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Autore: ___Page    12/10/2018    4 recensioni
Era la sua panchina e quella sconosciuta gli aveva chiesto di condividerla.
Era iniziata esattamente così, niente di più, niente di meno.
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*Questa storia partecipa alla Challenge delle Parole Quasi Intraducibili (FairyPiece version) organizzata dal forum FairyPiece – Fanfiction & Images*
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Koala, Penguin, Trafalgar Law
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Iktsuarpok: 
l’attesa provata per qualcuno che spinge a controllare continuamente se la persona sia finalmente arrivata; la frustrazione che si prova quando si aspetta qualcuno che è in ritardo. (Inuit)

LA PANCHINA
*Capitolo 1*



 
"Se vieni sempre alle quattro del pomeriggio, alle tre io già comincerò ad essere felice. Più si avvicinerà il momento, più mi sentirò felice. Alle quattro comincerò ad agitarmi e sarò in apprensione; scoprirò allora qual'è il prezzo della felicità! Ma se tu vieni quando ti pare, non saprò mai quando preparare il mio cuore… c'è bisogno di riti."
(Il piccolo principe - Antoine de Saint-Exupéry)




 

 
­­«Posso sedermi? È il mio posto»
«Non vedo come sia possibile, trattandosi di una panchina pubblica in un parco pubblico»
«Ah io… io intendevo che mi siedo sempre qui. Sono nuova nel quartiere e sto cercando di ambientarmi. Allora, posso?»
 
Era iniziato tutto così, con una sconosciuta che gli chiedeva di sedersi sulla sua panchina. Oddio, sua.
Law non era tipo da usare gli aggettivi possessivi per cose che non avesse acquistato o non si fosse guadagnato. Tutto ciò che si trovava nell’appartamento dove viveva, al 104 di Flevance Street, era suo, gli attestati che arredavano il muro dello studio della clinica, al numero 85 di Colosseum Plaza, proprio di fronte al parco, erano innegabilmente suoi, la submarine gialla che richiedeva l’uso di un montacarichi ogni volta che c’era da cambiare la marcia era sua e tutti i dvd che, uno dopo l’altro, erano finiti a casa di Pen, anche quelli erano suoi, checché il suo migliore amico dicesse.
Ma per tutto ciò che era astratto o sentimentalmente condizionato, gli aggettivi possessivi non esistevano nel vocabolario di Trafalgar Law. Era un solitario, lui, e, si sa, per i solitari i legami non strettamente materiali sono solo un peso.
Ma per Law il risparmio articolatorio era importante tanto quanto il corretto utilizzo degli aggettivi possessivi e “la sua panchina” era più rapido di “la panchina dove si sedeva sempre a passare la pausa pranzo nel parco di fronte alla clinica”. Quindi insomma sì, in quel senso quella era la sua panchina e quella sconosciuta gli aveva chiesto di condividerla.
Era iniziata esattamente così, niente di più, niente di meno.
Si era accomodata e, con sommo sollievo del dottore, aveva tirato fuori un libro e si era messa a leggere. Un paio di occhiate a lui e ai bambini che giocavano poco distanti erano state le uniche distrazioni che si era concessa dalla lettura, almeno finché Law non si era alzato per tornare al lavoro.
 
«Buona giornata e grazie dell’ospitalità!»
 
Si era limitato a un cenno della mano, senza nemmeno voltarsi. Non l’avrebbe rivista più e non l’avrebbe comunque saputa riconoscere, non l’aveva quasi guardata in faccia. E non l’avrebbe infatti riconosciuta se la scena non si fosse ripetuta identica il giorno successivo.
 
«Posso sedermi?»
 
