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Autore: lady lina 77    10/10/2018    3 recensioni
Una nuova fanfiction, una AU (che sarà molto lunga), che parte dal tradimento di Ross della S2. Cosa sarebbe successo se Elizabeth si fosse accorta prima di sposare George, della gravidanza del piccolo Valentine? Cosa sarebbe successo se avesse obbligato Ross a prendersi le sue responsabilità?
Una storia dove Ross dovrà dolorosamente fare i conti con le conseguenze dei propri errori e con la necessità di dover prendere decisioni difficili e dolorose che porteranno una Demelza (già incinta di Clowance) e il piccolo Jeremy lontano...
Una storia che, partendo dalla S2, abbraccerà persone e luoghi presenti nelle S3 e 4, pur in contesti e in modalità differenti.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Demelza Carne, Elizabeth Chynoweth, Nuovo personaggio, Ross Poldark, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tornato a Nampara col cuore a pezzi, la mente in subbuglio e una casa deserta da gestire, Ross aveva assunto due nuovi domestici, i coniugi Jane e John Gimlet. Non più giovanissimi, si erano comunque dimostrati da subito due persone affidabili, oneste, gran lavoratrici e soprattutto dedite alla pulizia e al senso del decoro. Molto diversi dai trasandati Paynter anche se Ross avrebbe pagato oro per riavere indietro quei giorni con loro, Demelza e Garrick...

Ma per il momento, i Gimlet erano una soluzione più che buona per lui e la sua vita casalinga.

Non era più tornato a Trenwith dal giorno in cui Demelza era partita e anche se questo rimordeva la sua coscienza per via del bambino in arrivo, era ben deciso a mantenere le sue posizioni a riguardo. Certo, Elizabeth aspettava suo figlio e a conti fatti, alla sua nascita, avrebbe provveduto al piccolo ma oltre a questo, non desiderava offrire nulla. Un suo eventuale ritorno a Trenwith non avrebbe giovato a nessuno e per quel bambino innocente la vita, con due genitori dai rapporti tanto logorati, sarebbe diventata un inferno. Meglio così, meglio lontani, non c'era nulla da salvare e nulla da ricostruire. Anche per Jeoffrey Charles questa era la soluzione ideale, lui che, suo malgrado, era stato costretto ad assistere a scene incresciose di liti furiose meritava la pace quanto il fratellino in arrivo.

E poi Ross sapeva a chi apparteneva il suo cuore e aveva deciso che non voleva più mentire a se stesso! Nampara era la sua casa e Demelza era la donna che amava e con cui aveva creato una vera famiglia. Il resto era una stupida, patetica farsa a cui si era piegato senza rendersi pienamente conto delle conseguenze.

Aveva sperato che Demelza tornasse ma non era successo e i mesi erano scivolati via velocemente senza che le sue ricerche dessero esito. Sembrava sparita nel nulla e la gravidanza di Elizabeth, agli sgoccioli e comunque complicata, gli impediva di partire per cercarla.

Anche se spesso, di sera, nel silenzio della sua stanza, si chiedeva come avrebbe reagito Demelza, se l'avesse trovata. In fondo, lui che poteva offrirle? Come poteva riottenere la sua fiducia e il suo amore? E il perdono? Si rendeva conto di aver sbagliato troppo, di aver passato il limite e spesso la consapevolezza di questo lo bloccava, spingendolo ad abbandonare il desiderio di riaverla. Demelza meritava di meglio di lui... E lui non meritava una persona speciale come lei...

Cosa poteva darle ora? Un futuro incerto, un figlio nato da un tradimento che sempre avrebbe ricordato ai suoi occhi il dolore che lui le aveva inferto, la presenza costante di Elizabeth fra loro e un matrimonio annullato...

Incertezza, dolore e nulla più.

Era condannato, si era condannato con le sue mani!

In quei mesi si era messo a lavorare come un pazzo, giorno e notte, in miniera. Il clima e i rapporti con Zachy e gli altri, da quando era tornato a Nampara, si erano fatti meno tesi e più cordiali anche se erano comunque lontani da ciò che c'era prima. Era difficile per quegli uomini, quasi quanto lo era per lui guardarsi allo specchio, conferirgli nuovamente piena fiducia e li capiva. Erano uomini nati nella miseria e cresciuti con fatica, che si spaccavano la schiena per la loro famiglia e per garantire ai loro cari un pasto e lui... lui era un uomo che aveva rinnegato la donna che lo aveva reso padre e una persona migliore, che gli aveva dato amore e una felicità che non era stato capace di apprezzare appieno finché non l'aveva perduta.

Aveva anche pensato, sporadicamente, al bambino che aspettava Elizabeth. Non riusciva a considerarlo suo e non riusciva a provare per lui o lei la trepidazione che aveva avvertito, pur da lontano, per la nascita del bambino avuto da Demelza a novembre.

