistere
persone così senza cuore?
“Devi
resistere”, sussurrò stringendogli una mano.
“Non
puoi arrenderti proprio ora.”
“Chiamai mio nonno e riuscii a
convincerlo. Ci
raggiunse alla clinica e persuase il suo collega, che fece in modo di
mantenere
la più totale segretezza. Lo registrarono negli schedari con
un nome falso.
Restammo lì ad aspettare e penso di essermi addormentata,
perché la cosa
successiva che ricordo è mio nonno che mi sveglia e
l’infermiera che conferma
la fine dell’operazione.”
Il dottor Aosawa
finì di indossare il camice e li
condusse nel suo ufficio. L’aria era carica di tensione e suo
nonno non
sembrava averle ancora perdonato l’aver preso una decisione
così avventata. Si
sedettero davanti alla scrivania.
“L’operazione
è andata a buon fine, ma le sue
condizioni sono critiche. Dovremo tenerlo sotto osservazione per le
prossime
ventiquattro, quarantott’ore. Fortunatamente, il gruppo
sanguigno è tra i più
diffusi.”
“E la
prognosi?”, interruppe bruscamente il nonno di
Elisabeth.
Il medico
sospirò e passò stancamente una mano tra i
capelli. “Non abbiamo riscontrato danni cerebrali, ma
è entrato in coma.”
Elisabeth
trasalì e si coprì la bocca con una mano.
“Nelle
condizioni in cui l’avete portato, non nutrirei
grandi speranze. Sarà già una benedizione che
superi la notte. Inoltre, una
volta che si sia stabilizzato, non potrò fare altro. Vi ho
aiutato per
amicizia, ma pur tenendo fede alla mia dignità di medico,
non posso mettere a
repentaglio questa clinica.”
Elisabeth si interruppe e sorseggiò per
alcuni istanti
il tè che cominciava a raffreddarsi. Mai fece lo stesso,
sconcertata dal
racconto. Inconsciamente, si voltò verso la casa e
sentì il cuore sprofondarle.
Yuuki era in coma da febbraio.
Erano a
settembre.
“Yuuki superò i primi giorni e
convinsi mio nonno a
portarlo qui, anche grazie a mia nonna. Le ferite sono guarite, ma non
si è mai
risvegliato.”
“Quali sono le possibilità che
lo faccia?”, sussurrò
Mai, afferrandosi con più forza alla tazza ancora stretta
tra le dita.
“Forse nessuna”,
replicò Elisabeth abbassando lo
sguardo. “Forse la cosa più compassionevole
sarebbe lasciarlo andare. Ma non
posso farlo, non se c’è ancora la più
piccola speranza che lui viva.”
Perché era quello che avrebbe voluto
fosse stato fatto
con suo fratello, pensò Elisabeth iniziando a spostare le
briciole del dolce
con la punta del dito. Se i soccorsi fossero stati chiamati prima, lui
avrebbe
potuto essere ancora lì.
Mai, invece, tornò a voltarsi verso il
tavolo,
osservando con più attenzione la ragazza che, di fatto,
aveva salvato Yuuki.
C’era altro che non le diceva, un vago rancore che si
insinuava nella sua voce.
Ma non spettava a lei chiederle di parlare: a conti fatti erano due
sconosciute. Anche se, rifletté la Guerriera Viola
abbozzando un debole
sorriso, c’era qualcosa di affine a parlare con lei.
“Parli come una di noi.”
Elisabeth sussultò a quelle parole,
fissandola per un
istante, prima di scoppiare a ridere e scuotere la testa.
“Non credo basti una atto di
pietà e gentilezza a
rendermi un Maestro della Luce, ma lo prendo come un complimento. Non
mi
dispiacerebbe pensare di essere una riserva.”
