Buon
compleanno
Quando si svegliò,
Jakob non capì subito dove fosse. La stanza era diversa.
Forse perché non era
la sua stanza? Eh, già, era la camera di Wolfrun e lei
dormiva sdraiata accanto
a lui. Si erano addormentati.
Guardò la finestra.
Era quasi mattina, infatti il cielo era più chiaro e la
stanza meno buia. Si
alzò piano per tornare in camera sua.
Chissà cosa avrebbe
detto suo padre, se lo avesse saputo. Stava per aprire la porta quando
si voltò
di nuovo verso il letto.
Wolfrun era
rilassata nel sonno, gli occhi chiusi, il viso disteso, le labbra
semiaperte.
Non resistette. Non lo avrebbe mai saputo nessuno. Si
avvicinò e la baciò sulle
labbra. Lei si mosse e sorrise. Ma continuò a dormire.
Perse ancora qualche
secondo a guardarla e poi uscì.
***
“Wolfrun!”
Una piccola furia di
sei anni le saltò addosso, sul letto. Anneke, in camicia da
notte, saltava sul
materasso, cantandole una canzoncina inventata. Wolfrun si
tirò su di colpo,
ricordandosi della sera prima. Si guardò intorno, ma lui non
c’era. Doveva
essersene andato appena lei si era addormentata. Non se n’era
resa conto.
Guardò il comodino dove aveva appoggiato il suo regalo:
c’era davvero. Non
l’aveva sognato.
La bambina si
accucciò sulle sue gambe e l’abbracciò
stretta. Sorrise e ricambiò la stretta.
Anneke, la sua piccola Anneke.
“Non hai la camicia
da notte!” le fece notare la bambina.
Eh, no. Aveva il
vestito del giorno prima e anche il golfino.
“Vai a lavarti. Così
facciamo colazione” liquidò la sua domanda. La
piccola annuì.
Quando furono pronte
per la colazione, sentì Sebastian spaccare la legna nel
piccolo giardino sul
retro, quando attraversarono il soggiorno ed entrarono in cucina.
Eleni stava
preparando il tavolo e sorrise alle ragazze, indicando a Anneke il suo
posto.
Sentirono Clara
piangere dalla cameretta. “Vado io” disse la
ragazza, lasciando che Anneke si
sedesse per la colazione. Eleni la ringraziò e le disse che
sarebbe andata al
mercato.
“Ci vado io, al
mercato, dopo colazione” urlò Wolfrun
dall’altra stanza.
Jakob entrò in casa
in quel momento. La sua giornata già guastata da quello
scambio di
informazioni: al mercato c’era Georgos.
Vide Anneke versarsi
il latte dalla bottiglia con difficoltà e
l’aiutò, ma la piccola mise il
broncio e brontolò: “Ci riesco. Sono
grande!”
Jakob sospirò
pensando che sarebbe presto diventata cocciuta come Wolfrun.
“La bottiglia è più
grande di te. Ti ho solo aiutato…” La piccola gli
mostrò la lingua.
“Anneke? Non devi
dire niente?” Wolfrun era apparsa sulla soglia della cucina
con in braccio Clara.
Anneke sbuffò e disse malvolentieri: “Grazie,
Jakob”.
Anneke ubbidiva solo
a Wolfrun. E Wolfrun ubbidiva solo ad Anneke. Un’idea gli
attraversò la mente.
Guardò verso la ragazza che tornò verso le camere
per cambiare la piccola.
Forse…
“Anneke, facciamo un
gioco?” chiese alla bambina mentre si sedeva. Lei
annuì intingendo il pane nel
latte.
Più volte sentì
addosso lo sguardo severo di Eleni, mentre facevano colazione, ma Jakob
fece
finta di niente.
Wolfrun tornò in
cucina, con una Clara sorridente e pulita, e sentì
indistintamente Anneke
gridare: “Berlino!”
Si irrigidì. Cosa
stava succedendo? Guardò Eleni, che ricambiò il
suo sguardo corrucciato e poi
si voltò a guardare Jakob. Ma lui non la guardò.
Giocava con Anneke. O forse,
la stava monopolizzando.
Mentre faceva sedere
Clara sulla sedia alta, notò che la bambina seguiva il
ragazzo con attenzione e
nominava più volte la città tedesca.
“Anneke? Cosa…” La
bimba si voltò sorridente verso di lei ed
esclamò: “Voglio vedere Berlino!
Voglio salire sul Pegaso!”