Era suo figlio ma non se ne sentiva legato, anzi, era come se lo ritenesse un perfetto estraneo. Eppure sarebbe nato presto e, bene o male, avrebbe dovuto impegnarsi per crescerlo al meglio. Il che presupponeva che lui ed Elizabeth, prima o poi, avrebbero dovuto incontrarsi a metà strada per il bene del bambino. Non avrebbero mai potuto essere una famiglia ma dovevano sforzarsi di essere quanto meno buoni genitori per chi stava per nascere e non aveva chiesto di farlo.

Avrebbe dovuto imparare ad amarlo... Come amava Jeremy e il bimbo o la bimba avuti da Demelza, a cui pensava sempre con una fitta al cuore. Come aveva amato Julia...

E così, con quei pensieri e quella solitaria e nuova routine di Nampara, era arrivato febbraio e il 14, in una sera strana dove la luna si era tinta di nero come per magia e il mare e il vento erano diventati furiosi e tutti avevano gridato a un segno di cattivo presagio, dopo cena sentì bussare alla sua porta.

Era seduto davanti al camino, a fumare la pipa e a cercare di scaldarsi, quando Jane Gimlet andò ad aprire.

"Avete visite, signore".

Ross si voltò, incuriosito, appena l'ospite fu entrato in salotto. E sussultò. "Zia Agatha? Che ci fai quì a quest'ora, con questo tempo da lupi?".

La donna lo fissò e la sua aria era palesemente di rimprovero. "Non sarà una notte di luna nera a maledire la mia vita, a quasi cent'anni nemmeno il malocchio riesce più a toccarmi. E quindi nulla mi impedisce di recarmi da mio nipote a ricordargli i suoi doveri".

Ross si alzò di scatto, accompagnandola alla sedia per farla accomodare. "Zia, che ci fai quì?" - chiese, ancora. Agatha non usciva quasi mai da Trenwith e da anni era come diventata un tutt'uno con la casa.

La donna alzò un sopracciglio grigio. "Sai che mese è?".

"Febbraio".

"E cos'è successo nove mesi fa, a giugno?".

Ross si accigliò, ci pensò un attimo a poi impallidì. Era... Era già passato così tanto? "Vuoi dire che...?". No, non era pronto, non ancora!

Agatha si rialzò subito dalla sedia. "Voglio dire che ti devi sbrigare, venire con me sulla carrozza e tornare a Trenwith. Tuo figlio sta per nascere, è da stamattina che Elizabeth è in travaglio e il dottor Choake sta combattendo contro un parto complicato. Mi auguro che almeno per la nascita e per ogni necessità, tu non vorrai mancare!".

A Ross venne la pelle d'oca. Il bambino stava per nascere! Santo cielo, stava per diventare tutto reale... Guardò Agatha, soppesò le sue parole e gli sembrò ironico che lei, come Elizabeth, ritenesse che lui dovesse assistere alla nascita del bambino quando entrambe, pochi mesi prima, avevano fatto di tutto per impedirgli di stare accanto a Demelza quando era stata lei a partorire. Ma non era il momento di recriminare... Prese il cappotto, il tricorno, disse a Jane e John che stava uscendo e che non sapeva quando sarebbe tornato e poi prese Agatha sotto braccio, scortandola alla carrozza. In fondo aveva ragione lei, doveva esserci! Esattamente come avrebbe dovuto esserci a novembre, per Demelza...

Aveva sbagliato una volta e non avrebbe ripetuto quell'errore. Non lo faceva per lui o la sua coscienza, non lo faceva per Elizabeth. Lo faceva per il bambino, perché non vivesse sulla sua pelle di neonato la stessa ingiustizia che aveva inflitto a un altro suo figlio.

Uscirono fuori, il vento era furioso e la notte oscura e minacciosa, come la luna ormai completamente nera. Non aveva mai visto nulla del genere e sì, non aveva mai avuto paura di molte cose nella sua vita ma quel cielo riusciva a farlo tremare. "Hai mai visto qualcosa di simile, zia?" - chiese, salendo sulla carrozza.

"No".

"Cosa potrebbe voler dire?".

Agatha scosse la testa. "Cattivi presagi? La luna nera non porta mai a nulla di buono e questa notte nascerà quel povero bambino...".

"Sono solo superstizioni!" - tagliò corto lui. Non voleva sentire altro! In quel marasma, ci mancavano solo i foschi presagi di Agatha!

Giunsero a Trenwith mezz'ora dopo, coi cavalli resi nervosi da quella strana notte.

Ross aiutò Agatha a scendere dalla carrozza e poi, dopo tre mesi che vi mancava, rientrò a Trenwith.