Law annuiva, lei estraeva il libro e smetteva di leggere solo per salutarlo quando se ne andava. I “posso sedermi?” si erano trasformati in “buongiorno” e i “buongiorno” in “ciao”.
Arrivava, si sedeva, tirava fuori il libro e leggeva. Arrivava, sempre cinque minuti dopo di lui – e Law sospettava si fermasse cinque minuti ancora dopo di lui – e a Law dava fastidio sapere con matematica precisione che arrivava cinque minuti dopo di lui, perché questo significava che aveva iniziato a controllare l’orologio non appena posava le terga sulla panchina.
Arrivava cinque minuti dopo di lui e leggeva. Se li divorava, i libri. Solo nelle prime due settimane le aveva visto girarsi per le mani cinque titoli diversi. 
 
«Tu vivi qui?»
«Ci lavoro»
«Ma dai? Qui vicino?»
«La clinica di fronte»
«Quindi sei un medico, immagino»
 
Sorrideva sempre. Anche quando lui grugniva e continuava caparbiamente a fissare dritto di fronte a sé, per negare almeno a se stesso di averle lanciato un’altra occhiata furtiva, negare di aver notato come la sfumatura viola nei suoi occhi blu risaltasse grazie alle ciocche caramello che, sbarazzine, le incorniciavano il viso pulito. Lei sorrideva sempre.
Law sapeva che sarebbe arrivata cinque minuti dopo di lui con un sorriso sul volto e, quando si sedeva sulla panchina, controllava l’orologio fingendo che fosse solo un gesto meccanico e abituale e non l’impazienza dell’attesa.
 
«E oggi com’è andata?»
«Credo di aver salvato la vita a un bambino»
«Credevo che fossi un cardiologo»
«Infatti. Ma il mio migliore amico, Pen, è un pediatra e ho consigliato alla madre di cambiare medico»
«Ommiodio. Era una battuta quella?!»
 
Per Law la pausa pranzo era sempre stata una perdita di tempo, quell’ora nella sua giornata in cui non aveva modo di fare nulla di costruttivo. Era tempo buttato e l’aveva sempre odiata.
E ora, invece, l’aspettava con trepidazione, o così aveva osato insinuare Sabo, in un chiaro desiderio di morire giovane e in modo pittoresco, anche.
Figuriamoci. Lui che aspettava la pausa pranzo. Che assurdità. Il fatto che arrivate le 13.05 iniziasse a controllare compulsivamente l’orologio ogni tre minuti non significava che aspettasse la pausa pranzo, con o senza trepidazione che fosse.
Lui non aspettava nessuna pausa pranzo.
 
«Sei in ritardo»
«Ahhh no! Sono le 13.40 in punto. O il tuo orologio è avanti o tu sei arrivato prima»
 
Arrivava cinque minuti esatti dopo di lui, si sedeva, estraeva il libro.
 
«Devi aiutarmi a ritrovare dove ci eravamo fermati, stamattina mi è scivolato fuori il segnalib… che hai da guardarmi così?»
«Ti rallento. Leggevi due libri a settimana all’inizio»
«Ma non dire sciocchezze! Mi piace leggere ad alta voce per qualcuno, lo sai. E tu sei un ascoltatore molto attento, dottor Trafalgar, dai un sacco di soddisfazione»
«Non chiamarmi così»
«No? Ma Dottor Law sembra il nome di un supereroe vendicatore dei fumetti»
 
Ma lui non aspettava nessuna pausa pranzo, non aspettava nessuno.
Al massimo, con trepidazione, aspettava il lunedì per tornare al lavoro, dopo l’ennesimo weekend passato a relazionarsi con insulsi esponenti del sesso femminile, dalla mente frivola e parlantina meccanizzata per rimorchiare, per… per cosa poi? Non aveva rapporti occasionali da settimane, ormai.
Ma questo non c’entrava niente con la ragazza della panchina perché lui, Trafalgar Law, non aspettava nessuno e di nessuno aveva bisogno. Stava benissimo da solo. E senza pausa pranzo.
 