Le due ragazze addentarono un altro dei piccoli
dolcetti. Anche se Elisabeth sminuiva il suo gesto, Mai non riusciva a
non
confrontarlo con le reazioni dei loro amici, delle loro famiglie, dove
neppure
il legame affettivo era bastato a non farli cedere alla paura. Era
ironico come
una delle poche persone a non voltare le spalle, in un gesto di totale
altruismo, fosse stata una perfetta sconosciuta.
“E Kajitsu?”, riprese la
Guerriero Viola. “Cosa sai di
lei?”
“Quello che ho trovato sul web e negli
articoli di
giornale. Era una di voi e ha cercato di distruggere Tokyo. E che solo
il Re
del Mondo Altrove ha fermato la vostro incoscienza, anche se poi voi
gli avete
impedito di portare benessere
all’umanità.”
Mai scattò in piedi prima di poterselo
impedire, una
furia cocente che montava dentro di lei, che le inumidì gli
occhi. Si allontanò
dal tavolo, fermandosi accanto una delle colonne del bungalow. Non si
sarebbe
mai abituata e, dopo il futuro, era dieci volte peggio.
“Solo schifose menzogne. Il potere del
Nucleo
Progenitore non è una bacchetta magica che cambia le
persone, che ferma l’odio
e le guerre. Avrebbe cambiato il mondo, non
l’umanità.”
Elisabeth si alzò in silenzio,
avvicinandosi a Mai ma
tenendosi ad alcuni passi di distanza.
“E il Re del Mondo Altrove non voleva
niente di tutto questo.
Voleva illuderli, per poi distruggerci tutti, perché eravamo
inferiori secondo
lui. Sacrificabili in nome di non so quale evoluzione.”
La Guerriera Viola strinse la mano attorno alla
colonna di legno, la superficie ruvida che graffiava la pelle e le
unghie.
Elisabeth le posò una mano sulla spalla e lei
sussultò.
“Io vi credo.”
Gli sguardi delle due ragazze si incrociarono e
Mai,
allibita, riconobbe la sincerità dell’altra
ragazza.
“Quello che ci fa paura, ci rende
più cattivi”,
sussurrò la ragazza stringendole una mano. “E ci
fa cercare un capro
espiatorio, perché non vogliamo guardare lo sporco che
è dentro di noi, perché
poi non avremmo più scuse. Mio padre mi ha sempre insegnato
a guardare oltre le
apparenze, a pensare con la mia testa. Io non credo che chi sia nel
giusto,
cerci di uccidere chi gli si oppone. Voi Maestri della Luce non avete
mai fatto
male a nessuno.”
“Sei veramente una ragazza
speciale”, replicò la
Guerriera Viola ricambiando la stretta.
Elisabeth rise un’altra volta.
“Non esagerare. Ma
spero che potremmo diventare amiche.”
“Mi piacerebbe molto.”
Scambiatesi un sorriso, le due tornarono al
tavolino e
raccolsero tazze, teiera e dolci restanti per riportarli in cucina.
Entrate
nella penombra della stanza, vennero accolte da
un’indaffarata cuoca.
“Care, grazie per aver portato dentro la
roba.”
“Figurati”, replicò
Elisabeth affiancandola e
sporgendosi oltre per vedere che cosa stesse preparando. “Che
fai di buono?”
“Hiyashi Chuka, ma ci vorrà
ancor un po’ che sia
pronto.”
La ragazza emise un verso di approvazione e
tornò da
Mai, prendendola a braccetto.
“Andiamo a vedere se Izumi ha
finito.”
Le due uscirono in corridoio e raggiunsero la
scalinata.
“Perché vai al
cimitero?”, chiese la Guerriera Viola
una volta arrivate al piano superiore.
Elisabeth arrossì di botto e
borbottò qualcosa,
lisciandosi il vestito. “Io, cioè…
Sì, pensavo potesse essere una cosa carina.
Visto che lui non può. Pensi che abbia sbagliato?”