La ragazza lanciò
un’occhiata, una brutta occhiata, a Jakob. Prese una fetta di
pane dal tavolo e
quasi ordinò alla bambina: “Vieni al mercato con
me”. Sebastian entrò in casa
in quel momento, con tre ceppi di legna per la stufa della cucina.
“Vengo con voi”. Jakob
si alzò, autoinvitandosi per la passeggiata.
“No, tu non vieni”
ordinò Wolfrun. Lo guardò e sperò che
lui non le chiedesse nient’altro.
Altrimenti non sapeva come avrebbe reagito.
Si avviò con Anneke
fuori dalla porta senza salutare nessuno.
“Che è successo?”
Sebastian guardò la moglie.
Eleni indicò Jakob
con il capo, senza dire niente. L’uomo si voltò
verso di lui. Ma Jakob non
resse lo sguardo del padre.
“Che è successo?”
richiese. Il ragazzo scosse le spalle, mentre metteva davanti a Clara
una
ciotola di latte. Tolse la crosta da una fetta di pane e la diede alla
bambina
che iniziò a fare colazione. Poi si alzò, le fece
una carezza sulla testa e
uscì di casa.
Sebastian si sedette
alla sedia lasciata libera dal ragazzo e aiutò sua figlia a
mangiare.
“Tu sai cos’è
successo?” chiese a Eleni.
“Tuo figlio è un
egoista”. Di poche parole, Eleni. Sempre. E sempre giuste.
L’uomo annuì. Aveva
avuto il sospetto anche lui.
“Cos’ha fatto?”
Eleni si sedette con
loro a mangiare e raccontò quello che era successo a tavola.
***
“Non puoi salire sul
Pegaso. Sei troppo piccola” disse Wolfrun mentre camminava
verso la piazza del
mercato. Ma la bambina era tosta. Era cresciuta con lei. E poi era in
quella
fase io sono grande. Avrebbe dovuto
dire qualcos’altro.
“Ci sono già stata,
sul Pegaso. Ed ero più piccola di adesso.”
Sospirò. Vide i
primi banchi all’orizzonte. “Perché vuoi
andare a Berlino?” le chiese. Avrebbe
ucciso Jakob. Quella sera stessa. Nel sonno. No, non nel sonno. Doveva
soffrire
un po’. Un bel po’.
La piccola alzò le
spalle, dicendo: “È la città dove sono
nata”.
La ragazza si fermò.
“E chi te l’ha detto?”
Anneke si voltò
verso di lei inclinando la testa. “Me l’ha detto
Jakob. È una bugia?” Scosse la
testa.
“Non è una bugia, è
vero, sei nata a Berlino. Ma adesso non c’è niente
da vedere, lì.”
“E perché Jakob ci
va, allora?” Beati i sei anni dei bambini. Cosa rispondere?
Che andava a
Berlino perché c’era Christa? Christa. Christa che
aveva camminato sui… Wolfrun
scosse la testa e scacciò quel pensiero.
“Ci va perché ha dei
ricordi e delle persone che conosce. Va a trovare loro”
rispose, Riprendendo a
camminare e si fermò davanti al banco del pesce.
“Però mi piacerebbe
vedere Berlino” sussurrò la piccola. La bambina
osservava un pesce che la
fissava a sua volta con occhi morti.
La ragazza si
accucciò vicino a lei e le chiese, spostandole una ciocca di
capelli: “Non ti
ricordi di Berlino?” Anneke scosse la testa.
Maledetto Jakob. Non
l’avrebbe mai perdonato. “Ok. Va bene. Andiamo a
Berlino”.
Non avrebbe lasciato
Anneke da sola. E lui lo sapeva bene. Per questo aveva fatto leva sulla
bambina. Anneke sorrise.
“Prendiamo il pesce
per cena?” chiese, ma Wolfrun scosse la testa.
Il pesce potevano
pescarlo direttamente nel mare. O nel fiumiciattolo che c’era
vicino al
boschetto. Lo aveva fatto per un sacco di tempo, a Berlino,
pensò un po’
stizzosa. Poteva farlo ancora. E sarebbe stata fuori di casa per buona
parte
del giorno. Si pentì di non aver preso su l’arco e
le frecce.
***
“Siamo
tornate!”
gridò la bambina quando aprirono la porta. Wolfrun
portò il pesce in cucina da
Eleni e Anneke corse sul tappeto verso Clara, seduta a giocare con dei
giocattoli di legno.