«Ma sei serio?»
«Serissimo»
«Ma glielo chiede la volpe!»
«La volpe non sa cosa gli sta chiedendo. Fidati, è una metafora del potere distruttivo dei legami e dell’amore. Scegliere qualcosa che sai già che ti farà soffrire è contro natura, quello è il significato»
«Io non… non ci posso credere. Hai appena rovinato uno dei passaggi letterari più belli di sempre e la mia infanzia! Non ridere!»
  
E non c’entrava niente con la pausa pranzo e nemmeno con la ragazza della panchina, il fatto che, quando si accorse che erano le 13.20, nel lanciare un’occhiata all’orologio della sala d’aspetto dove stava mettendo via dei faldoni, il suo stomaco prese a ballare il mambo.
«Quasi pronto per il parco?» ghignò Pen, passandogli alle spalle dietro il bancone della segretaria già in pausa, per recuperare un blocchetto per fatture.  
«No, oggi smonto prima. Avevo solo tre appuntamenti dopo pranzo e li ho spostati. Pomeriggio libero, vado adesso» comunicò mentre apriva l’anta dove tenevano il guardaroba e recuperava il proprio cappotto. «Penso che leggerò»
Certo, come no?
«Che c’è?» Law scrutò l’espressione basita dell’amico.
«Tu…» gli puntò contro l’indice. «…tu, proprio tu, hai preso il pomeriggio libero e hai intenzione di usarlo per leggere?»
In tanti anni Law non era mai andato via dalla clinica prima dell’ora di chiusura, a volte ci si fermava anche dopo per finire le scartoffie e quando non aveva appuntamenti trovava sempre qualcosa da fare, qualcosa che non era in alcun modo classificabile come passatempo, non importava come la si mettesse e quanto Law insistesse che per lui sistemare l’archivio cartaceo in ordine crono-alfabetico fosse rilassante. E ora, andava a casa prima per leggere?!
«Sì. C’è qualche problema?» sollevò un sopracciglio.
A parte che sappiamo benissimo che non leggerai niente e ti logorerai ad aspettare che sia domani per vedere se è torn…  
Con un cenno secco del capo, Law mise a tacere la propria voce interiore. «Io vado» annunciò freddo, superando l’amico senza un saluto, arrabbiato non con lui ma con se stesso. E con lei.
Lei che da tre giorni non si faceva più vedere. Lei che era scomparsa così com’era apparsa. Lei che lo aveva lasciato ad aspettare su quella panchina. E lui aveva pure aspettato. Da bravo cretino aveva aspettato, con continue occhiate all’orologio, alla strada da cui arrivava di solito, ai passanti che sembravano osservarlo e deriderlo. Aveva aspettato, che cosa non lo sapeva neanche lui.
Una perfetta sconosciuta che leggeva ad alta voce per lui, sulla sua panchina nel parco di fronte alla clinica dove lavorava. Una perfetta sconosciuta che era arrivata ogni giorno alla stessa ora, spaccando il secondo, che lo aveva abituato a quel rito.
Addomesticato, ti ha addomesticato.
Una perfetta sconosciuta che non avrebbe rivisto mai più. 
Infilò le mani in tasca e tagliò rapido per il parco, diretto alla metro, senza degnare di un solo sguardo la panchina. Che senso avrebbe avuto? Tanto lei non ci sarebbe stata e in ogni caso era troppo presto, erano le 13.28, era troppo presto, e stavolta no, non avrebbe fatto la figura del fesso, non si sarebbe giocato il proprio benessere mentale in attesa di qualcosa che, tanto, comunque non sarebbe succ…
«Etciù!»
«Salute» strascicò istintivamente Law, girandosi appena per poi, fatti altri due passi, bloccarsi e voltarsi di nuovo, completamente questa volta. Completamente verso la panchina, completamente verso di lei.