Mai sorrise davanti all’espressione
preoccupata della
ragazza e scosse la testa. “Sono
sicura
che avrebbe fatto loro piacere.”
Elisabeth si rasserenò e fece cenno a
Mai di seguirla.
Superarono una stanza socchiusa, dove il nonno di Elisabeth stava
parlando al
telefono con qualcuno. Elisabeth si voltò verso di lei
sorridendo.
“Mia nonna. Ha una salute un
po’ debole, d’estate va
spesso su a Hokkaido.”
Arrivarono davanti alla porta ed Elisabeth
allungò la
mano per aprirla, ma venne fermata da Mai che le afferrò il
polso facendola
voltare verso di lei.
“Perché non hai mai cercato di
contattarci?”
“Non avrei saputo da dove cominciare. Tu
avevi chiuso
il blog e anche gli altri avevano cercato di far perdere le tracce.
Avevo paura
a fare troppe domande, ad attirare l’attenzione. Una perfetta
sconosciuta che
cerca di punto in bianco i Maestri della Luce: sarei stata sospetta. E,
poi, mi
avreste mai creduto?”
Mai aprì la bocca per rispondere, ma si
fermò e scosse
desolatamente la testa. No, non le avrebbero creduto. Non dopo quella
notizia,
non con la paura che fosse solo una trappola per farli uscire allo
scoperto. E
ora non aveva più importanza. Yuuki era ancora vivo. Era
quello che contava.
Elisabeth aprì la porta, lasciando a Mai
la
possibilità di entrare per prima. La Guerriera Viola
sentì una nuova stretta al
cuore a vedere, l’un tempo orgoglioso Guerriero Bianco,
inerme e debole in quel
letto, i bip dei macchinari a sottolineare la sua condizione. Si
avvicinò al
letto e strinse gli occhi, faticando a trattenere le lacrime. Elisabeth
le fu
di nuovo accanto.
“Sai perché mi ostino a
volerlo aiutare? Perché è
quello che avrei voluto facessero con mio fratello. Si è
ritrovato in mezzo una
sparatoria della Yakuza. È morto prima di arrivare in
ospedale, i soccorsi
erano stati chiamati troppo tardi. È morto solo, in una
pozza del suo stesso
sangue. Non augurerei mai la stessa fine a nessuno.”
Mai sentì il tremore nella voce
dell’altra e,
istintivamente, si voltò e la strinse tra le braccia. Dopo
qualche istante,
Elisabeth si staccò da lei e afferrò un mazzo di
carte dal tavolino, mazzo
della cui presenza la Guerriera Viola non si era neppure accorta.
Elisabeth glielo porse. “Aveva questo con
sé, il
giorno in cui l’ho trovato. Era suo?”
Quasi tremando, Mai afferrò le carte e
iniziò a
scorrerle. Carte bianche e carte verdi, quelle di Kajitsu.
“Ammetto di aver preso qualche spunto,
per il mio
mazzo. Spero non si offenda.”
Mai sorrise e scosse la testa, sfogliando avanti le
carte. Bufera
Impenetrabile, Supremo
Gugnir, Yggdrasill,
Cavaliere d’Acciaio, Woden, il Grande Cavaliere
Alato e Walhalance
dalla Corazza
Indistruttibile. Sentì di nuovo le lacrime
minacciare di cadere: avevano
sempre creduto che quelle carte fosse andate perse, insieme al corpo di
Yuuki.
Posò il mazzo e trattenne tra le dita
solo due carte,
sfiorandole delicatamente con i polpastrelli. Elisabeth la
affiancò,
guardandole incuriosita.
“Hououga,
Fenice
Implacabile e Ragna-Rock, Cavaliere Signore del Fato.
Perché hai
preso queste carte?”
“Hououga
era lo
spirit di Kajitsu”, replicò Mai con una voce
carica di tristezza. “Ragna-Rock era
il simbolo del loro legame.”
Posò le carta in cima al mazzo,
allontanando di scatto
la mano.