“Stai bene?” Eleni
non si faceva ingannare da niente, ma la ragazza annuì con
il capo senza dire
una parola.
Quando tornarono a
casa, nel pomeriggio, Eleni sospirò sollevata. Non che si
fosse aspettata che
la ragazza sparisse dall’isola, ma aveva un brutto sguardo
quando era uscita
dalla porta e lei aveva avuto il sospetto che non sarebbe tornata
presto.
Per fortuna portarono
due gran sorrisi e una decina di pesci da cucinare sul fuoco. Sarebbe
stata una
bella cena. Avrebbe potuto pelare carote e patate e sarebbero stati
tutti sazi,
pensò mentre infornava la torta.
***
A cena, quella sera,
Sebastian tirò fuori una bottiglia di vino da dessert dalla
credenza. Fino a
quel momento, avevano festeggiato i compleanni così. I
compleanni degli adulti.
E ora Jakob era un adulto.
“Oggi è il
compleanno del miracolo” disse e appoggiò la
bottiglia sul tavolo sorridendo
orgoglioso al figlio.
Wolfrun era ancora
arrabbiata con il ragazzo, che dall’altro lato del tavolo le
sorrise. Avrebbe
dovuto ucciderlo nel pomeriggio. Nel giorno del suo compleanno.
Si alzò e disse: “Io…
Vado a fare una passeggiata”.
Non prese neanche il
golfino e uscì velocemente dalla porta.
Sebastian guardò il
figlio. “Sì, lo so. Non dire niente.
Scusatemi…” Jakob si alzò prendendo la
bottiglia: perdinci, era sempre il suo compleanno!
“Jakob” lo richiamò
il padre. Lui si voltò, preparato a un eventuale rimprovero,
ma lui gli allungò
i due bicchieri impilati, sorridendo.
Il ragazzo annuì e
sussurrò: “Grazie”.
Eleni sospirò quando
Jakob uscì di casa quasi di corsa.
“Ti ricordi quando
dovevamo dividerli? Perché litigavano in
continuazione?” Sebastian alzò le
spalle e rispose: “Non mi sembra molto diverso. Almeno non si
mettono più le
mani addosso” .
Eleni sorrise.
“Sicuro?”
Sebastian si voltò
verso la porta da dove era uscito il figlio. “Che
facciamo?” le chiese, senza
rispondere alla sua domanda.
“Io ho fatto una
torta. Chi vuole una fetta di torta?” chiese lei sorridendo,
rivolta alle
bambine. Gridolini eccitati riempirono la stanza.
***
Jakob corse per
raggiungere la caletta. Lei doveva essere lì. Per forza. Non
poteva essere da
nessun’altra parte. Ma stette con il fiato in gola
finché non la vide.
“Wolfrun!” esclamò
quando vide la sua figura sulla spiaggia, ferma a guardare il mare. La
ragazza
si voltò, sorpresa.
“Jakob?” Lui annuì e
le mostrò la bottiglia.
“Scusa?” provò.
Wolfrun non sapeva
cosa avesse quel ragazzo di tanto speciale. L’aveva fatta
incazzare, aveva
desiderato ucciderlo e tagliare il suo corpo in tanti piccoli pezzi, ma
quando le
sorrideva, lei si sentiva persa. Continuò a guardarlo mentre
si avvicinava.
Aveva la bottiglia di vino e due bicchieri. Si avvicinò a
lei e sorrise ancora.
“Sono un idiota…”
incominciò lui.
“Sì”. Dovette
trattenere un sorriso che, incurante del suo pensiero, tentava di
arrivare alle
sue labbra.
“Ti va di
festeggiare il compleanno di
quest’idiota?” chiese ancora Jakob, l’idiota.
Non si sentiva arrabbiata come prima. Ma non l’avrebbe
ammesso. Sbuffò.
Lui le fece cenno di
sedersi presso una roccia piatta. Guardò la pietra e poi
tornò a guardare lui.
“Dai, su, è il mio
compleanno…” provò ad ammorbidirla lui.
Sbuffò ancora, ma lo seguì. Jakob
appoggiò
i due bicchieri mentre si sedeva e aprì la bottiglia.
“Pensavo di non
poter bere vino fino a che non avessi compiuto diciotto
anni…” disse lei,
mentre lo osservava aprire la bottiglia. Lui versò il vino.
“Non lo dirò a
nessuno”. Ammiccò e le porse il bicchiere facendo
tintinnare il suo con quello
della ragazza.