Verso di lei seduta sulla loro panchina, da chissà quanto, esattamente al posto che le apparteneva, là dove appariva così giusta, così giusta ai suoi occhi. Giacca pesante, mani in tasca, corpo scosso dai tremiti, occhi lucidi, guance rosse, sciarpa fino al naso.
Law tornò indietro quasi correndo e si sedette al proprio posto, studiandola attento.
«Koala» la chiamò piano e altrettanto piano lei si girò.
Era una perfetta sconosciuta. Una perfetta sconosciuta che in quattro settimane scarse aveva visto lati di lui che Law non aveva mai mostrato nemmeno a Sabo e Pen, non spontaneamente. Una perfetta sconosciuta che gli faceva attendere con trepidazione la pausa pranzo, la cui assenza lo mandava ai pazzi.
Solo una perfetta sconosciuta, con un’influenza da cavallo.
«Ehi ciao…» sorrise con gli occhi.
Law portò due dita sulla sua fronte per trovare conferma al proprio sospetto. Scottava.
«Cosa fai in giro con l’influenza?»
«Mi serviva una boccata d’aria» si strinse nelle spalle. «Sono stata tappata in casa tre giorni, ero stufa»
«E hai pensato di uscire con cinque gradi e la febbre a, minimo, trentanove?» la rimproverò, perché era un medico dopotutto, era il suo lavoro, non perché fosse preoccupato o chissà che. Che avrebbe avuto da essere preoccupato per una perfetta sconosciuta?
«Così vado in compensazione» provò a scherzare lei ma Law la fulminò con un’occhiata.
«Koa…»
«Volevo vederti» Koala abbassò gli occhi alle proprie ginocchia, senza smettere di sorridere. «Non sapevo come contattarti, ho pensato di chiamare in clinica ma che avrei potuto dire? “Sono la ragazza che condivide la panchina con Law nella pausa pranzo, potete dirgli che oggi non ci sono perché sono malata”?» rise rauca delle sue stesse parole. «Fino a ieri non riuscivo neanche ad alzarmi dal letto. E sono tre giorni che non leggo niente. Credo che… che tu mi sia mancato?» rialzò gli occhi lucidi, non solo di febbre e Law, che ne aveva sempre dubitato, scoprì in quel momento che il suo cuore funzionava alla perfezione e perdeva battiti quando era perfettamente normale che li perdesse. «E poi mi è venuto il dubbio che potessi pensare che non volevo più vederti e non potevo risch…» Law ebbe un brevissimo, impercettibile attimo di panico, il tempo di un respiro, quando Koala precipitò in avanti con il busto, e allungò le braccia per afferrarla e trascinarsela contro al petto.
Le passò un braccio dietro alle ginocchia e, tenendosela addosso, si mise in piedi deciso.
«Dove abiti?»
«C-come?»
«Il tuo indirizzo, Koala»
«Il 21 di Acacia street. Ma cos…»
Law prese a camminare nella direzione da cui la vedeva sempre arrivare. «Andiamo da te. Oggi è il mio turno di leggere»
Koala spalancò gli occhi e sorrise, mentre alzava una mano per aggrapparsi al bavero del cappotto di Law. «Da me? Dottor Trafalgar, non siamo un po’ poco in confidenza per questo?»
Le mani di Law strinsero la presa. «Sono un medico. È il mio lavoro»
Abbastanza.
«Non so se riesco a restare sveglia…» ammise Koala mentre la mano le scivolava giù fino a posarsi sul suo stesso grembo.
Law alzò appena il mento per far scivolare il capo di Koala contro la sua gola, mentre le palpebre della ragazza si chiudevano inesorabili. «Allora dormi» sussurrò.
Ci penso io a te.
Aveva aspettato abbastanza.
Law aveva una ben precisa opinione riguardo l’uso degli aggettivi possessivi e non gliene fregava niente se non erano passate nemmeno quattro settimane.
Aveva avuto pazienza, aveva aspettato, se l’era meritata.
Lei era sua.
E, per poterlo dire, aveva decisamente aspettato abbastanza.
 
 
 
 
 
 
  
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