“Vuoi tenerle tu, Mai?”
“No”, rispose senza esitazione
la Guerriera Viola.
“Penso che sia giusto che gli rimangano vicino.”
Elisabeth annuì e si
allontanò verso la porta.
Sull’uscio, strinse tra le dita la maniglia e
tornò a voltarsi verso Mai.
“Ti lascio un po’ da sola con
lui.”
Non aspettò risposta e chiuse
delicatamente la porta
alle proprie spalle. Mai rimase a fissare la porta, sopraffatta dal
silenzio di
quella stanza. Lasciò vagare lo sguardo su quelle quattro
mura, sulle pareti
bianche, i delicati paesaggi appesi al muro, il cassettone di legno in
un
angolo. E le macchine che tenevano Yuuki in vita.
Mai tornò a guardare il comodino e si
accorse della
presenza di una cornice. La prese e riconobbe la foto di Kajitsu,
identica a
quella lasciata vicino al suo memoriale. Elisabeth doveva essere
riuscita a
ottenerne una copia. Se Kajitsu fosse stata là, ne era
sicura, sarebbe bastata
la sua voce per risvegliarlo. Ma Kajitsu non c’era
più. La ragazza sospirò e,
spolverata la sedia dai petali secchi, la spostò accanto al
letto.
Si sedette e rimase a fissare il suo volto pallido,
ancora più pallido del solito, più scavato. Tutte
le ingiustizie subite dai
Maestri della Luce le crollarono addosso, un senso di impotenza, di
sconforto
che non aveva più provato da quando aveva parlato con Kenzo.
Erano stati solo
dei ragazzini, poco più che bambini, e il mondo aveva
vomitato contro di loro il
peggio. Quali colpa dovevano ancora scontare? Dopo aver quasi perso le
famiglie, dopo aver perso amicizie, dopo essere stati alienati, odiati,
dopo
aver visto amici morire, dopo quello che era successo a Dan.
Mai allungò la mano e strinse le dita
attorno a quelle
di Yuuki, chiudendo gli occhi e cercando di rallentare il respiro
accelerato.
Si concentrò sul regolare bip dei macchinari, il battito
debole e stabile del
cuore di Yuuki. E, nonostante tutto, quel suono riuscì a
calmarla.
“Sarei venuta prima, saremmo venuti
tutti. Oh, Yuuki,
ti credevamo morto. Dan se n’è addossata la
colpa.”
Caldi rivoli di lacrime cominciarono a rigarle le
guance, ma la ragazza non fece nulla per asciugarle e anzi si
sforzò di
abbozzare un sorriso.
“Avremmo dovuto esserci. Non sarebbe
cambiato niente,
perché eravate entrambi troppo testardi e determinati per il
vostro bene. Ma avremmo
dovuto esserci.”
“Avremmo dovuto esser lì con
voi”, ripeté scuotendo la
testa. “Ma ho avuto paura. Se fossi andata avanti anche solo
un altro giorno…
avrei voluto essere più forte.”
Ma non lo era stata. Era scappata, aveva tagliato i
ponti. Ed era tornata a respirare, anche se la paura non se
n’era davvero
andata, ma almeno non aveva più avuto l’istinto di
rannicchiarsi in un angolo e
nascondersi da tutto. E poi era scappata nel futuro.
“Ti sei perso un sacco di
cose”, proseguì con un nuovo
sorriso, usando l’altra mano per strofinare via le lacrime.
“Kazan ci ha
chiamato dal futuro. Dovevamo solo impedire la totale riconfigurazione
della
Terra, normale routine. Clarky, Kenzo, Hideto… ci siamo
andati tutti. Io sono
tornata a prendere Dan.”
Deglutì e sbatté le palpebre.
Era ancora così
difficile pensare a quel giorno, così vicino secondo il
calendario, eppure
lontano una vita.