Wolfrun bevve. Non
sapeva che gusto dovesse avere il vino, né se fosse
più o meno buono. Prima del
virus aveva visto il vino solo sulla tavola dei suoi genitori, ma loro
non
glielo avevano mai fatto bere. Aveva bevuto un bicchiere di Champagne
una
volta, ma non si ricordò in quel momento che sapore avesse.
Quando Jakob la
guardò con uno sguardo strano, lo scolò tutto.
Jakob non le disse
di andarci piano. Versò il vino ancora per tutti e due e le
disse: “Stasera non
balli…”
Lei spalancò gli
occhi sorpresa, ma poi lo guardò stringendo lo sguardo su di
lui,
domandandogli: “Come fai a saperlo?”
Jakob indicò un
punto sopra le loro teste. Lei alzò lo sguardo e vide la
collina. Aprì la bocca
ma non ne uscì nessun suono. Jakob sorrise.
Ma… lui…
lui… sapeva
che lei ballava sulla spiaggia? L’aveva vista? E
l’aveva vista anche quando
faceva il bagno nel mare? Spalancò ancora di più
gli occhi quando pensò al
fatto che si spogliasse prima di immergersi nell’acqua. O
santo cielo! Prese il
bicchiere e lo bevve ancora tutto di un fiato.
“Ok. Forse dovresti
andarci piano” disse, prendendole il bicchiere e
appoggiandoli tutti e due,
vicini, sulla roccia piatta.
Jakob aveva già
bevuto del vino, di nascosto con gli altri e anche la birra, ma lei non
era
abituata e lui aveva paura che le desse alla testa.
Per un momento
guardarono tutti e due il mare. Ma poi Jakob la osservò di
sottecchi mentre
guardava l’orizzonte.
“Quando ero piccola
odiavo ballare…” confessò lei. Si
girò verso di lui e i suoi occhi divennero
grandissimi mentre continuava. “I miei mi avevano obbligato a
frequentare il
corso di danza di Madame Cheviot, a Berlino, e io lo odiavo. Era tutto
un fai così e fai cosà, pieno di regole,
nozioni di portamento e altre stupidate
varie…”
Jakob la guardò
mentre si girava ancora verso il mare. Quando non parlò
più le disse: “Mio
padre ballava con mia mamma in soggiorno. O in cucina. Le prendeva la
mano e la
faceva girare mentre rideva. È un ricordo che mi ha aiutato
nei momenti
difficili”.
Lei annuì come se
comprendesse il significato di quello che intendeva. Doveva essere
proprio
così. Poi si girò verso di lui e Jakob
notò che aveva gli occhi scuri, come se
fossero pieni di un’emozione forte da controllare.
”Sei stato fortunato,
allora”. Come?
“Perché?” Lei si
alzò e scosse la sabbia dalla gonna.
“Perché avevi dei
ricordi felici”. Il suo tono era triste.
Perché, lei come
aveva fatto in quei tre anni a Berlino? “Tu non avevi ricordi
felici? E come
facevi?”
“A far che?” chiese
lei, guardandolo.
“A far passare i
momenti difficili”. La sua voce era serissima.
Wolfrun si prese
tempo per rispondere. Cosa avrebbe dovuto rispondere?
‘Organizzavamo le Feste
della Morte. Davamo fastidio agli altri. Rapivamo bambini nei loro
letti. Picchiavamo
e ci facevamo picchiare. Ti prendevo a pugni. Ho bruciato il castello
della tua
ragazza. Ero io, i momenti
difficili’. Alzò le spalle, decidendo di non dire
niente.
“Dovresti
ricordartelo, quello che ho fatto”, ma non lo
guardò, mentre lo disse. Sentì
che si stava alzando e se lo ritrovò di fronte, con una mano
tesa verso di lei.
“Balla con me,
Wolfrun”. Quando lei non gli rispose, le prese la mano,
tirandola verso il bagnasciuga.
“Dai, non farti pregare…”
Lei si fece un po’
tirare, ma alla fine lo seguì. Jakob la fece volteggiare
come nel suo ricordo papà
faceva ballare la mamma. All’inizio lei sbuffò, ma
poi smise e ci prese gusto,
lasciandosi guidare.
Quando finì la
musica nella testa della ragazza, per Jakob era troppo presto, ma lei
si fermò.
Rimase lì davanti a lui, rilassata e quasi sorridente e
disse semplicemente: “Grazie”.