Un via vai incessante di cameriere e domestici lo accolse e tutto sembrava concitato e nervoso. Fermò una domestica, una giovane dal viso a lui sconosciuto che doveva aver iniziato a lavorare lì da poco e, assieme a zia Agatha, le chiese informazioni. "Elizabeth? Il bambino è nato?".

"Voi chi siete?".

Agatha intervenne. "E' il futuro padre".

"Oh, scusate signore". La ragazza, arrossendo, scosse la testa. "Non è ancora nato. La signora è stremata, sta perdendo tanto... troppo sangue e il dottor Choake sembra davvero preoccupato. Stiamo facendo tutti del nostro meglio per assisterla".

Ross impallidì mentre sentiva nelle orecchie le urla di Elizabeth. Santo cielo, che stava succedendo? Anche in quello, lui ed Elizabeth avrebbero pagato il prezzo di quella loro notte folle? Pregò che tutto andasse bene, per il bambino e per Jeoffrey Charles. E per lei che, anche se si era rivelata il più grosso errore della sua vita, era stata un suo grande affetto, era giovane e aveva una vita davanti.

Il piccolo Jeoffrey Charles sbucò dal salone del pianoforte, col muso lungo e l'espressione corrucciata. Lo fissò e in lui non vide nulla dell'affetto di un tempo. Poteva capirlo, aveva abbandonato sua madre e l'aveva fatta soffrire, Jeoffrey Charles non aveva torto. "Ciao..." - disse solo.

Il bimbo girò il viso di lato. "Mamma sta male, per colpa tua e per colpa di quel cavolo di fratellino che deve nascere!".

"Mi dispiace" – sussurrò, sfiorandogli la spalla. Ma Jeoffrey Charles si ritrasse e poi, singhiozzando, si rifugiò fra le braccia di Agatha.

E in quel momento, dopo un urlo violento di Elizabeth che fece tremare i vetri della casa, si sentì il pianto vigoroso di un neonato.

Tutti sussultarono, guardandosi speranzosi e allo stesso tempo spaventati.

Agatha alzò lo sguardo verso le scale. "Finalmente..." - disse, con la voce che però tradiva una certa preoccupazione.

Ross deglutì. Il pianto di un neonato... Il pianto di suo figlio... E lui, santo cielo, non provava la gioia profonda che aveva sentito con i figli di Demelza. E ora che doveva fare? Salire? Conoscere il piccolo? Cosa doveva dire ad Elizabeth? Provava solo confusione ma non quella dettata dalla gioia incontenibile di essere diventato padre. Era una confusione oscura, un sentirsi inadeguato e fuori posto, in colpa... Non era quello che voleva, non voleva diventare padre di un figlio così, come succede ad altri uomini che tradiscono la donna che li ama senza nessun rimorso. Eppure eccolo, era nato... Il simbolo perpetuo del suo fallimento come uomo, marito e padre, era lì.

Il dottor Choake scese dalle scale, trafelato. Aveva il viso paonazzo, era sudato e pareva aver finito un turno di dodici ore in miniera a picconare. "Signor Poldark, per fortuna siete quì!" - esclamò.

Ross gli strinse la mano, nonostante non provasse alcuna simpatia per lui. "Vi ringrazio per quello che avete fatto, so che è stato complicato e lungo".

Choake guardò Agatha, chiedendole di portare via Jeoffrey Charles. E appena furono soli e l'anziana donna si fu allontanata col bambino, scosse la testa. "Andate di sopra, fate in fretta".

"Perché?".

"La signora deve parlavi e forse non ci sarà molto tempo".

Ross lo guardò, non capiva ma il suo sesto senso gli suggeriva che qualcosa non andava. "Che volete dire?" - chiese, ripensando ai foschi presagi sulla luna nera di cui gli aveva parlato Agatha poco prima.

Choake scosse la testa. "Ha perso molto sangue, ci sono lesioni interne che favoriscono continue emorragie che non riesco a fermare. Ho già visto questo genere di cose e non portano a nulla di buono per la vita della madre. Andate da lei, io verrò subito. La stanno assistendo delle domestiche, per ora, che stanno facendo anche il bagno al bambino. E' un maschio apparentemente in salute e di questo devo congratularmi con voi".

Un maschio... Elizabeth che stava forse per morire... Santo cielo, era troppo! Era tutto troppo e doveva essere stato un uomo orrendo per meritarsi una cosa simile!

Corse per le scale, con la stessa disperazione di nove mesi prima quando aveva distrutto la sua vita, quella di Elizabeth e di tutte le persone che gravitavano attorno a loro.

Entrò nella stanza col fiato corto, le cameriere stavano portando via con delle ceste delle lenzuola impregnate di sangue ed Elizabeth era a letto, bianca come un cencio, senza forze, con le labbra violacee e i capelli sfatti e mosci sparsi sul cuscino. Sembrava un fantasma e gli si contorse il cuore nel vederla così, lei da sempre tanto bella e irraggiungibile. L'aveva amata e poi odiata negli ultimi mesi ma MAI le avrebbe augurato del male.