“Era così cresciuto, quasi non
lo riconoscevo. Ma
amava Battle Spirits come allora, anche se i soliti duelli lo
demoralizzavano. Dopo
Gran RoRo, dopo aver messo in gioco la vita, come si può
biasimarlo?”
Liberò la mano da quella di Yuuki e le
strinse
entrambe sulle braccia.
“Nel futuro abbiamo iniziato a guarire,
abbiamo
ritrovato noi stessi e la forza di combattere.” Grazie a Dan. “Abbiamo vinto.
Siamo riusciti a portare la pace tra
umani e Mazoku. Sì, proprio le creature di Gran RoRo. Erano
rimasti sulla
Terra. Magisa aveva deciso di non riportarli a Gran RoRo.”
Sospirò ancora e alzò una
mano per intrecciare le dita
su una ciocca di capelli.
“Forse sperava che ci avrebbe aiutato a
superare le
differenze. Ci sono voluti sei secoli, però, dai:
l’idea ha funzionato”,
abbozzò una risata. “E abbiamo anche scoperto che
abbiamo tutti lo stesso DNA.
I granroriani sono esseri umani che si sono evoluti in modo diverso. Lo
sapevi,
Yuuki?”
Mai si morse un labbro e alzò lo sguardo
verso la
finestra. Si perse lunghi istanti a fissare il leggero ondeggiare della
tenda
sottile. Il cinguettare degli uccellini riempiva l’aria di
serenità.
“C’eravate anche voi. Zolder
Grave e Flora Perfume”,
riprese tornando a sorridere. “Ma ti prego, Yuuki, tramandate
anche un libretto
d’istruzioni nelle vostre reincarnazioni. Quei due si
azzuffano per ogni cosa,
si prendono in giro… mi auguro davvero che non sia il loro
modo di flirtare!”
Tornò a stringergli la mano.
“Avete dei caratteri così
estroversi. Ma sono sicura vi
ricorderete.”
Mai s’interruppe di nuovo, trovando
difficile proseguire.
Nel futuro, aveva trascorso giorni chiusa nella sua stanza, rifiutando
di
accettare che fosse successo davvero. Poi, dopo l’ennesimo
tentativo di Clarky
di portarla fuori, gli aveva urlato contro di tutto. E non si era
fermata,
aveva urlato e odiato tutti, da Barone, a Plym, a Zolder. Poi, quando
aveva
trovato il mazzo di Dan, l’aveva gettato a terra e aveva
gridato e gridato,
finché la voce era diventata roca e la gola aveva iniziato a
bruciarle. Perché
era colpa di Dan, del suo maledetto spirito di sacrificio, del suo
voler
proteggere tutto e tutti. Era crollata a terra e Clarky
l’aveva stretta mentre
piangeva.
Da quel momento, si era messa anima e corpo ad
aiutare
con la ricostruzione, almeno fino alla loro partenza, per non fermarsi
a
pensare. Per non farsi sopraffare da tutti i se,
da tutto quello che loro
avrebbero potuto fare di diverso. Non riusciva ancora a mettere a
tacere la
vocina, quella che le ricordava tutto quello che non aveva fatto.
“Clarky è rimasto nel futuro.
Ha trovato una casa. Si
è innamorato di una ragazza che abbiamo trovato ibernata in
una stazione
spaziale, Angers Lochè. Spero ne apprezzi anche tu
l’ironia”, aggiunse alla
fine ridendo nonostante gli occhi lucidi.
“Io, Kenzo e Hideto siamo tornati. Forse
riprenderemo
la nostra battaglia, passo dopo passo. Finiremo quello che tu e Dan
avete
iniziato. Dan-”, un singhiozzò le
impedì di proseguire e Mai si portò le mani
al viso, prendendo lenti respiri.
“Dan, non se n’è
andato. Si è sacrificato per salvare
la Terra, per salvarci tutti. Perché ovviamente, doveva
farlo lui, sempre in
prima linea. Se solo fossimo stati capaci di trovare un’altra
soluzione, Dan
sarebbe ancora qui.”