Lui non aveva idea
di quanto le costassero quelle parole, non poteva immaginare.
Ma a Wolfrun era
piaciuto davvero. Quando tentò di sfilare la mano dalla sua,
lui la trattenne.
Alzò lo sguardo per capire cosa stesse succedendo: Jakob era
così strano, era
diverso dal solito. I suoi occhi…
Con uno scatto
fluido e veloce, la tirò verso di sé e le
posò una mano sulle reni. Prima che Wolfrun
se ne rendesse conto, l’aveva avvicinata ancora e aveva
chinato la testa verso
di lei e le sue labbra si erano posate sulle sue. Era stato un momento
solo, un
gesto velocissimo, di cui lei non ebbe modo di rendersene conto.
Lasciò che l’altra
mano le accarezzasse il viso e chiuse gli occhi, travolta da quella
nuova
sensazione.
Poi la mano di Jakob
si fece più possessiva e la sua bocca esigente. Si era
sentita stringere la
vita e poteva sentire il calore di lui scaldarle la pelle, anche
attraverso i
vestiti. Lui aveva schiuso le labbra e la stava assaggiando
accarezzandola
delicatamente con la lingua. Era fantastico. Nel momento in cui
aprì anche lei
la bocca, non riuscì più a pensare con chiarezza.
Un’esplosione di colori le
offuscò la mente e la sensazione di galleggiare nel vuoto
prese il sopravvento,
tanto che se la mano di lui non fosse stata lì sulla sua
schiena avrebbe
pensato di accasciarsi per terra.
Si alzò in punta di
piedi per ricambiare il suo bacio e sentì il seno toccargli
il petto. Avvicinò
una mano al volto del ragazzo e gliela posò sulla guancia,
poi la fece scorrere
fino ad affondare nei suoi riccioli. Morbidissimi riccioli. Oddio che
meraviglia. Altro che Georgos!
Quando lei si era
avvicinata e aveva sentito il calore dei suoi seni contro di lui, Jakob
si era
sentito morire. Gemette in maniera poco decorosa sulle sue labbra
mentre la
mano di Wolfrun gli massaggiava la testa.
Lei si irrigidì.
Come il giorno prima davanti allo specchio. La sua mano si
fermò e la ragazza
si staccò da lui. Quando aprì gli occhi per
capire la situazione, vide stupore
e sorpresa in quelli spalancati di lei.
Wolfrun sussurrò un
debole: “No”, portandosi una mano alla bocca. Tanto
che lui non fu sicuro di
averlo sentito.
“No?” chiese,
infatti, non capendo.
Lei si raddrizzò.
“No”. Adesso era molto più sicura di
sé. Jakob lasciò cadere le braccia lungo i
fianchi. Ma… Perché no? Lei, poco prima, sembrava
essere d’accordo. Aveva
ricambiato il suo bacio. Molto, anche.
Non fece in tempo a
chiederle niente perché lei, velocissima, si girò
e corse via.
***
Wolfrun si alzò dal
tappeto decisamente più rilassata. Lo yoga era un toccasana
in occasioni come
quella. Non che avesse mai baciato Jakob, prima. Si stese sul letto e
si portò
(di nuovo) una mano alle labbra.
Ora era rilassata,
sì, ma decisamente troppo imbambolata: continuava a pensarci
e non andava bene.
Quando era rientrata
aveva appena salutato e si era chiusa in camera. Aveva pensato che lo
yoga le
avrebbe disteso i nervi, perché si sentiva nervosa. Nervosa
ed eccitata. Di
solito serviva. A Tegel serviva per calmarle i nervi. Ma questa
volta…
Era stata baciata da
due ragazzi da quando era lì sull’isola, ma non si
era sentita così.
E quando aveva
baciato Jakob, invece… Non andava bene. Non riusciva a
controllare quello che
sentiva, e non le piaceva. Aveva bisogno di sapere quello che le
succedeva. Di
non perdere il controllo.
Quando aveva sentito
Jakob gemere si era resa conto di quello che stava facendo. Per fortuna
si era
fermata. Prima che succedesse qualcosa di peggio.
Però… si toccò di
nuovo le labbra. Come sarebbe stato se non fosse scappata via?
L’immagine di Chloe
le si affacciò alla mente.