Si avvicinò, oltrepassò la culla col bambino non degnandola di uno sguardo e le prese la mano. "Elizabeth...".

Lei aprì gli occhi, a fatica. "Ross... sei venuto allora?".

Le sorrise, aveva la voce flebile come quella di un uccellino e il fiato corto. Gli ricordava Julia e sua madre, nei loro ultimi istanti di vita. "Come ogni padre dovrebbe fare". Non voleva essere un rimprovero, non in quel momento ma l'allusione al parto di Demelza era palese.

Elizabeth abbassò lo sguardo davanti a quelle parole. "Lo amerai? E' un bellissimo bambino, ti somiglia...".

"Farò del mio meglio".

"Lo devi amare, sei suo padre e avrà solo te!".

Le strinse la mano, forte. "Non dire così. Presto starai bene".

Elizabeth sussultò, colta come da uno spasmo e in un attimo la coperta divenne rosso sangue, di nuovo.

Una cameriera corse al suo capezzale, con una coperta pulita. Tolse quella sporca e Ross vide che la camicia da notte di Elizabeth era inzuppata di sangue vivo che continuava a sgorgare. Quella visione gli fece venire le vertigini...

Santo cielo, era terribile, cosa poteva fare? "Guardami e non dormire! Non chiudere gli occhi, passerà!" - la implorò, vedendola come perdere i sensi.

Lei riaprì le palpebre, a fatica. "Non volevo che tu mi odiassi... Volevo solo avere una famiglia felice...".

"E' passata" – mentì lui anche se la disillusione per quell'antico e utopistico amore era ancora ben viva nella sua mente ed Elizabeth lo sapeva.

Lei sorrise. "Mentire non ti riesce bene, sai Ross?".

Lui sospirò, accarezzandole i capelli. "Sono molte le cose che non so fare bene, l'ho scoperto nell'ultimo anno".

Lei lo guardò, il suo sguardo vacuo e lontano. I suoi occhi sembrarono diventare di gelatina e trasparenti... "Valentine...".

"Cosa?".

"Il piccolo si chiama così. Valentine, come il Santo di oggi. Mi piace tanto questo nome. Se fosse stata una bimba, avrei voluto chiamarla Ursula, vuol dire piccola orsa, sarebbe stato adatto a una Poldark. Ti piacciono?".

Annuì per farla contenta, il nome del bambino era l'ultimo dei suoi pensieri. "Tanto".

"Valentine Poldark" – sussurrò Elizabeth, in un soffio, quasi assaporando la dolcezza di quel nome sulle sue labbra.

E poi, silenziosa come un uccellino, spirò.

Ross non riuscì a fare nulla, a soccorrerla, a chiamare il medico. Morì tanto rapidamente che anche le domestiche rimasero gelate e immobili, come la morte che si era appena portata via quella giovane donna.

Poi tutto divenne nero, ovattato. I suoni, le grida delle cameriere, il calpesticcio di passi che correvano, le imprecazioni del dottor Choake e il pianto di Jeoffrey Charles e di Agatha sembrarono lontani da lui. Era circondato da persone e si sentiva distante da tutto e tutti...

Come un automa, si avvicinò alla culla.

Lui, Valentine, era lì. Coi suoi capelli neri, il faccino tondo e la fronte alta come la sua, era il figlio che più gli somigliava, probabilmente.

La sorte sapeva essere crudele e ironica, pensò...

Eccolo, la prova vivente dei suoi errori, del suo fallimento. Era lì, nelle vesti di un bambino bellissimo la cui madre, per dargli la vita, si era privata della sua di vita.

Suo figlio, il bimbo concepito in una notte maledetta e nato in una sera di luna nera, qualsiasi cosa significasse tutto ciò...

Lo prese in braccio, avrebbe dovuto imparare ad amarlo, ora più di prima. Elizabeth era morta, non poteva più fingere che il problema non esistesse e ora doveva diventare davvero uomo. Non poteva relegare a nessuno il suo ruolo di genitore! Valentine aveva solo lui e non poteva pagare per le colpe di altri...

Lo cullò fra le braccia, lo baciò sulla fronte e decise che lo doveva ad Elizabeth e a quel bambino, oltre che alla sua coscienza. Lo avrebbe portato a Nampara, si sarebbe preso le sue responsabilità e lo avrebbe cresciuto come meglio poteva, onorando giorno dopo giorno il debito con la sua coscienza macchiata dalla colpa e dal disonore. E avrebbe imparato forse ad amarlo come ogni padre col proprio figlio, col tempo.

"Valentine..." - sussurrò.

E il bimbo spalancò due grandi occhioni neri su di lui. Anche quelli erano uguali ai suoi.

  
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