Tirò su con il naso e allungò
entrambe le mani a
stringere quella di Yuuki, nuovi rivoli di lacrime che le bagnavano le
guance e
un sorriso appena abbozzato, colmo di rimpianto e malinconia.
“Era tornato quello di un tempo.
Entusiasta,
determinato. Ma ci ha lasciato. E io lo sapevo già. Avevo
trovato una targa, in
un museo distrutto. 30 agosto 2010, il giorno in cui se ne persero le
tracce.
Il giorno in cui io l’ho
portato nel
futuro. Ci ho provato, Yuuki. Ma non sono riuscita a fermarlo, anche
sfidandolo
a Battle Spirits. Forse tu ci saresti riuscito a fermarlo. Sei
l’unico di noi
che sia mai riuscito a sconfiggerlo in duello.”
Chiuse gli occhi, trattenendo a stento un ulteriore
singhiozzo. “Era venuto per duellare, per vincere. Ed
è quello che ha
continuato a fare. Io sono stata in grado solo di stargli vicino, mi
sono
illusa che non sarebbe successo nulla, non con la sua determinazione.
Non anche
Dan. Dopotutto, non avevamo pagato già abbastanza?”
Si morse un labbro. “Non gli ho neppure
detto quello
che provavo. È stato lui a prendere l’iniziativa,
prima di quel maledetto
duello. Ti rendi conto, Dan!”, si passò le dita
sugli occhi e scosse la testa.
“Mi ha promesso che avremmo affrontato il passato insieme. E
io gli ho creduto.
Mi ero anche esercitata con il riso al curry.”
Portò di scatto le mani al volto, i
singhiozzi che non
riuscivano più a essere controllati. “No-non
è tornato.”
Pianse con i palmi premuti contro il viso, il petto
squassato dai singhiozzi e il respiro affannato. Non ne aveva mai
parlato così
apertamente, né nel futuro, né con Kenzo o
Hideto, neppure con sua sorella. Ma
lì, in quella stanza, con Yuuki che non poteva risponderle,
con Yuuki che,
fosse stato sveglio, sarebbe stato l’unico a capirla davvero,
era tutto così
facile.
“Io non ho fatto nulla. Non gli ho detto
che l’amavo,
non sono riuscita a impedire che scomparisse. Se solo ci avessi
provato, ma non
ci ho neppure tentato. Ho sentito un dolore così forte,
così lacerante. Credevo
non sarei riuscita a sopportarlo, che non sarei più riuscita
a muovervi. Come
avrei potuto, se mi sentivo il respiro strappato dal petto, se mi
sentivo
vuota, se mi sentivo il cuore infrangersi. E lo rivedevo,
all’infinito,
svanire, svanire, svanire. E io non ho fatto nulla.”
Mai abbassò la testa, i capelli che le
oscurarono il
volto coperto dalle mani. Pianse in silenzio, per minuti che parvero
ore,
lacrime calde che cercavano di lenire le ferite. Ma che non le
avrebbero
riportato Dan.
SPAZIO
AUTRICE:
Salve
a tutti! Secondo appuntamento con la versione rinnovata
dell’episodio
0. Anche questo capitolo è rimasto a grandi linee lo stesso,
ma sento di aver
migliorato e reso più forti alcune parti. Credo di aver
sviluppato meglio anche
il personaggio di Elisabeth e la sua backstory. Il nome completo di
Elisabeth è
quindi Reiko Elisabeth Nakano. Ovviamente, spetta a voi decidere se vi
piace di
più questa versione della storia oppure no.
Non credo di aver molto altro da aggiungere, se non ringraziare chi ha legge e chi troverà magari il tempo di lasciarmi due parole per dirmi cosa ne pensa.
Alla prossima settimana, HikariMoon