Quando viveva a
Berlino e c’era ancora Chloe a guidare Tegel,
l’aveva beccata più volte in
atteggiamenti intimi con qualche ragazzo. All’inizio erano i
ragazzi grandi,
più grandi di Chloe, poi, quando il virus aveva iniziato a
reclamare vittime,
Chloe aveva iniziato a non sputare su niente e i ragazzi erano
diventati
diversi. Soprattutto verso la fine.
Forse era il suo
modo per non cedere alla paura. Andare a letto con i ragazzi grandi era
servito
ad avere protezione e farlo con quelli della sua età era
servito ad avere
alleati. E pensare che non ne avrebbe avuto bisogno. Chloe era forte,
sarebbe
riuscita a farcela anche senza quell’espediente.
Quando Wolfrun aveva
visto uscire Caspar dalla stanza occupata da Chloe
all’aeroporto di Tegel, una
delle ultime volte prima che lei stesse così male da non
avere la forza di fare
neanche quello, lo aveva guardato con uno sguardo glaciale e lui aveva
abbassato
gli occhi. Un altro idiota.
Però, mentre il
corpo di Chloe bruciava sulla pira funebre e Caspar era andato da lei a
chiederle cosa volesse fare con Tegel, riconoscendola come capo, aveva
capito
le motivazioni di Chloe, anche se non le aveva assecondate.
Quando poi il
ragazzo ci aveva provato con lei, aveva messo in chiaro quello che
pensava sul
sesso. E gli aveva detto che avrebbe usato il coltello su di lui, su
quella sua parte del corpo, se ci
avesse provato
ancora.
Stranamente, con
Caspar si era guadagnata più fiducia così che
come aveva fatto Chloe. Beh, almeno
finché non avevano tentato di mangiarsi Ziggy.
Sospirò.
Non aveva baciato
nessuno a Berlino, nessuno le si avvicinava e a lei stava bene
così. Però era
stata baciata da Hector, un ragazzo anche abbastanza carino della sua
età, l’anno
prima, durante una festa dell’isola, ma lei era stata presa
alla sprovvista e
l’aveva spinto via. Lui aveva riso e se n’era
andato, probabilmente da
un’altra.
Ci aveva pensato
tantissimo, forse aveva agito male, ma non se ne faceva un cruccio.
La seconda volta,
con Georgos, un ragazzo di ventitré anni che le aveva
proposto di andare a
vivere con lui. Si erano baciati
due settimane prima e lei
quella volta ci aveva provato, a ricambiare, ma era stato
così strano… Quando lui
aveva detto di amarla aveva capito che non sarebbe stato giusto dire di
sì,
visto che era così confusa. Così gli aveva
spiegato che non se la sentiva e lui
non si era neanche arrabbiato, le aveva detto che avrebbe aspettato.
E ora Jakob… Cosa dire del suo bacio
con Jakob? Oh non c’era confronto con gli altri. Nessun
confronto.
E la sua reazione! Si era sentita così
viva… Imprecò ad alta voce senza accorgersene.
Poi si tappò la bocca con la
mano. Perché aveva reagito così? Oh,
probabilmente perché a lei Jakob piaceva
tantissimo. Troppo.
Ma avrebbe dovuto contenersi. Forse
non era portata per certe cose. Forse lei non era capace di gestire quelle cose.
Le altre ragazze sì. C’era qualcuna più
o meno libera in quelle faccende.
Eleni una
volta aveva definito “chalarí
gynaíka” una ragazza
più grande di loro che ridacchiava
sguaiatamente quando era vicino a Jakob, ma quando poi la donna si era
accorta
della sua presenza non aveva detto più niente.
Wolfrun aveva fatto finta di non
capire il greco, quella volta, e aveva osservato la ragazza. E si era
sentita
proprio come lei, poco prima. O come Chloe nella saletta della Pan Am
di Tegel.
Scese dal letto e si rimise sul
tappeto. Aveva bisogno ancora di fare Yoga. Non le piaceva sentirsi
così. Così
confusa.
E dannatamente viva.
***
Jakob tirò un altro
sasso nel mare.
Saltò. Due volte. Ma solo dove non c’erano onde.
Era rimasto lì, sulla
spiaggia, con una sensazione indescrivibile nel petto.
Sospirò.
Mise le mani in tasca e diede un
calcio a una pietra rotonda, si avvicinò a dove prima si
erano seduti, si chinò
a prendere la bottiglia e i bicchieri e si incamminò verso
il sentiero. Finì il
vino direttamente bevendo dal collo della bottiglia.
Buon compleanno, Jakob.
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